In montagna, senza contadini e senza parroci non avremmo potuto fare la Resistenza

Fonte: www.trucioli.it

Nota: la registrazione è iniziata quando Lelio Speranza si era già tuffato nel discorso. Appena entrato nel suo ampio e lussuoso studio di presidente del CONI di Savona, gli ho riferito del mio precedente colloquio con De Vincenzi e degli avvertimenti velati di critica che gli ex garibaldini mi avevano dato non appena avevo detto loro che mi sarei subito recato da lui. Quanto segue inizia proprio a questo punto.
D: Si vede ancora che c’è della concorrenza tra di voi…
R: Ma no, non è che ci sia della concorrenza, per amor del cielo. Io sono stato sempre amico di Calvi e di De Vincenzi in particolare, non è possibile. Solo che in effetti la prima formazione partigiana che è venuta a Savona sono stati gli autonomi, il gruppo d’assalto della Divisione “Fumagalli”. Questa è una cosa molto chiara, perché sono venuto io il 23 [gennaio 1945] in quanto mio padre era in carcere. E anzi: il 23 mattina abbiamo portato via una compagnia di soldati della caserma di San Giacomo, dove adesso c’è la Finanza.
D: Erano dei “San Marco” che sono passati…[con voi]?
R: No, li abbiamo presi tutti prigionieri. Io ero stato lì prigioniero. (…). Si sono arresi. (…). Li abbiamo portati in montagna. Io li ho accompagnati fino a San Nazzaro e poi li ho dati al comandante “Mimmo” Astengo, quindi sono stati portati a San Bartolomeo [del Bosco]. Io invece sono ritornato su [sic!] in città alla sera, perché mi sono incontrato la sera del 23, in casa dell’avvocato Pessano, in piazza Sisto IV, nel palazzo di fronte al Comune, con l’avvocato Pessano e Ronzello, che poi è stato ucciso il 25 sera, un giorno dopo. Il 23 sera mi sono incontrato con loro per definire l’attacco che volevo fare l’indomani alle carceri.
D: In quel preciso momento quanto erano sorvegliate le carceri, più o meno del solito?
R: Dai “San Marco”, c’erano i “San Marco”.
D: Volevano portarseli via, o trucidarli [i prigionieri]?
R: Probabilmente li avrebbero ammazzati tutti.
D: Se ne avessero avuto il tempo, però.
R: Sì, ma questo è successo il 24 quando nessuno sapeva che il 25 sarebbe finita.
D: Forse qualcuno cominciava ad intuire,
tra di loro…
R: Sì, però…
D: Fra di voi?
R: No, nessuno. Loro avevano dei problemi, però è chiaro che quando lei uccide o non uccide deve prendere degli ordini da qualcheduno. Certamente il gruppo di “San Marco” che era lì avrebbe potuto – se avesse avuto l’ordine – trucidarli. Certamente i tedeschi, prima di andarsene, o le Brigate Nere, avrebbero dato l’ordine di ammazzarli tutti. Tanto più che alcuni, come mio padre… Era condannato a morte mio padre, doveva essere fucilato il 30 aprile, quindi
[…]
D: Una medaglia d’oro la meriterebbero milioni di italiani per quella guerra.
R: Sì, ma la città di Savona ha avuto notevoli sacrifici, e certamente questa iniziativa della liberazione dei trecento prigionieri non è una cosa da poco. Perché lei deve considerare che siamo andati lì vestiti da militari, con varie divise, che sembrassero repubblichine o no, rischiando la pelle in centro! Lì ci sono tre uscite. Quando è uscito mio padre e quel signore in fotografia [lo indica] che è ancora vivo, che sta a Loano (quindi volendo lei lo può anche andare ad intervistare perché è uno di 95 anni ma gliene dà 70), che ha vissuto la liberazione… [Quel signore] le dirà che quando è uscito, non sapendo dove scappare perché era di Loano, è venuto da me (io non mi ricordo il fatto, lo dice lui). Io ero molto teso, come parecchi, perché ci sono tre strade, tre vicoli che arrivano alle carceri. Il nostro problema era di vedere da che parte arrivavano prima le guardie repubblicane, perché sarebbero arrivate. Mentre invece abbiamo avuto la fortuna che in quel caso, tenendo conto che c’è stato un ritardo nelle informazioni – i telefoni erano staccati – le notizie le hanno avute dopo e sono arrivati quando era già tutto finito. Ci è andata bene, se no eravamo circondati e avremmo potuto difenderci…
D: Avevate staccato prima il telefono?
