Il comando della Divisione “Firenze” reagì prontamente all’occupazione tedesca

Come noto, l’annuncio dell’armistizio fra Regno d’Italia e Alleati venne dato nel tardo pomeriggio alla radio, dalla voce del maresciallo Badoglio, mentre la flotta anglo-americana si avvicinava al golfo di Salerno. La sera stessa il re con il capo del Governo, alcuni ministri ed i vertici militari si mettevano in viaggio alla volta del litorale adriatico, per intraprendere poi la navigazione verso Brindisi. Non era previsto che la città divenisse la sede provvisoria del Governo. La prospettiva probabilmente era quella di un rapido ritorno nella Capitale in seguito alla ritirata verso settentrione delle forze tedesche schierate nel sud della Penisola. Le cose andarono diversamente <26.
Nei Balcani, come del resto in tutti i territori occupati dalle forze italiane e nell’Italia metropolitana, la reazione tedesca fu immediata e coordinata da un piano d’azione messo a punto da tempo: il Fall achse, o “Ipotesi Asse”. L’obbiettivo era disarmare tutte le unità italiane, compresa la Milizia, ed acquisire al più presto il controllo della massima parte del territorio italiano. La priorità doveva essere data al controllo delle coste e delle zone di prossimità al nemico. Ogni resistenza doveva essere stroncata con la forza lì dove ciò fosse possibile. Dove il rapporto di forze giocava a favore degli italiani troppo nettamente si sarebbe dovuto prendere tempo: trattare in attesa dei rinforzi o dell’ordine di sganciarsi. Ovunque fosse realizzabile, marina e aviazione tedesca dovevano attaccare le unità navali italiane in navigazione. Ai prigionieri doveva essere posta la scelta fra la collaborazione, caso in cui li si sarebbe destinati ai reparti ausiliari, o il rimanere prigionieri, caso in cui si sarebbero dovuti avviare ai campi di lavoro in Germania. Gli ufficiali dei reparti che avevano opposto resistenza o avevano ceduto le armi ai partigiani andavano giudicati da un tribunale militare sommario e fucilati.
Che un tale piano esistesse era noto anche dagli italiani. Lo rendevano evidente tanto il comportamento dei tedeschi che le indiscrezioni arrivate dagli stessi vertici militari di Berlino. In un incontro a Venezia, il capo del servizio segreto militare tedesco, l’ammiraglio Whilehlm Canaris, aveva anticipato al generale Amè ciò che era in realtà già noto: i tedeschi avevano un piano per sopraffare gli italiani all’atto stesso della capitolazione <27.
Come si è detto, alcune disposizioni erano state in effetti prese dai comandi italiani già a partire dalla metà di agosto, ma con scarsissimi risultati. Limitandosi alla situazione nel teatro croato, tali precauzioni da parte italiana si erano concretate nello spostamento in Italia delle divisioni Sassari e Re, e con la creazione, il 5 settembre, di un nuovo comando di armata che raggruppava sotto il generale Gastone Gambara tutte le truppe italiane in Slovenia e Italia orientale. Con tale decisione, che sottraeva alla 2ª Armata, già indebolita dalla perdita della Sassari e della Re, anche l’XI corpo d’Armata cui era aggiunta la logoratissima divisione Murge, si cercava di creare un grosso raggruppamento di 10 divisioni a difesa del triangolo Fiume-Lubiana-Bolzano, riducendo la responsabilità del generale Robotti, comandante dell’Armata, al Carnaro, alla Dalmazia e all’Erzegovina, quest’ultima già de facto nelle mani dei tedeschi sin dal termine dell’operazione Weiss.
All’8 settembre le forze italiane in Croazia settentrionale erano costituite dal V Corpo d’Armata, costituito da due divisioni, Macerata e Murge, dal V Raggruppamento G.A.F. e da una brigata costiera, la XIV.
[NOTE]
26 Secondo le memorie di Roatta e di Ambrosio, così come la maggioranza dei testimoni, le disposizioni inviate nelle settimane precedenti ai comandi militari per fare fronte alla reazione tedesca avrebbero avuto bisogno ancora di alcuni giorni per essere implementate ma la necessità di annunciare improvvisamente l’armistizio, imposta dagli Alleati in vista dello sbarco di Salerno, sconvolse i piani italiani. Quali che siano state le ragioni, la macchina militare italiana reagì molto lentamente all’evento. Non così gli ex-alleati tedeschi.
