La Rsi fu il tentativo di un regime moribondo di mantenere il proprio potere

Fonte: Amedeo Osti Guerrazzi, art. cit. infra

Tra il settembre del 1943 e l’inizio di maggio 1945, centinaia di migliaia di italiani combatterono agli ordini di Mussolini una feroce guerra civile, causando migliaia di morti tra comuni cittadini e partigiani, e collaborando all’arresto e alla deportazione di qualunque chi si opponesse o non rientrasse nei canoni della “legalità” del nuovo stato fascista.
La rinascita del fascismo fu assolutamente caotica. Nell’autunno del 1943 il governo della Rsi esisteva solo sulla carta. Nelle città, invece, i fascisti erano tornati al potere, grazie all’aiuto tedesco, riaprendo le sedi e formando corpi armati autonomi.
La Rsi non fu, e non volle mai essere, uno “scudo” nei confronti della vendetta tedesca, non portò mai gli italiani a riscattare l’onore militare violato dall’armistizio, fu il tentativo di un regime moribondo di mantenere il proprio potere, attraverso una violenza selvaggia.
Tra il settembre del 1943 e l’inizio di maggio 1945, centinaia di migliaia di italiani combatterono agli ordini di Mussolini una feroce guerra civile, causando migliaia di morti tra comuni cittadini e partigiani, e collaborando all’arresto e alla deportazione di antifascisti, renitenti alla leva, operai, ebrei e qualunque altra categoria di persone che si opponesse o non rientrasse nei canoni della “legalità” del nuovo stato fascista.
[…] Solo il 14 novembre il partito (che aveva preso il nome di Partito fascista repubblicano, Pfr), si riunì a Verona, per la sua prima assemblea nazionale. Dopo una confusa discussione, venne approvata una “Carta”, in quattordici punti, basata su un confuso programma “sociale” (da qui il nome della Repubblica), e sull’antisemitismo.
L’assemblea veronese venne interrotta dall’annuncio della morte di Igino Ghisellini, segretario federale del partito a Ferrara, i cui responsabili non furono mai trovati. La reazione dei fascisti fu immediata e brutale. Undici persone, il 15 novembre, furono fucilate e i cadaveri esposti davanti al Castello Estense.
La strage di Ferrara, pur non essendo la prima, viene comunemente indicata dagli storici come l’inizio della guerra civile. La violenza indiscriminata contro degli innocenti, l’inserimento nella lista delle vittime di due ebrei scelti in quanto tali, l’esposizione dei cadaveri, sono gli elementi che si ritroveranno in tutta la storia della Repubblica sociale italiana.
Già dai primi passi, dunque, la Rsi è contrassegnata dalla violenza e dall’odio. Odio nei confronti dei “traditori”, cioè tutti coloro che si rifiutavano di seguire il fascismo, che le camicie nere identificavano con la patria.
Già dal primo discorso tenuto a Monaco di Baviera subito dopo la sua liberazione, Mussolini aveva parlato di vendetta e di ritorno al combattimento. Ma vendetta contro chi? E contro chi combattere?
Bande, legioni e polizie
Il caos delle prime settimane aveva portato alla ricostituzione delle federazioni, alla cui testa si erano posti personaggi di secondo o terzo piano del passato regime, ex squadristi che, finita la guerra civile del 1921-1922, non avevano avuto quel ruolo e quel riconoscimento che ritenevano spettasse loro di diritto, oppure criminali comuni ed ex spie della polizia politica fascista.
Gente dal passato violento e spesso burrascoso, che adesso trovavano nella neonata repubblica l’occasione per carpire un po’ di potere e, soprattutto, sfogare la rabbia e la frustrazione accumulate in vent’anni.
A questi improvvisati dirigenti si unirono ragazzi, a volte giovanissimi, imbottiti di ideologia, nati e cresciuti all’ombra del fascio littorio e impazienti di “fare qualcosa” per la patria in pericolo. Fu questa la base di massa del fascismo repubblicano, che andò a riempire i ranghi delle innumerevoli “bande”, “legioni” e “polizie federali” più o meno improvvisate, che scatenarono la guerra civile. Alcuni di loro, addirittura, si arruolarono nelle Ss, andando a formare una Brigata italiana del “corpo nero”.
[…] Le prime reclute furono racimolate tra i soldati internati dai tedeschi l’otto settembre. Poi, una serie di bandi di leva avrebbero dovuto riportare gli italiani al combattimento, ma la risposta a essi fu inequivocabile. Il tasso di renitenza, e poi di diserzione, fu altissimo. Graziani fu in grado di organizzare appena quattro divisioni di fanteria, raccogliticce e male armate che, a parte poche centinaia di uomini, non affrontarono gli Alleati sulla linea Gotica, ma vennero impiegate contro i partigiani.
[…] Il rifiuto da parte dei lavoratori di seguire i progetti sociali del fascismo, la renitenza endemica alla leva, la Resistenza partigiana, furono tutti elementi che dimostrarono ai fascisti che gli “italiani”, in generale, non erano più degni del fascismo.
