Un gruppo di alcuni di noi misero in atto il proposito di passare ai partigiani con armi e bagagli

1945 – Zona Rocce Bianche – Partigiani della Divisione Garibaldi “Gin Bevilacqua”. Si riconoscono, in piedi: Cioccio, Urbani, Radomiz. In basso: Caruzzo, Bavassano – Fonte: Quelli del P.C.I. Savona 1945-1950, Op. cit. infra

Savona. E’ scomparso a Savona Giovanni Battista Urbani, 95 anni, partigiano “Candido”, commissario politico nelle Brigate Garibaldi, esponente di spicco del PCI non soltanto a livello locale, sindaco della città e senatore per ben quattro legislature.
“E’ stato un tenace custode della più limpida memoria della Resistenza, aveva rappresentato per lungo tempo, nel PCI, una genuina interpretazione soggettiva della funzione pedagogica, di vera e proprio “educazione e integrazione di massa”, svolta dal Partito Comunista” lo ricorda Franco Astengo. “Urbani era un raffinato intellettuale dedito agli studi gramsciani, ai quali aveva dedicato importanti lavori soprattutto al riguardo delle questioni dell’educazione e della scuola di cui si era occupato anche a livello nazionale”.
“Nello stesso tempo non aveva mai smarrito il senso dell’appartenenza piena al movimento comunista non perdendo di vista i temi della condizione materiale dei lavoratori, dell’importanza dello sviluppo economico, della materialità della condizione di “classe” da cui far scaturire anche l’orgoglio dell’appartenenza politica. Rendere gli operai orgogliosi della loro appartenenza politica, sviluppare negli intellettuali il senso critico rispetto all’esistente, superare la naturale inclinazione all’autoconservarsi da parte degli apparati: su questi punti Urbani si era sempre misurato fino in fondo con coerenza e capacità di militanza piena”.
[…] Nel 2016 aveva dato alle stampe, per Marco Sabatelli editore, “Perché non posso non dirmi comunista”, memorie, scritti e documenti tra il 1944 e il 2016.
E’ stato presidente Provinciale dell’ANPI per un lungo periodo tra gli anni’70-90, aveva ricoperto l’incarico di sindaco di Savona tra il 1957 e il 1959, più volte consigliere comunale, assessore, consigliere provinciale era stato eletto al Senato per la prima volta con le elezioni del 1972, confermato nel 1976, 1979, 1983. Nel corso dell’XI legislatura era stato eletto segretario d’aula a Palazzo Madama.
[…] “Abbiamo appreso con grande tristezza la notizia della scomparsa di Giovanni Battista Urbani, partigiano “Candido” , dirigente del PCI, sindaco, senatore e presidente dell’Anpi provinciale. Per tutta la vita ha dato un contributo notevole per portare avanti i valori della resistenza, dell’antifascismo e della democrazia. Esprimiamo il nostro cordoglio e le più sentite condoglianze alla moglie Elisa e ai due figli. La Camera del Lavoro di Savona”, è il cordoglio espresso dalla Cgil savonese.
Ecco il ricordo di Nino Miceli: “Se ne è andato un gigante della politica savonese. Partigiano, commissario politico della Divisione Gin Bevilacqua, sindaco di Savona, insegnante e infine senatore della Repubblica. Comunista, studioso di Gramsci, giacobino. Era un uomo dall’energia inesauribile, colto, polemista incessante. Raramente sono stato d’accordo, ma l’ho sempre ammirato ed apprezzato, in particolare per la sua straordinaria convinzione ideologica, oggi quasi una parola incomprensibile, eppure era ciò che ci teneva tutti uniti anche quando la pensavamo in modo opposto…” […]
Redazione, Savona piange la scomparsa di Giovanni Battista Urbani, ex sindaco e senatore, IVG, 2 settembre 2018

Sono nato a Venezia il 3/11/1923 da una famiglia piccolo – borghese (commercianti) e sono il primo di quattro figli (due fratelli, di cui uno morto, e una sorella). La prima educazione fu caratterizzata dalla mancanza di tradizioni familiari (i miei genitori ebbero ambedue ragioni di malcontento nei riguardi delle rispettive famiglie) e da un ostentato disprezzo delle convenzioni sociali. Mio padre dimostrò sempre un’aperta avversione per la religione e soprattutto per la Chiesa.