R: Ora, cosa vuole che le dica… Non posso dire che l’ho staccato, non mi ricordo.
D: Erano stati magari i sapisti con un sabotaggio…
R: No, i sapisti non c’entrano niente, non c’erano lì. Telefonate non ne hanno fatte dalle carceri, probabilmente per la paura. Però… Lì dove ci sono le carceri dietro non c’erano i palazzi che ci sono adesso, non c’era niente. Quindi sono fuggito in montagna, e lui [il signore di cui sopra] mi ha chiesto dove scappare, cosa fare. Lui dice che gli ho dato un tricolore con il timbro del Comando e con questo è riuscito ad arrivare fino a Vado; i partigiani che lo hanno trovato a Porto Vado lo hanno caricato su un camion e l’indomani mattina è arrivato a Loano. Questo è uno dei testimoni ancora viventi, ma ce ne sono parecchi ancora viventi che erano in carcere con me, quindi… Perché io ci sono stato in carcere insieme a mio padre e al comandante Baglietto che è quello che le dico. Ed ecco perché io potevo liberarli: perché conoscendo le carceri avevo fatto un progetto di entrata a bombe a mano e la sera del 23, proprio a casa dell’avvocato Pessano, con Ronzello avevo avuto una discussione burrascosa perché Ronzello gridava: “Non fare questa cosa perché siamo alla fine! Cerchiamo di evitare di fare delle altre stragi! Evitiamo che ci siamo dei morti tra la gente!” Perché è chiaro che a bombe a mano significava una carneficina. Però non c’era altra possibilità che entrare nel corridoio delle carceri per andare… Bisognava per forza buttare due o tre bombe a mano, creare un po’ di caos e poi entrare ed aprire le celle. Invece siamo riusciti a risolvere il problema facendo una specie di accordo con la “San Marco” perché si è arresa e se ne è andata. Ma perché il capo di lì era un milanese e io gli ho detto che Savona era circondata e che a casa lui non ci arrivava mai più. E’ stato un momento di panico tremendo per questa gente che non aveva nessun contatto e si è arresa. Cioè, si è arresa: non si è arresa per niente, tant’è vero che abbiamo fatto una mitragliata, due o tre attacchi, dei finti attacchi, per metterli in condizione di non farsi… “Lasciando uscire tutti, io non faccio la pelle a nessuno”. “Però noi…” “E noi faremo vedere che spariamo a destra e a sinistra così almeno se vi prendono i vostri voi scappate e andate a casa”. […]. Questa è stata la strategia che ha permesso di salvare delle vite, trecento persone. E vale come contributo della città per la medaglia d’oro. Non lo dico io, lo dicono gli altri. Io ho fatto la mia parte come gli altri; i partigiani hanno fatto la loro parte in varie zone. Io mi son trovato a fare quell’occasione lì perché ero comandato per fare questo dal CLN perché si trattava di evitare che i tedeschi prima di andarsene li ammazzassero perché l’ordine era di ammazzarli tutti. Li avrebbero ammazzati tutti: allora io sono dovuto venire il 23 per fare questa cosa, perché tra gli altri chi era dentro? Mio padre che doveva essere fucilato, è chiaro che dovevo liberarlo. Quindi li abbiamo liberati tutti, anche i ladri. Il comportamento del direttore io non lo so perché nemmeno l’ho visto, non mi interessava, e le guardie carcerarie sono state messe da parte in un locale, chiuse lì ad aspettare. Quando sono andati fuori tutti quello che è successo non ci si interessava più. Finito di uscire tutti noi ci siamo ritirati via perché era chiaro che tra poco poteva arrivare l’uno e l’altro. Questa è storia: chi parla diversamente deve dirlo ufficialmente, e io posso sempre… Ma non lo dico io.
D: […] La sua origine sociale. Che tipo di famiglia era la sua?
