Dobbiamo pretendere un movimento tutto maschile contro la violenza sessuale

In Italia le manifestazioni e i volantini legati all’8 marzo del 1984 avevano come tema principale quello della pace, una pace, così come era avvenuto nel decennio precedente con il dibattito sulla violenza, una volta ancora pensata attraverso la differenza uomo-donna. In un volantino del Movimento femminista romano di via Pompeo Magno dell’8 marzo del 1984 <596 si legge: “Neutralizzare, stravolgere, cancellare il potere dell’uomo sulla donna è l’unica strada per costruire la pace; affermare la nostra identità di soggetti con potere decisionale a tutti i livelli è l’unica strada per decidere la pace; evidenziare come negativi i “valori” del maschile – potenza, aggressività, competizione – è l’unica strada per realizzare la pace; potere esprimere liberamente una sessualità autonoma, non etero-diretta è l’unica strada per vivere la pace; mettere fine alla discriminazione e alla violenza psicologica contro le donne lesbiche è condizione essenziale della pace; lottare contro i violentatori e gli stupratori ed estirpare la cultura della violenza sessuale è condizione essenziale per far nascere la pace. I “peggiori” per riaffermare una superiorità controversa, minacciano di distruggere tutte, tutti e tutto. Prospettiva sconvolgente e totalizzante che paralizza ogni altro tipo di lotta. I “buoni” promuovono manifestazioni e comitati inutili per la pace, ma strumentali alla conquista di consensi partitici e al tentativo di togliere di togliere energia al femminismo. Noi dobbiamo pretendere un movimento tutto maschile per la pace, come dobbiamo pretendere un movimento tutto maschile contro la violenza sessuale, perché al loro protagonismo di guerra e di violenza sessuale, non corrisponde alcuna pratica di autocoscienza ed autocondanna. Noi non vogliamo riempire con la nostra presenza nei movimenti della pace il totale vuoto etico dei maschi. L’attivismo pacifista è l’ennesima trappola con cui il patriarcato – fallito il tentativo di dare per morto il femminismo – vorrebbe distoglierci dai nostri obbiettivi. Per questo consideriamo grave scorrettezza e miopia politica l’avere scelto, per la prima manifestazione nazionale delle donne per la pace, una data così a ridosso dell’8 marzo […]. Da anni noi donne, lesbiche-femministe e femministe-separatiste, siamo impegnate in una lotta pacifista che non ha precedenti nella storia o almeno precedenti di cui si abbia memoria. Il separatismo è il solo femminismo, il femminismo è il solo pacifismo” <597.
Ritornarono i temi e le impostazioni retoriche incontrati ai tempi della presa di parola sugli eventi tragici che stavano sconvolgendo l’Italia del 1978. Si affermava nuovamente un’autonomia e un processo di soggettivazione femminista che attraversava i temi dell’agenda nazionale con una propria specificità. Il decidere sulla pace doveva costruirsi attraverso dei corpi sessuati che non aderivano a nessun tipo di schieramento e di politica istituzionale, anche se a favore del disarmo.
«L’attivismo pacifista è l’ennesima trappola con cui il patriarcato – fallito il tentativo di dare per morto il femminismo – vorrebbe distoglierci dai nostri obiettivi», una frase da sottolineare perché ripeteva, così come durante il rapimento Moro, il desiderio femminista di imporre le proprie urgenze, al di là dell’agenda politica nazionale. La posizione ambigua del volantino proprio sull’attivismo pacifista come trappola del patriarcato, attivismo in cui il femminismo era però impegnato in prima linea, era la conseguenza di un dato contingente: l’organizzazione, il 10 marzo del 1984, a ridosso della festa della donna, della prima manifestazione nazionale delle donne per la pace. Scelta, quella della data, infelice per il femminismo e che sollevò molte critiche. Ma c’è anche una torsione importante da rilevare: laddove nel decennio precedente il separatismo portava a gesti politici che interrogavano solamente la soggettività femminile, nel decennio ottanta la pratica femminista interrogava anche la soggettività maschile, chiedeva agli uomini una presa di parola sulla pace e sulla violenza sessuale. Il gruppo femminista “donne contro le armi”, in un volantino ciclostilato l’8 marzo del 1984 sottolineava la connessione violenza sessuale-violenza militare e scriveva: «la subordinazione di un sesso all’altro è il principale ostacolo al progresso umano. Noi donne vogliamo la liberazione. Noi donne vogliamo la pace con l’abolizione di tutte le armi» <598.