27 A. Santoni, Le operazioni in Sicilia e Calabria, cit., p. 423.
Paolo Formiconi, All’8 settembre in Alberto Becherelli – Paolo Formiconi, La quinta sponda. Una storia dell’occupazione italiana della Croazia. 1941-1943, Ministero della Difesa – V Reparto – Ufficio Storico, 2015

La mancanza di direttive determinò il collasso dell’intero IX Corpo d’Armata in Albania, nonostante le forze tedesche fossero numericamente inferiori a quelle italiane logorate dalla campagna di Grecia e dalle operazioni anti partigiane. Il giorno seguente l’armistizio, i tedeschi con un reparto di paracadutisti si impadronirono dell’aeroporto di Tirana, e marciando sulla capitale, occuparono gli uffici dove risiedevano congiuntamente sia il comando GAE che il comando del IX Corpo d’armata senza incontrare alcuna resistenza. La cattura del Generale Ezio Rosi a capo del GAE decapitò la struttura di comando responsabile delle FF.AA, il Generale Dalmazzo comandante in capo della IX armata fu costretto sotto ricatto a diramare l’ordine di disarmo delle unità combattenti in cambio di un pronto ritorno a casa.
L’ordine n. 9042 imponeva a tutte le unità combattenti di cedere le armi e avviarsi verso le stazioni dei treni in Macedonia. Quanti accettarono il diktat imposto dall’ex alleato furono incolonnati attraverso marce forzate di 20 km al giorno, dotati solo di un armamento leggero per difendersi dagli attacchi partigiani. La seconda guerra mondiale giunse in Albania con notevole ritardo la sera del 8 settembre 1943. Le forze dislocate in Albania erano organizzate in 350 presidi in prossimità delle arterie stradali principali. Una valutazione strategica che si rivelò fatale perché formulata allo scopo di respingere eserciti di dimensioni ridotte come quello jugoslavo o greco. Il contingente italiano dislocato in Albania era organizzato sotto il Comando del IX Corpo d’armata costituito a sua volta dal IV Corpo d’armata di cui facevano parte la divisione “Perugia” nel settore meridionale, la “Parma” nella zona di Valona, la
“Brennero” nella provincia di kruja e dal reggimento cavalleria “Monferrato” nell’area di Berat. Alle dipendenze del XXV Corpo d’armata si trovavano la divisione “Firenze” nella zona di Dibra, la divisione “Arezzo” nel settore di Corcia mentre a nord nel settore Scutari-Kossovo stazionava la Divisione “Puglie” insieme ad alcuni reparti albanesi.
L’unica divisone italiana che disobbedì all’ordine diretto fu la “Firenze” <49 che per volontà dei generali Azzi e Piccini, comandante e vice comandante di divisione, si disimpegnò dalla propria zona d’appartenenza marciando in direzione Burreli con l’obbiettivo di contrastare l’avanzata nazista. La “Firenze” era composta da due reggimenti, il 127° ed il 128° fanteria e dal 41° artiglieria someggiata, ad essi si aggiunsero un reparto della divisione “Arezzo” e alcuni elementi del reggimento cavalleria “Monferrato”. In un’informativa del 9 settembre 1943 diretta al Consiglio supremo albanese firmata da un partigiano albanese, tale “Walter”, si apprende che il comando della Divisione “Firenze” reagì prontamente all’occupazione tedesca mobilitando 2000 soldati, 4 batterie leggere e una anticarro che sarebbero giunte in località Rezumi. Il messaggio prendeva nota anche dello stato morale degli italiani giudicato basso a causa delle decisioni prese dal governo Badoglio <50.
Il generale Azzi, rimasto l’unico punto di riferimento per l’esercito italiano, si accordò con i partigiani locali e con Hoxha per sferrare un pesante attacco alla roccaforte di Kruja, località con la più alta concentrazione di fascisti di tutta l’Albania. Il presidio della città era difeso dalla “Brennero” e da reparti tedeschi che rappresentavano l’unico ostacolo prima di giungere al porto di Durresi e procedere così al rimpatrio. I comandanti Azzi e Piccini fecero saltare il ponte sul fiume Drin per evitare che i tedeschi convergessero in una manovra di accerchiamento. Giunti in località Burreli, il 9 settembre 1943, fu stipulato il primo accordo tra l’esercito italiano, i partigiani albanesi di Haxhi Lleshi e la missione britannica del capitano Hands. Successivamente il comando supremo dell’ELNA, <51 in un documento del 11 settembre 1943 ordinava a tutte le formazioni partigiane di cessare ogni attività ostile contro i fanti delle divisioni “Firenze” e ed “Arezzo” ora alleati contro l’occupante nazista. Tutti i fascicoli relativi ai partigiani italiani erano stati distrutti per evitare che finissero nelle mani dei tedeschi che per il momento si erano limitati ad occupare i magazzini contenti il munizionamento pesante senza però disarmare i soldati italiani. <52
[NOTE]
49 Come riportato dal sottotenente Viscardo Azzi in ‘Il prezzo dell’onore’ la “Firenze” era un divisione di “manovra”, ossia di appoggio ad altre divisioni che nel periodo Aprile-Settembre 1943 partecipò a molte operazioni di
rastrellamento.