R: Mio padre è stato il più vecchio [lapsus: il più giovane] comandante della Marina mercantile perché a ventisei anni era già comandante. Quindi io vengo da una famiglia, da parte di mio padre, di marinai. Mio padre ha comandato un incrociatore durante la guerra, è stato anche, durante il ’33, perseguitato dal fascismo e poi durante la Resistenza è stato uno dei capi della Resistenza essendo membro del CLN provinciale. E’ stato arrestato, seviziato, condannato a morte, è stato nella mia cella con altri ancora viventi, quindi era un personaggio noto a Savona anche per il livello sociale. […]. Mia madre veniva da una famiglia di grossi commercianti savonesi, noti, una famiglia anche abbastanza enorme (!), quindi, diciamo così, di origine sociale media. […]. Mia madre si dedicava all’assistenza, l’ha fatto prima, durante e dopo la guerra. Dopo la Liberazione… […].
D: Comunque economicamente stavate abbastanza bene.
R: Come tutti in quel periodo, con i sacrifici che tutti potevano fare, eccetera. Certamente non avevamo problemi; c’erano molti che avevano problemi di sopravvivenza. […]. In quei tempi si poteva dire che c’erano grandi differenze sociali tra l’uno e l’altro.
D: Come si è svolta la sua educazione politica (…)?
R: Io vengo da una famiglia antifascista. Mio padre era un antifascista, è stato… […]. Di origine cattolica. Io vengo dai Salesiani, quindi ho una cultura soprattutto cattolica di origine salesiana, in cui la solidarietà, l’amicizia e la socializzazione stanno alla base del messaggio di Don Bosco, quindi credo che questa indicazione abbia servito. Io sono stato allievo di parecchi istituti salesiani.
D: Quindi, essendo allievo dei Salesiani, un po’ come De Vincenzi che è stato allievo degli Scolopi, siete entrambi riusciti a sfuggire all’indottrinamento, in buona parte.
R: L’indottrinamento non mi è mai successo; da parte di chi?
D: Del fascismo.
R: L’educazione familiare è quella che ti dà la coscienza di capire forse prima… […]. L’insegnamento di mio padre mi ha permesso di capire prima di altri quale era la tragica realtà italiana e quali pericoli portano le dittature in una società democratica, se così si può dire. Certamente una dittatura non sarà mai una società democratica; purtroppo soggiace alle prepotenze e alle malversazioni. Io avevo questa cultura che peraltro anche nell’ambiente cattolico che
frequentavo era, diciamo così, tendenzialmente antifascista, non molto platealmente ma comunque la mentalità del clero di quel tempo… Non c’è dubbio che era gente che ragionava. Certamente non poteva essere fascista [la mentalità]. Non lo erano. E non lo erano perché l’educazione anche nelle scuole è stata prudentemente tollerante dal punto di vista del fascismo. […]. Gli insegnanti non collaboravano molto. Stavano molto cordialmente distaccati. […]. Il clero, perlomeno quello salesiano, si è sempre mantenuto molto cordialmente distaccato pur nel rispetto dei vari ruoli, però non c’è mai stata una predisposizione verso il fascismo. […]. In generale non so. Io posso dirle che per quanto riguarda l’ambiente savonese certamente no [non vi erano fascisti nel clero], cominciando da monsignor Parodi, allora vicario vescovile, che è stato uno della FIVL e della Resistenza, certamente con lui, che è stato un maestro – allora era anche direttore del Seminario – tutti quei giovani preti di allora erano tutti notoriamente antifascisti e si sono immediatamente inseriti attivamente nella lotta antifascista nel loro ruolo. Su questo potrei dirle parecchio.
Soprattutto di don Silvio Ravera, don Genta… […]. Io posso dire che senza i contadini e senza i sacerdoti la Resistenza in montagna non potevamo farla. […]. In montagna, senza contadini e senza parroci non avremmo potuto fare la Resistenza; l’abbiamo fatta perché abbiamo avuto soprattutto l’assistenza, l’aiuto e la comprensione dei parroci, che comunque il parroco in quanto cristiano avrebbe dato a tutti, ma certamente, direttamente, era uomo della Resistenza al 99% se non al 100%. Sul piano cristiano lo era poi comunque al 100%. Per quanto riguarda i contadini, è ovvio che i contadini erano la nostra salvezza, perché chi ci avvertiva innanzitempo di come tirava l’aria in certe zone della montagna? I contadini. Chi ci dava da mangiare? Chi ci aiutava a nasconderci se eravamo in zone che non conoscevamo? Chi ci dava indicazioni per muoverci da una parte all’altra? Solo i contadini. Poi molti sacerdoti, fra i quali soprattutto don Silvio Ravera che era il nostro cappellano, che è un personaggio noto… [Parliamo brevemente degli scritti di Ravera, che conosco molto parzialmente]. Questa è una risposta ad Almirante quando ci ha chiamati “bande di straccioni”. Gli abbiamo voluto dimostrare che noi eravamo un esercito regolare, che funzionava regolarmente secondo gli stili [sic] dell’esercito. […]. Laceri e malvestiti lo eravamo, perché nessuno portava le divise: e anche affamati. Però eravamo organizzati. Non eravamo una banda di straccioni: eravamo un esercito, se vogliamo, vestito con degli stracci, che funzionava con delle leggi che erano quelle militari.