La presa di parola contro il militarismo e contro ogni forma di violenza partiva dalla differenza uomo-donna ed era solo in virtù di tale differenza che le diverse forme di violenza potevano essere equiparate. A Catania, le parole d’ordine del coordinamento per l’autodeterminazione della donna, impegnato a Comiso nella lotta per il disarmo nucleare, si riferivano a un rapporto tra donne «Le donne con le donne possono» c’era scritto. «Cercarci, unirci, trasgredire, è ormai per noi l’unica possibilità di strappare le maschere deformanti e soffocanti con cui di volta in volta la società patriarcale tenta di nascondere le nostre identità e i nostri bisogni» <599.
Era significativo inoltre che lo striscione di apertura della manifestazione nazionale “io donna per la pace fosse “contro la violenza delle loro armi, la forza della nostra utopia”, a sottolineare nuovamente una divisione degli spazi e dei ruoli.
Riguardo al 10 marzo 1984, Edda Billi, una personalità importante del femminismo romano, il 23 marzo del 1984 scrisse degli appunti di riflessione a margine della prima manifestazione nazionale delle donne per la pace dal significativo titolo “La nostra reprivata, la loro repubblica”. Il militarismo, allo stesso modo della violenza politica e della violenza sessuale, era manifestazione di quello che Edda Billi definiva maschismo. Il separatismo era ancora una volta la chiave di volta per affermare un altro modo di fare politica. Nel documento Edda Billi scrisse: “Il militarismo, con la violenza sessuale, è la punta emergente di quell’orrido iceberg che è il maschismo. La nostra biofilia contro la loro necrofilia. Le donne dovevano fermarlo. Sul “dovevano” qualche riflessione, oggi, mi sento di farla. Noi donne abbiamo sempre “dovuto” fare qualcosa. Possibilmente per qualcuno. Anni di riflessione e ribaltamenti di visioni di mondo hanno cambiato questo modo d’essere. Agente, non agita. Persona. Io sono mia. Decido autonomamente. Fuori dagli schemi che imbrigliano, svuotano, annullano. Non voglio compromessi. Con le donne posso. Non devo. Posso. Allora la domanda nuova che mi rivolgo e vi rivolgo. Possiamo fermarli? Di quali scandali grandi abbiamo bisogno per riconoscerci e ritrovare quei “barlumi di donnità” che soli ci salveranno e dal ricatto dell’invivibilità e dal terrore che stanno tessendo, maglia su maglia, intorno a noi? Ritrovo voglie di presa di coscienza; le donne non possono riconoscersi nelle sfilate pacifiste se non per briciole irrilevanti cariche d’impotenza. Dagli anni cinquanta ad oggi di sfilate, parole e gesti se ne sono visti tanti quanti le proliferazioni di armamenti e di guerre guerreggiate. Quasi direttamente proporzionali, quasi funzionali al sistema. Da questo dubbio, che pongo come domanda, forse lo smascheramento. La parola pace per noi donne ha altro sapore. Nasce dalle nostre pance. La nostra reprivata contro la loro repubblica. La nostra donnità contro la loro umanità”. <600
Era una politica ancora separatista quella delle donne, nonostante il movimento pacifista fosse un movimento misto. Non vi era riconoscimento nelle “sfilate pacifiste” se la parola pace non fosse stata pronunciata attraverso la declinazione che l’esperienza femminile e femminista ne dava. La pratica dell’autocoscienza che si costruiva attraverso una presa di parola tra donne impregnava i discorsi femministi pacifisti degli anni ottanta, nonostante quella pratica fosse stata caratteristica del decennio precedente; nonostante inoltre la battaglia pacifista fosse comune anche a molti uomini impegnati nel movimento per la pace, si riteneva ancora necessario elaborare una politica autonoma e separatista: da una parte la “reprivata”, e la “donnità”, dall’altra la “repubblica”.