50 D.9 Fl. 2/ 41 Apl – Archivio Centrale di Tirana (A.C.T)
51 F. Benanti, La guerra più lunga: Albania 1943-’48, Mursia, Milano 1966, p. 107
52 D.9 FL.2 – A.C.T
Alessandro Renzi, L’occupazione fascista e la resistenza in Albania: il battaglione “Antonio Gramsci” (1939-1945), Tesi di Laurea, Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, 2015

Alcuni ritengono che le disposizioni erano state consegnate in tempo al generale Mario Roatta, Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, con la misteriosa “Memoria 44”, il cui vero testo non si conosce, perché era stato dato l’ordine di distruggere il documento dopo averlo letto. Mario Roatta, Vittorio Ambrosio (Capo di Stato Maggiore Generale) e Giacomo Carboni (Comandante del Corpo Motocorazzato a difesa di Roma) furono sottoposti a giudizio del Tribunale Militare di Roma per “omissione di provvedimenti per la difesa militare e abbandono del comando”, ma furono assolti con la sentenza del 19 febbraio 1949.
Sta di fatto che ai militari sparsi sui vari fronti non arrivarono nei giorni successivi all’annuncio dell’armistizio le necessarie direttive, mettendo in pericolo le truppe esposte alla reazione violenta dei tedeschi che, nelle settimane successive, trucidarono complessivamente venticinquemila soldati italiani circa e gli eccidi più gravi si ebbero nei Balcani.
Nei Balcani erano stanziate 35 divisioni con più di 600.000 soldati, in un territorio molto ampio, con presidi spesso isolati e senza collegamenti, con attacchi improvvisi dei partigiani. Dopo l’otto settembre le truppe italiane stanziate il Jugoslavia, Albania, Grecia, isole dell’Egeo e del Dodecaneso subirono perdite enormi, mai esattamente quantificate; episodi poco conosciuti, fatta eccezione per la vicenda della Divisione Acqui a Cefalonia ed a Corfù.
A Cefalonia gli italiani rifiutarono la resa e si difesero lasciando sul campo 1.250 soldati e 65 ufficiali. Dopo la consegna delle armi 155 ufficiali e 4.000 soldati circa furono giustiziati. Quanto avvenuto a Spalato nel settembre 1943 rappresenta un capitolo ignorato, noto a pochi soltanto per le rare testimonianze dei sopravvissuti. Fatti terribili che furono possibili per il venir meno delle istituzioni, per la mancanza di ordini e/o per ordini contrastanti ed illogici. Spalato era una splendida città che non aveva mai perduto le sue radici italiane; per secoli era appartenuta alla Repubblica Veneta e nel 1941, con l’occupazione fascista, aveva nella sua popolazione circa tremila cittadini di origine italiana, ai quali si aggiunsero centinaia di funzionari ed insegnanti provenienti da varie province italiane. Tra le armate italiane e la popolazione vi era amicizia e rispetto e gli episodi bellici, causati da aggressioni dei partigiani comunisti, erano ben controllati dalle truppe italiane. Nei Balcani non era difficile incontrare molesi sui vari fronti. Pagliarulo incontrò in Albania Giuseppe Calvani e Nicola del Re; a Spalato “Vincenzo Giusto, Matteo Tribuzio, Martelli, Gallo ed ancora un altro paio”.
[…] “Il giorno in cui fu dichiarato l’armistizio dell’Italia, 8 settembre 1943, il mio reparto si trovava di riposo a Spalato. Tutti ascoltammo dalla radio il comunicato di Badoglio ed io mi accorsi subito che i soldati non avevano colto il vero significato della dichiarazione. Esultarono ritenendo finita la guerra, desiderosi di tornare alle proprie famiglie, ma io invece ero consapevole dei rischi che correvamo, essendo dislocati in territori fuori dall’Italia, e provai a far capire ai miei esultanti soldati che la guerra più terribile stava per iniziare. E non mi sbagliavo”.
Vito Vittorio Pagliarulo
Giovanni Miccolis, 1943: orrori in Jugoslavia. Dal racconto del molese Pagliarulo agli eccidi in Dalmazia, Città Nostra – il giornale dei molesi, 2011