D: Come e quando è venuto in contatto con la Resistenza?
R: Subito dopo l’8 settembre. Il primo giorno dell’8 settembre [sic] noi giovani ci trovammo in centro città. Io con un gruppo di miei amici studenti siamo andati a portare via le armi dalla caserma del Prolungamento, abbiamo preso dei fucili che abbiamo poi nascosto nella stessa giornata in un vicolo vicino alla chiesa di San Pietro, qui vicino al porto, e poi abbiamo anche rischiato di essere mitragliati in piazza Mameli quando alcune camionette di tedeschi che sparavano senza guardare – se appena vedevano mezza finestra aperta gli sparavano contro – … Siamo riusciti a non farci sforacchiare perché ci siamo nascosti dietro le colonne proprio di questa piazza che lei ha visto, piazza Mameli. Perché ci siamo trovati casualmente lì? Perché facendo il giro l’8, il 9, il 10 settembre, i tedeschi hanno preso la città mitragliandola da tutte le parti e occupandola. […]. Sparavano proprio perché avevano paura, in qualunque modo, e – posso dirlo, l’ho visto io – in piedi su una camionetta c’era un italiano che indirizzava i tedeschi a come occupare la città. Non posso dire chi fosse perché non lo so: ma era un italiano.
D: Senz’altro era uno dei fascisti…
R: Non c’è dubbio. Qualcuno può anche ricordarsi il nome… […]. Nelle caserme dove siamo andatati noi, al Prolungamento, sono scappati tutti e ci hanno lasciato le armi, dei fucili ’91 che noi abbiamo nascosto, rischiando anche…
D: Quello è stato il vostro primo contatto. Ma poi cosa avete fatto? Siete rimasti in città delle settimane prima di salire?
R: Io ho avuto un’avventura particolare. Dopo il 25 luglio noi ci siamo trovati in giro a dimostrare e ad esultare per le piazze. […]. Tra l’altro in quel periodo molti della Questura prendevano delle fotografie; per cui ne sono avvertito da uno della Polizia che dopo l’8 settembre faceva da contatto con non so chi. Sono stato avvertito che in queste fotografie fra l’altro c’ero anch’io. (…) Per cui mi sono dovuto nascondere. Sono andato in casa del professor Noberasco, che era un noto medico primario psichiatra, allora mio compagno di studi ed amico – noi andavamo tutti in un bar (…), eravamo una serie di studenti, che poi ci siamo trovati anche in montagna assieme – . Questo Noberasco, noto antifascista, anche lui di famiglia, come la mia famiglia, che ci conoscevamo dall’infanzia, mi ha nascosto a casa sua alla Villetta. Lui era sfollato con la famiglia a Santuario, per cui aveva la casa vuota qui, sulle alture di Savona. Allora mi ha nascosto in casa sua e sono stato lì una settimana in attesa che cambiasse l’allarme. E come è cambiato l’allarme? Dopo l’8 settembre, dopo due o tre giorni la polizia, diventata al servizio dei tedeschi, immediatamente, è andata in giro con queste fotografie per vedere se rastrellando in giro per la città trovavano… C’era un gruppo di persone che avevano queste fotografie e andavano in giro; guardavano… “Quello lì”, tac, per vedere di beccarli. Perché ovviamente non avevano i nominativi. Avevano le fotografie di quelli che avevano partecipato a manifestare [sic] il 25 luglio. […]. Io sono dovuto stare [incomprensibile] sette – otto – dieci giorni, non mi ricordo più, tant’è vero che a un bel momento mancava anche il mangiare. Mi ricordo un fatto anche così, semmai simpatico, perché lui [Noberasco] stava a Santuario di Savona che è a sette chilometri da qua, aveva la casa, e veniva giù tutti i giorni in bicicletta. Mi veniva ad avvertire e a sentire per darmi le notizie. Mi ricordo che non avendo da mangiare niente aveva portato due uova, e mi aveva portato le uova dicendo: “Guarda, ho due uova”. Perché non andava certo a casa mia: i miei erano avvertiti