Il risultato fu, a partire dall’estate del 1944, l’inasprimento della violenza fascista. Le operazioni contro i partigiani diventarono sempre più violente, le stragi contro i civili sempre più frequenti, le deportazioni di antifascisti, lavoratori ed ebrei sempre più numerose.
Una guerra contro la popolazione
In breve, la guerra civile non fu, come scritto da autorevoli storici, un fatto limitato ai partigiani e ai fascisti, ma coinvolse (volente o nolente) l’intera popolazione italiana, considerata dalle camicie nere come “traditrice” e indegna di far parte del “Nuovo ordine europeo”, sognato da Hitler e appoggiato da Mussolini […]
Amedeo Osti Guerrazzi, Violenze, bande e improvvisazione: l’ultimo capitolo fascista di Salò, Domani, 16 aprile 2022

Nel suo celebre saggio ‘Una guerra civile’ (1991), lo storico marxista Claudio Pavone definì la Resistenza italiana come 1) una guerra patriottica di liberazione, 2) una guerra sociale, ma soprattutto 3) una guerra civile tra italiani. Fu soprattutto questa terza definizione a scatenare vivaci polemiche tra gli studiosi della Resistenza e la tesi di Pavone, un marxista “anomalo” e “critico”, fu più apprezzata dalla destra che dalla sinistra, in Italia, quando uscì il libro di Pavone, all’inizio degli anni ‘90: il pensiero di Pavone è stato infatti strumentalizzato per appiattire entrambi i fronti su un giudizio di generale condanna, che coinvolge partigiani e repubblichini. Chi fece la scelta giusta, per Pavone, furono comunque soltanto i partigiani.
“La Resistenza fu la guerra tra italiani, tra fascisti ed antifascisti: l’odio tra italiani, tra partigiani e repubblichini, fu più feroce, a volte, di quello tra italiani e tedeschi. La definizione di Resistenza come guerra civile fu ben accetta subito dopo la guerra, negli anni ‘45-’60, durante i quali si insistette sul carattere sociale della Resistenza come lotta di classe. Repubblichini e partigiani si accusarono reciprocamente, con odio maggiore di quello tra italiani e tedeschi, di essere “nemici della Patria”: fu una guerra fratricida che vedeva giovani idealisti schierati su fronti opposti e talvolta schierarsi da una parte o dall’altra è del tutto casuale ed anche molti giovani repubblichini sono mossi da motivazioni idealistiche e credono, in buona fede, di poter riaffermare l’onore d’Italia combattendo a fianco della Germania e non si rendono conto che così facendo contribuiscono ad asservire sia l’Italia che lo stesso fascismo agli ordini del terzo Reich, che ha diviso gli italiani ponendoli in guerra tra loro, dopo averli trascinati in un assurdo conflitto mondiale. Chi fece “la scelta giusta”, non c’è dubbio, furono comunque solo i partigiani.
Marco Martini, L’età dei totalitarismi in Europa tra le due guerre mondiali, Tesi di specializzazione, Consorzio Interuniversitario Europeo, Anno Accademico 2020/21

Della scelta compiuta dai fascisti – «non possiamo più costringere nessuno, chi vuole venire venga», è in un primo momento l’atteggiamento dei più motivati fra di loro – si è già visto qualche esempio e se ne vedranno altri. Qui si aggiunge che per i fascisti il ricordo dell’8 settembre rimarrà sempre come un incubo. Ancora oggi considerare l’8 settembre come una mera tragedia o come l’inizio di un processo di liberazione è una linea che distingue le interpretazioni d’opposte sponde. Soltanto pochissimi fascisti considerarono allora la catastrofe un atto liberatorio, come appare in questa lettera: «Il tradimento ci ha offerto, fra tante sciagure, la possibilità di far brillare le grandi verità del fascismo e d’impadronirci dell’anima popolare in questa Seconda Rivoluzione». Il maggiore dei paracadutisti Mario Rizzatti scrisse a sua volta che, ricevuta la mazzata della capitolazione, dopo un po’ di meditazione, “mi sentii stranamente felice: ah, finalmente si era usciti dall’equivoco di una guerra che non si voleva vincere, come Cadorna. Finalmente era avvenuta la chiarificazione che non era avvenuta a Caporetto. Conclusi che non tutto il male viene per nuocere”.
Ma ben pochi prendevano tanto alla lettera il mito del ritorno alle origini da trarne per se stessi felicità. I fascisti più convinti, così come gli altri che comunque militarono sotto le bandiere della RSI, furono più o meno tutti, anche coloro che si ostinarono a credere nella immancabile vittoria, avvolti dalla nera ombra di una catastrofe cupa e incomprensibile e dal terrore che essa potesse ripetersi. Per utilizzare ancora una volta un giudizio formulato a proposito di tutt’altra esperienza storica, i fascisti «una volta attribuito a sé un destino così magnifico, non si rassegnavano a riconoscere la verità, neppure nella sconfitta». Anzi la scelta per la RSI fu spesso la fuga da un momento della verità che avrebbe dovuto costringere a ragionare fino in fondo: prospettiva questa, per i fascisti, fra tutte la più paurosa.