La scelta separatista nel movimento per la pace fu sicuramente un argomento dibattuto, fonte di riflessione. Roberta Tatafiore nel 1984 e dopo la manifestazione del 10 marzo si domandava: «esiste una specificità delle donne nel movimento per la pace, e questa specificità richiede le categorie e le scelte del separatismo?» <601 Per rispondere a questa domanda, Tatafiore intervistò tre donne femministe e pacifiste, Anna Pia di Udine, Anna di Roma e Antonella di Milazzo, incontratesi a Roma durante un’assemblea nazionale indetta da “La ragnatela” e svoltasi al Governo Vecchio. Emblematiche le loro risposte per il ripensamento della pratica femminista e della scelta separatista alla luce dell’esperienza e dei non detti sulla violenza politica di qualche anno prima. Riporto l’intervista di Tatafiore ad Antonella che si esprimeva così: “Il separatismo per me è la ricchezza della quotidianità che ho con le donne non il rifiuto del maschio, perché i maschi noi li stiamo conoscendo in un modo diverso. Ho la memoria del movimento del Settantasette e ho fatto mia l’autodeterminazione, la riappropriazione dei miei bisogni. Questo mi spinge ad agire per dire no ai missili. Ma proprio l’azione porta a rifondare i valori: dopo le lacerazioni del movimento del Settantasette che proponeva una politica scissa, inconciliabile tra violenza e repressione, antistituzionalismo e chiusura degli spazi istituzionali, coraggio e paura, privato e politico, quello che ci ha ridato vita e voglia di lottare è la scelta delle azioni dirette non-violente. La non-violenza come pratica politica cambia tutti, uomini e donne”. Nel senso che elimina le disuguaglianze? [chiede Tatafiore] “Nel senso che uomini e donne si modificano nella stessa esperienza. Per fare un blocco a una base, per non cadere nella trappola della violenza che ti fa la polizia, ma anche per non cadere nella trappola dei partiti che, con il loro attendismo, ti vogliono immobilizzare, devi essere serena, fidarti di chi ti sta vicino, non dissociarti tra l’emotività e la razionalità. In questo i compagni ti sono pari, vivono la stessa ricerca. Oggi scegli i compagni che ti sono simili: io mi sento forte con il mio linguaggio critico, trasgressivo rispetto al potere, e loro devono in un certo senso adeguarsi a me, esprimersi, non più per contrapporsi al potere ma per modificare se stessi”. <602 La scelta del separatismo fu ripensata attraverso l’esperienza della crisi del decennio appena trascorso, una crisi che aveva provocato lacerazioni all’interno del movimento femminista così come all’interno dei movimenti sociali coevi e che aveva imposto aut aut a cui il femminismo aveva risposto con molta difficoltà. Nel decennio ottanta, la scelta pacifista e le azioni non violente dirette portarono a un ripensamento del separatismo che acquisito come eredità avrebbe dovuto prendere forma in altri modi, non più come separazione dai maschi ma come pratica politica che chiamava in causa, interrogava gli uomini stessi. Il tema della trasgressione, più che quello dell’estraneità era al centro delle pratiche politiche femministe pacifiste, una trasgressione a cui anche gli uomini erano chiamati a partecipare. Tuttavia, Anna Pia, nell’intervista di Tatafiore specificava: “Naturalmente questo non si verifica a tutti i livelli del movimento […] quando è in gioco il potere, nelle varie “segreterie tecniche”, dove si sceglie in base alle componenti politiche di appartenenza, le donne tornano a fare l’angelo del ciclostile, e lì capisco che un atteggiamento di rifiuto dei maschi e delle loro logiche è necessario”. <603 Permaneva in alcuni luoghi del potere la pratica di un separatismo necessario. E allora la domanda di Tatafiore si riformulò: «non è: esiste una specificità delle donne nel movimento per la pace? Piuttosto: esisterebbe una specificità del movimento per la pace, se non ci fosse stata – e non continuasse – la pratica politica delle donne?» <604 Non era più tempo di ribadire l’estraneità come pratica politica né tanto meno di abbracciare il separatismo come dogma o come finalità.