che non potevo farmi vedere, ma nessuno sapeva dov’ero, lo sapeva solo lui. E solo a mia madre ha detto: “Non si preoccupi che si è nascosto: non so dove ma si è nascosto”. E’ finita lì. Dopodiché lui, che aveva dei contatti con alcuni del movimento antifascista, perché noi, dopo il 25 luglio era noto chi era antifascista, c’erano già dei gruppi che poi, dal 25 luglio all’8 settembre, si sono allargate le conoscenze, si è aperto un discorso nuovo, quindi molti avevano preso delle posizioni, voglio dire, magari più aperte… Dopodiché hanno provato una settimana: perché per una settimana sono andati in giro agenti con queste fotografie [incomprensibile] per individuare. Poi l’han smessa. Io dopo mi pare dieci giorni così, visto che si erano calmate le acque sono uscito e ho cominciato a circolare con un po’ di prudenza. Ma anch’io avevo una casa al Santuario di Savona come questo Noberasco, ed è chiaro che mi ritiravo al Santuario dove avevo organizzato i primi gruppi della Resistenza. Noi abbiamo cominciato subito con la Resistenza. I primi gruppi di giovani della Resistenza…
D: Quand’è che avete iniziato effettivamente a salire in montagna?
R: Io sono salito nella primavera del 1944 perché allora avevamo organizzato il Fronte della Gioventù. In quel periodo ho avuto un’esperienza che andando in bicicletta da Savona a Santuario, a Lavagnola, una frazione prima di arrivare su, c’era un posto di blocco della “San Marco” [lapsus: i “marò” sono arrivati in piena estate] e allora lì ti visitavano. Io portavo su i volantini perché ero un incosciente, ero giovane. Era una bicicletta da donna, col portapacchi davanti. Avevo lì una borsa con dentro i volantini. Nell’andare fuori, passato il posto di blocco sulla discesa di Lavagnola, mi si è sfogliato questo affare e sono caduti i volantini sulla strada. Allora io non sono stato a fermarmi: ho continuato velocemente – eravamo sul far della sera, sull’imbrunire – ho tirato veloce e me ne sono andato. Nessuno lì ha pensato – probabilmente poi hanno trovato i volantini – nessuno ha pensato che potessi essere io. Non lo so come è finita. Io, velocemente e a gran fatica, ho cercato di arrivare al Santuario. Prima di arrivare al Santuario, alla frazione San Bernardo, al ponte c’era un altro posto di blocco della “San Marco”, di militari, non mi ricordo più chi erano. [Faccio notare che la “San Marco” era ancora in Germania]. Guardia repubblicana, fascisti. Forse guardia repubblicana [GNR]. Comunque lì invece non mi hanno detto niente, sono passato, dopodiché evidentemente sono arrivato a casa. Dopo alcuni giorni ho deciso con mio padre che era venuto il momento di andare in montagna. Era giusto che andassi. Io non avevo obblighi, potevo non andarci, potevo fare quello che volevo. Invece…
D: Avete raggiunto “Bacchetta”?
R: No. Io sono stato a Montenotte prima. Sono andato a Naso di Gatto. Sono stato accompagnato da quelli delle formazioni garibaldine che già erano lì.
D: Il Fronte della Gioventù di cui mi ha parlato era un’organizzazione in qualche modo egemonizzata dai comunisti o…?
R: No. Non è vero. Il Fronte della Gioventù era un’organizzazione di giovani in cui i giovani comunisti avevano dato un grosso contributo, ma l’organizzazione era formata dalle rappresentanze di tutti i partiti. Tant’è vero che nel Fronte della Gioventù, dove c’è stato un grande personaggio che era Stefano Peluffo, fucilato qui al Priamar, uno degli ispiratori, che veniva da una famiglia di cattolici professanti – suo fratello è attualmente parroco di Albisola, quindi una famiglia di cattolici – …
D: Erano gli stessi Peluffo parenti dell’altro prete ucciso [don Nicolò Peluffo, ucciso dai fascisti nel marzo del ’45]?