Frequentai le scuole elementari a Marghera (periferia di una zona industriale di recentissima formazione con masse di proletari e sotto proletari). A dieci anni entrai nel ginnasio – liceo dei Padri Cavanis a Venezia come “esterno” su interessamento di mia madre per i vantaggi economici e la sua fama di serietà (la scuola era gratuita). Vi rimasi sino alla licenza liceale conseguita con l’anno scolastico 1941 – 42. In questi anni l’influenza dell’ambiente religioso andò via via attenuandosi dopo un iniziale momento di interesse; negli ultimi anni del ginnasio e negli altri due successivi del liceo (l’esame di maturità l’ho sostenuto saltando la terza) venni ad assumere una posizione di semiopposizione rispetto all’ambiente.
Grandissima influenza ebbe in tutti questi anni l’amicizia stratta con il mio vecchio maestro elementare, che rappresentò con qualche altro compagno di scuola l’unico grande interesse umano e intellettuale della prima giovinezza. Fu attraverso questa amicizia che sviluppai l’interesse per la politica (già in fermento per i numerosi discorsi di mio padre tendenzialmente antifascista e vagamente socialistoide) e mi orientai verso l’antifascismo e il comunismo. La mia adesione successiva al movimento comunista fu dettata da un bisogno “morale” di giustizia universale e da una fede entusiastica nella Russia “redentrice dell’umanità”.
Fui sempre restio a partecipare alla vita delle organizzazioni giovanili fasciste e ciò diede luogo a qualche incidente, senza risultato però, data anche la mia qualità di “privatista”. Solo nel 1942, durante la guerra, accettai l’incarico di organizzare l’attività culturale del reparto della legione di giovani marinai cui ero aggregato e feci un paio di discorsi. Avevo l’intenzione di svolgere una qualche attività di chiarimento in senso antifascista; abbandonai il tentativo dopo un mese, quando mi accorsi che nulla ero riuscito a fare e che i miei discorsi avevano suscitato allarme e qualche intervento da parte di alcuni ufficiali.
Nel 1942 – 43 frequentai il primo anno di lettere all’Università di Padova. Non riuscii ad entrare in contatto con alcuna organizzazione antifascista, non mi iscrissi nemmeno al GUF sebbene ciò fosse obbligatorio. Riuscii invece a entrare nel gruppo degli studenti antifascisti albanesi attraverso uno studente albanese del Kossovo, Mark Krasniqui.
Nel giugno del 1943 mi recai a trovare il mio amico maestro ad Aidussina dove lui si trovava sotto le armi, come ufficiale richiamato, con la vaga intenzione di vedere un po’ la zona dove operavano i partigiani slavi. Qui, durante un’escursione nei dintorni, fui arrestato dai carabinieri per sospetta intelligenza coi partigiani e passai circa un mese e mezzo nelle carceri di Aidussina: ero l’unico italiano, tutti i miei compagni erano sloveni, antifascisti e antitaliani, nessuno comunista. Fui rilasciato il 25 luglio.
Trascorsi a Venezia i mesi successivi fino al novembre 1943 quando uscito il bando di chiamata della mia classe (fino ad allora avevo fruito dell’esenzione per gli universitari) decisi di non presentarmi e mi rifugiai in un paesetto ai piedi del Cansiglio (Vittorio Veneto).
Feci lo “sbandato” fino a marzo, quindi decisi di scendere in città dove tutto sembrava calmo. L’8 marzo uscì il bando di Graziani che minacciava per i renitenti la pena di morte. Qualche giorno dopo mio padre mi avvertì che i carabinieri gli avevano nuovamente minacciato misure gravi a carico di mia madre (ebrea per parte materna) se avessi continuato a fare il renitente alla leva.
Mi presentai al distretto militare verso la metà di marzo. Rimasi circa un mese a Mestre aggregato ad una compagnia – deposito da dove giornalmente partivano contingenti per le divisioni fasciste in addestramento. Grazie al fatto di essere un “intellettuale” il Comandante della Compagnia saltò più volte il mio nome finché mi pose l’alternativa o di “imboscarmi” in un comando o di partire.