Qualche settimana dopo, il 26 marzo 1984, l’allora ministro della Difesa Spadolini annunciò che i primi missili Cruise sarebbero stati operativi a Comiso entro la fine di quel mese <605. Alcuni giorni dopo, il 13 aprile, a Ragusa iniziò il processo contro 12 donne di diversa nazionalità (tedesche, danesi, irlandesi, inglesi, olandesi e un’italiana, Anna Luisa L’Abate), arrestate l’11 marzo del 1983 per un’azione non-violenta contro l’installazione dei missili a Comiso <606. Sdraiate a terra davanti ai cancelli dell’ex aeroporto Magliocco avevano tentato di impedire il passaggio dei camion che trasportavano il necessario per allestire la base missilistica: strutture prefabbricate, materiale edilizio, macchinari. Rilasciate dopo cinque giorni di carcere, e immediatamente espulse le straniere, le dodici donne dovevano rispondere dei reati di blocco stradale e di occupazione di suolo privato (un’aggravante che aveva impedito che fossero processate per direttissima): rischiavano pene dai due ai dodici anni di carcere <607. Chiara Ingrao, consapevole dei processi di traduzione e trasmissione tra pratiche politiche femministe e movimento pacifista, dopo la manifestazione del 10 marzo scriveva: “dopo anni che mi rompo la testa con le doppie e le triple militanze, mi sono trovata ancora una volta a ricominciare daccapo, ambigua e sdoppiata, a fare la femminista nel movimento per la pace, e a parlare di pace nel movimento delle donne, e ancora una volta a intrigarmi a voler scoprire quale può essere un rapporto non del tutto frustrante tra politica “delle donne” e politica “di tutti”… Dico “ancora una volta”, ma non lo credo. Perché così come il pericolo nucleare è qualcosa di inedito nella storia umana, altrettanto inediti e “storici” sono secondo me i cambiamenti che esso impone nel linguaggio, nei contenuti, negli strumenti della politica. Lo abbiamo ripetuto fino alla nausea, ma giova ricordarlo: finora la politica “di tutti” è stata pensata, praticata, dominata dagli uomini, dalla loro visione del mondo. Noi abbiamo alternativamente protestato, pianto, taciuto, o invece, per esserci dentro, ci siamo adattate, rimodellate, “emancipate”. Sempre comunque alla rincorsa di qualcosa che non ci apparteneva e che, gli uomini, sentivano gli apparteneva da sempre. […] Non si tratta quindi di “perdere la nostra identità”, appiattendola su un tema “di tutti”: ma di riaffermarla caparbiamente, anche su temi che molti vorrebbero considerare “asessuati”, e fautori di riconciliazione tra i sessi e tra le classi. Non si tratta di di dichiararsi “materne e pacifiche”: ma conflittuali al massimo, perché solo un aumento della conflittualità sociale, politica, personale,- non distruttiva, ma costruttiva di rapporti diversi – può far inceppare i meccanismi che ci stanno portando al conflitto “definitivo” che tutto distrugge. Non si tratta di scegliere o giudicare cosa ha più importanza oggi: se la legge sulla violenza sessuale o i blocchi non-violenti a Comiso. Si tratta di mettere a confronto, come abbiamo sempre fatto, l’infinita ricchezza dei nostri diversi percorsi, sapendo ritrovare il filo che li lega, al di là delle etichette e delle divisioni che altri vorrebbero imporci. È “utopia”, questa?” <608