R: No, non erano parenti. Don Peluffo l’altro può darsi [che fosse] parente alla lontana, però sono due famiglie differenti. Questo Stefano Peluffo, grande personaggio e mio grande amico, è stato arrestato, poi l’hanno fucilato, e dopo la sua morte si è sviluppato organizzativamente il Fronte della Gioventù con i vari rappresentanti. Io rappresentavo il Partito Repubblicano, il dottor Pagnini […], che è stato poi adesso un grande dirigente del basket nazionale, rappresentava il partito Liberale; il dottor Mario Bruno rappresentava la Democrazia Cristiana – poi si sono laureati tutti – poi c’era il rappresentante del Partito Comunista che era Vigliecca. Saltuariamente è venuto anche Morachioli.
Io, che non lo conoscevo, l’ho trovato in una riunione del Fronte della Gioventù. Le parlo della primavera del 1944. […].
D: In che reparti ha militato?
R: Io sono stato nella Sesta Brigata Garibaldi [che ancora non esisteva, si sarebbe chiamata così in seguito] con alcuni miei amici tra i quali Calvi. Allora era la prima banda che si era formata qui a Montenotte. Dopodiché sono passato con le formazioni di “Mauri”, il primo gruppo [incomprensibile] nelle formazioni autonome, con alcuni dei miei amici, perché nella Brigata Savona, nella banda di “Bacchetta”, chiamiamola così, eravamo tutti amici, eravamo tutti dello stesso bar, quasi tutti amici. Prima io avevo l’incarico del collegamento tra le due formazioni – quando sono venuti a Montenotte anche quelli di “Mauri” – e dopo, di comune accordo, abbiamo fatto questo passaggio d’accordo col comandante della brigata, col quale non è che andassi molto d’accordo. Poi io sono entrato nelle formazioni della Prima divisione Langhe finché non si è formata la divisione “Fumagalli” che era un’emanazione della Prima divisione Langhe. Era lo sviluppo della Brigata Savona. [Interrompo riferendomi alla tardiva nascita dell’unità e ai rastrellamenti autunnali]. Sì, ormai noi [alla fine del ‘44] eravamo allo sbando, abbiamo preso [sic] il rastrellamento dell’inverno ’44 che è stato micidiale. Abbiamo combattuto contro la divisione corazzata tedesca “Goering” ed è stato micidiale: noi nelle Langhe abbiamo perso l’ira di Dio di gente. Abbiamo avuto dei massacri… Poi abbiamo fatto la divisione comprendente quattro brigate. [Cerco di capire se i partigiani avessero ben chiaro con quale divisione tedesca avevano a che fare nel Savonese, in altre parole se sapessero di avere di fronte la “Brandeburgo”: ma Speranza su questo punto non mi può aiutare]. So che il 24 [aprile 1945] ci siamo trovati qui con un battaglione [tedesco], io ho un’esperienza… Quello là [De Vincenzi?] non sa cosa dice: dal 23 al 25 è stata un’avventura qua a Savona col mio gruppo d’assalto. Nota: nel quale c’era il dottor Pagnini di cui le dicevo prima (…).
D: Comunque il vostro che è arrivato il 24 – 25 a Savona era un gruppo d’assalto iniziale, seguito due giorni dopo dal resto della divisione…
R: E’ stato un assalto di kamikaze. Io ho detto ai miei “chi vuol venire venga”; era tutta gente che ti sparava e poi ti diceva “chi va là”. Voglio dire, decisi, sapendo che ci potevano lasciare la pelle. Perché noi, non avendo le divise della Repubblica, ci siamo vestiti in strani modi. Io avevo una divisa di telo da tenda, che però non sapevi che razza di arma poteva essere. Mi ricordo un certo Venturelli che è stato un noto pugilatore e poi è morto, era vestito con una divisa della Decima Mas; era “sergente” della Decima Mas!… Che non ce n’era Decima Mas [incomprensibile], ecco; morale, molti altri vestiti da “San Marco”.