Preferii partire. Fui aggregato alla divisione Littorio come soldato semplice e inviato in Germania, a Padeborn, per addestramento, dove giunsi ai primi di maggio. Qui rifiutai di fare il corso ufficiali e, pur non dando adito ad alcun appunto per il servizio, entrai in sospetto degli ufficiali per gli apprezzamenti contenuti nelle lettere ai familiari (alcune non vennero inoltrate) e perché continuavo nello studio del russo. Dopo tre mesi (fine luglio) fui trasferito con altri 1.300 alla divisione San Marco per completarne gli effettivi al momento del suo rientro. Per ragioni puramente casuali tutto il gruppo proveniente dalla mia compagnia fu assegnato all’unico reparto volontario della divisione, cioè al battaglione Arditi (tutti volontari ad esclusione del mio gruppo) comandato dal maggiore Marcianò.
Il mattino successivo all’arrivo, quando fummo arringati dal maggiore, alla domanda se c’era qualcuno che non si sentiva di rimanere in quel reparto di volontari che si proponeva di sterminare i ribelli, fui il solo ad uscire dai ranghi: affermai che le mie abitudini e la mia mancanza di coraggio, oltre al fatto di non essere capace di andare in bicicletta (quello era un reparto di ciclisti) non mi consentivano di sentirmi a mio agio in quel reparto. Chiesi il trasferimento che mi fu promesso subito verbalmente. Il mio esempio però fece sì che molti miei compagni lo seguirono, sperando di ottenere essi pure il trasferimento.
Ciò ritardò anche il mio. Dovetti rientrare in Italia come “Ardito”. Giunto a Imperia e sistemato in una postazione antisbarco,ripetei la domanda per tre volte finché a fine agosto ottenni il trasferimento ad un reparto di sanità di stanza a Garessio. In uno spostamento da Garessio a Ceva dove trasportavamo del materiale,un gruppo di noi misero in atto il proposito di passare ai partigiani con armi e bagagli. Io approfittai di una circostanza favorevole a Noceto; gli altri lo fecero altrove. A Noceto ero entrato in un bar in divisa da San Marco, armato del fucile e mi ero seduto a un tavolo, mi pare, su una panca. La bruna ragazza del bar, uscito un soldato tedesco, mi si avvicinò e mi chiese cosa volevo. Ordinai – mi pare- una birra. Solo questo? Mi chiese. Ed io “no anche altro” risposi.
Oggi non ricordo se dicemmo altro. Forse mi chiese se volevo “andare su” e forse io risposi “si”, ma è più probabile che non andammo oltre la prima battuta. Certo lei concluse con un “aspetta qui”. Dopo una mezz’ora ero affidato a qualcuno (un contadino collaboratore?) che mi accompagnò, in un paio d’ore, in un distaccamento partigiano nei pressi di Perlo. Qui il nome Candido e l’incontro con il commissario Gelo (Angelo Miniati) e la mia prima operazione alla Filanda con lui.
Giovanni Urbani, Perché non posso non dirmi comunista, Marco Sabatelli editore, 2016 – pagine riprese da Redazione, On. Giovanni Urbani, primo di 4 figli, piccolo borghese, mamma ebrea e papà anticlericale. In divisa da San Marco a Imperia e Garessio, Trucioli, 6 settembre 2018

[…] Chiesi il trasferimento che mi fu promesso subito verbalmente.
Il mio esempio però fece sì che molti miei compagni lo seguirono sperando di ottenere essi pure il trasferimento.
Ciò ritardò anche il mio. Dovetti rientrare in Italia come “ardito”. Giunto ad Imperia e sistemato in una postazione costiera antisbarco, ripetei la domanda per tre volte finché alla fine di agosto ottenni il trasferimento ad un reparto di sanità di stanza a Garessio. In uno spostamento da Garessio a Ceva dove trasportammo del materiale, un gruppo di alcuni di noi misero in atto il proposito di passare ai partigiani con armi e bagagli. Io approfittai di una circostanza favorevole a Noceto; gli altri lo fecero altrove. La sera fummo tutti in un distaccamento dislocato presso Perlo.