In quegli stessi mesi veniva pubblicato dalle edizioni e/o di Roma “Cassandra”, l’ultimo romanzo di una delle più note scrittrici dell’allora Repubblica democratica tedesca, Christa Wolf. L’autrice riprendeva la situazione narrativa dell’Agamennone di Eschilo: la guerra decennale tra troiani e greci è finita, Troia è caduta, Cassandra, la figlia di Ecuba e Priamo, è stata trascinata a Micene dal vincitore, Agamennone. Mentre attende che il suo destino si compia (Clitennestra, la sposa di Agamennone, ucciderà prima il marito e poi la profetessa troiana), Cassandra ricostruisce la propria vita in un incalzante flusso di ricordi. Pezzo per pezzo il mito viene rifatto e diventa la storia di una donna che acquista lentamente una nuova coscienza, distaccandosi dai valori della classe dominante. Cassandra si ribella ai meccanismi polizieschi che dal Palazzo sono stati progressivamente allargati all’intera città. Svela le finzioni attraverso cui è propagandata l’ideologia della guerra a Troia. Registra con orrore il diffondersi della cultura patriarcale, della violenza e dell’oppressione di cui sono portatori i greci. La voce di Cassandra diventa così un atto d’accusa contro il potere “maschile” e contro la sua logica distruttiva, cui è contrapposto il ruolo fondamentale della dissidenza, la necessità di imparare a dire “no” <609.
Abbiamo già visto nei capitoli precedenti che per elaborare un pensiero femminista sulla violenza spesso si ritorna ai classici. Al momento la storia culturale del femminismo così come dei movimenti sociali e politici di quegli anni è il luogo di un vuoto storiografico. È quindi azzardato pronunciarsi sull’influenza del libro nel dibattito femminista. Sta di fatto però che alcune parti del libro furono pubblicate in alcune riviste femministe del periodo. Era un libro quello della Wolf che parlava sia alle femministe del decennio settanta e al loro rapporto problematico con la violenza e con il potere sia alle donne che nel decennio ottanta presero parola per il disarmo nucleare, e che impararono a dissentire, a dire no, a trasgredire per usare un termine che spesso ritornava nelle elaborazioni femministe sul tema della pace.
[NOTE]
596 Archivia, fondo Cedoc, b. 1984, fasc.3
597 Volantino del Collettivo “Vivere lesbica” e Movimento femminista romano di via Pompeo Magno, 94 in Archivia, Fondo Cedoc, b.1984, fasc.3
598 Archivia, Fondo Cedoc, b. 1984, fasc.3
599 Archivio di Stato di Catania, CAD, II c. 25
600 Archivia, Fondo Cedoc, b.1984, fasc.3
601 R. Tatafiore, Ritratto di pacifista in Noi donne, n.3, marzo 1984, p.46
602 R. Tatafiore, Ritratto di pacifista in Noi donne, n.3, marzo 1984, pp.46-47
603 R. Tatafiore, Ritratto di pacifista in Noi donne, n.3, marzo 1984, pp.47
604 R. Tatafiore, Ritratto di pacifista in Noi donne, n.3, marzo 1984, pp.47
605 A. Stabili, Sui missili Cruise è già battaglia in La repubblica, 27 marzo 1984, p.5
606 Archivio di Stato di Catania, CAD, IX g.
607 Missili: pacifiste alla sbarra in Noi donne, n.3, supplemento marzo 1984, p.3
608 C. Ingrao, Non siamo pacifiche e materne, in Noi donne, n.6, giugno 1984, p. 27
609 L’ira di Achille in Noi donne, n.3, marzo 1984, p.49
Marilisa Malizia, Il dilemma femminista dell’uso politico della violenza in Italia negli anni Settanta e Ottanta: tra pensiero politico e caso storico, Tesi di dottorato, Alma Mater Studiorum Università di Bologna, 2015