D: In quale zona operavate? Riferisca anche di trasferimenti significativi.
R: La divisione “Fumagalli” operava nelle Langhe e a Montenotte; ultimamente nella zona di Montenotte, e poi a Saliceto, Monesiglio, Mombarcaro…
D: Praticamente tutto l’arco della Bormida di Millesimo.
R: Certo, anche la valle Uzzone. Perché nella valle Uzzone, nella zona di Cairo, c’era la Brigata “Chiarlone”. La Brigata “Chiarlone” era in provincia di Alessandria, se vogliamo, nella zona di Spigno, Roccaverano, Dego, Piana, quella zona. Quella era la Brigata “Chiarlone”.D: Le cartine non sono molto chiare a riguardo di come erano dislocate le quattro brigate in cui poi si ampliò la Brigata Savona iniziale…
La Brigata “Valbormida” era la più avanzata. […]. La comandava Mimmino Montalbetti.
D: E la brigata che aveva conservato il nome di Savona?
R: La Brigata Savona, che poi è scesa a Cairo – ma si è cambiato tutto, perché col comando di divisione le posizioni strategiche delle brigate erano in relazione a quella che è stata la strategia di attacco finale – … Io appartenevo alla Brigata “Valbormida”; il mio problema era quello di venire in giù per questa operazione [la già citata liberazione dei prigionieri politici]. Allora, dopo [aver] fatto quella della caserma [San Giacomo], sono tornato col mio gruppo perché dovevo fare… E ho fatto parecchie iniziative. Quella delle carceri è una; ma un’altra più importante è quella dei telefoni. La notte del 24 [aprile]… Le do un particolare importante, che è noto perché è scritto anche su questo e altri libri [li indica]; c’è un libro che è stato fatto dalla Regione Liguria che riporta queste cose che hanno ripreso dagli archivi dell’Istituto Storico della Resistenza di Genova. Anzi, chi l’ha scritto era allora segretario provinciale del Partito Comunista di Genova, quindi non uno… Io non ero comunista. Quindi ha scritto queste cose che mi riguardavano. Io ho dovuto attaccare i telefoni alle undici e mezza più o meno, sono arrivato lì verso le undici. In piazza Mameli qua ci sono i telefoni, e passando dal portone di sotto ho preso una trentina di prigionieri tra tedeschi e “San Marco” che erano lì in attesa di far saltare tutto a mezzanotte. La “San Marco” doveva partire il 24 sera.
D:E quanti eravate quando avete preso questa trentina di prigionieri?
R: Eravamo pochi, una dozzina. […]. Mi ricordo sempre che siamo passati dal portone di via [incomprensibile]. Quando entra nel portone c’è una porticina che va nei sottofondi dei telefoni. Mi ricordo che siamo entrati alla cow boy perché allora Venturelli, che era un pugilatore, quindi uno fisicamente più dotato, ha aperto la porta spaccandola coi piedi, e poi abbiamo dato una mitragliata. Siamo entrati di volata dentro, erano tutti là in fondo al corridoio in un salone e si sono subito arresi. Non solo, ma non è finita lì. C’era un “San Marco” collegato con il comando della divisione ad Altare che ogni cinque minuti doveva contattare il comando e telefonare la situazione. Era in attesa dell’ordine di far saltare i telefoni, il palazzo, tutte le strutture telefoniche che erano nel piano di sopra, per bloccare le linee telefoniche generali. Questo come atto di sabotaggio per poter preparare la ritirata e non permettere al nemico di avere contatti. [Disapprovo l’idea che italiani devastassero una città italiana]. Glielo posso dire, perché il generale Farina a Savona ce l’ho portato io, quindi lo so. (…) C’erano alcuni tedeschi uno dei quali era austriaco e parlava bene l’italiano. I tedeschi hanno cominciato subito ad alzare le mani e a dire “Convenzione di Ginevra, Convenzione di Ginevra”. Gli abbiamo detto: “No, non vi ammazziamo, basta che vi arrendete subito”. Li abbiamo messi tutti in un mucchio là in fondo…
Intervista con Lelio Speranza
Stefano d’Adamo, Savona Bandengebiet – La rivolta di una provincia ligure (’43-’45), Tesi di Laurea, Università degli Studi di Milano, Anno accademico 1999/2000