Qui dopo circa un mese fui chiamato al Comando Brigata e nominato Commissario di un distaccamento ed entrai ufficialmente, dopo averne fatto più volte richiesta, nel gruppo di Partito. Partecipai ad alcune azioni e combattimenti finché nel dicembre 1944 subimmo un grande rastrellamento.
Rientrai in zona nel gennaio dopo molteplici peripezie con i reparti fortemente decimati (morti, abbandono di molti, rientri alle proprie case, etc.). Fui chiamato nel febbraio a ricoprire il posto di Vice Commissario della Divisione Garibaldi “G. Bevilacqua” che si era costituita raggruppando tutte le formazioni partigiane della zona operativa; e come responsabile di Partito del Comando Divisionale. Nell’aprile fui nominato Commissario di Guerra. A Liberazione avvenuta declinai l’offerta di fermarmi a Savona per un lavoro di Partito.
Tornai a Venezia e mi rimisi a studiare. Nell’ottobre però, su invito del compagno Gilardi, segretario della Federazione, tornai a Savona e divenni funzionario di Partito con l’incarico di responsabile del lavoro degli intellettuali sotto la guida del compagno Lunardelli allora responsabile di Stampa e Propaganda.
Giovanni Urbani, Autobiografia (fine anni ‘40) in (a cura di) Giancarlo Berruti – Guido Malandra, Quelli del P.C.I. Savona 1945-1950, Federazione D.S. Savona, 2003

“… nel febbraio del ’45 fu costituita la federazione del PCI di montagna …” (URBANI, p. 6), un esperimento già proposto a Genova ma là non realizzato: “… Ai primi di gennaio del ’45 alcuni compagni delle formazioni della VI Zona proposero di costituire una Federazione comunista nella zona partigiana, ma il TI [Triumvirato insurrezionale] e la Federazione di Genova furono contrari. …” (SCAPPINI, p. 168), per le stesse prevedibili difficoltà operative e di coordinamento che incontrerà il nuovo organismo savonese di montagna, così scomparendo dopo poche settimane di quasi inattiva sopravvivenza.
Guido Malandra (scritto nel marzo 2003), L’organizzazione comunista di base a Savona durante la Resistenza in Quelli del P.C.I. Savona 1945-1950, Op. cit.

I distaccamenti della Quinta Brigata non portarono a termine azioni di rilievo in febbraio, segno che le ferite dei rastrellamenti non si erano ancora cicatrizzate. Tuttavia il mese fu assai proficuo grazie ai tre aviolanci ricevuti il 2, 3 e 5 febbraio 1945 dal “Bruzzone” nei pressi di Murialdo per 81 paracadute complessivi, consistenti in 68 sten e 4 bren con molte munizioni, 55 cassette di bombe a mano, viveri, decine di capi di vestiario e, in particolare, 138 utilissime coperte. Ben rifornita ed equipaggiata, risparmiata dalle violente puntate offensive nemiche verificatesi in altri settori, la brigata poté dedicarsi alla riorganizzazione interna. L’11 febbraio il distaccamento “Ugo Piero”, per decisione del Comando Brigata, mutò il suo nome in quello di “Nino Bori”. Nei tre giorni dal 17 al 19 “Candido” (Giovanni Urbani), vicecommissario divisionale, ispezionò la brigata ricavandone un’impressione non troppo positiva a causa della debolezza numerica dei reparti. Il distaccamento “Pesce”, non ancora riunito completamente, aveva appena quindici uomini al campo; il “Moroni” venti, il “Revetria” diciannove, il “Bori” ventidue ed il “Bruzzone” ventisette. Anche tenendo conto del fatto che molti volontari, originari dei villaggi della zona, attendevano di tornare ai reparti, non si può certo dire che la situazione fosse brillantissima. Persino la sezione GAP del “Moroni”, una vera internazionale piena di russi e persino di tedeschi, era stata sciolta in dicembre per non ricostituirsi più.
Stefano d’Adamo, “Savona Bandengebiet – La rivolta di una provincia ligure (’43-’45)“, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Milano, Anno accademico 1999/2000