Prevalsero perciò negli optanti per la Repubblica sociale il timore di perdere l’identità cui erano assuefatti e la spinta a ritrovarla come che fosse, sia nella sua versione di ordine rassicurante, sia in quella di tipo nihilistico, che erano poi le due anime storiche del fascismo, destinate a consumarsi, in quella stretta finale, come inerziale opacità o come ferocia. L’autore fascista già citato parla della «sensazione di essere stato come sradicato», e descrive come questa si trasformasse in «rabbia sorda», in rifiuto di «passiva accettazione»: «Accettare quella sconfitta significava accettare tutto ciò che ad essa aveva condotto: l’ipocrisia, la menzogna, la viltà (…). E noi non volevamo! ». Queste parole sono tanto più notevoli in quanto lo stesso scrittore registra poi, nei mesi successivi, lo sbiadimento delle ragioni di una scelta fondata su quelle basi.
Una scelta particolarmente drastica, ideologica e combattentistica insieme, fu quella dei fascisti che si posero direttamente al servizio dei tedeschi, senza attendere la resurrezione di Mussolini. Tale fu il già ricordato maggiore Rizzatti, protagonista in Sardegna, col suo reparto della Nembo, di uno dei primi episodi di guerra civile, che portò all’uccisione del tenente colonnello Bechi che intendeva far rispettare gli ordini di Badoglio. Il 63° battaglione della divisione Tagliamento passò a sua volta al servizio diretto dei tedeschi; e così fecero subito un centinaio di paracadutisti della scuola di Viterbo e una parte del 10° reparto Arditi, presso Civitavecchia. Il tenente Ciabatti, ufficiale d’ordinanza di Renato Ricci, si pose già a Salerno agli ordini dei tedeschi, ma, al contrario di Rizzatti, non volle giurare fedeltà al Führer. È chiaro che questi furono uomini ben diversamente motivati di quelli che risponderanno poi ai bandi di Graziani. Non a caso in un documento del Comando del raggruppamento paracadutisti Nembo si lamentava che al bando del maresciallo si presentassero «tutti gli ufficiali, forse anche quelli superiori, che il 9, 10, 11 e 12 settembre hanno ordinato di sparare sulle Forze Armate Germaniche e quelli che erano spiccatamente filo inglesi».
[…] Le persone tacciate di tradimento con la massima convergenza di giudizi, sia pur diversamente motivati, furono il re e Badoglio, che apparvero traditori ai tedeschi, ai fascisti, a larga parte dei resistenti, a un numero più o meno ampio degli internati in Germania pur reticenti, per comprensibili motivi, a manifestare questo giudizio. Agli Alleati essi apparvero almeno degli utili voltagabbana, sembrando rinnovarsi l’antica prassi che vedeva i Savoia non concludere mai una guerra dalla stessa parte in cui l’avevano iniziata, a meno che, come anche si diceva, non avessero cambiato fronte due volte. L’«Avanti!» nella sua edizione romana del 6 maggio 1944 scrisse: «Non è possibile che i Savoia facciano rovesciamento delle alleanze come nel Settecento». Per i tedeschi considerare traditori il re e Badoglio era ovvio. Oltre tutto, nel proclama lanciato da Badoglio subito dopo il 25 luglio era stata inserita l’incauta frase: «L’Italia mantiene fede alla parola data, gelosa custode delle sue millenarie tradizioni». La seconda parte di questa frase se aveva voluto accennare a una sibillina e quasi comica riserva mentale, ora apparve soltanto un’aggravante del voltafaccia.
«Questo è tradimento alla parola data», disse l’incaricato d’Affari tedesco a Roma, Rahn, al ministro degli Esteri Guariglia che, alle ore 19 dell’8 settembre, andò ad annunciargli l’armistizio. «Quanto più la truppa e la direzione tedesca furono ingannate, tanto più dura fu la reazione», disse poi il generale Jodl. Goebbels scrisse il 10 settembre nel suo diario che il popolo tedesco, «più abile e veggente del suo stesso governo», aveva sempre diffidato degli italiani. Goebbels travolgeva così nel giudizio di tradimento l’intero popolo italiano; e rincarò poi la dose: «Gli italiani, per la loro infedeltà e il loro tradimento, hanno perduto qualsiasi diritto a uno Stato nazionale di tipo moderno. Devono essere puniti severissimamente, come impongono le leggi della storia».
E stato giustamente osservato che la reazione tedesca partiva dalla pretesa di una «assoluta lealtà vassallica» da parte dell’alleato italiano, che si era pertanto reso colpevole di fellonia («maresciallo fellone» è è in effetti una delle qualifiche più usate nei confronti di Badoglio). Reiterate erano state, man mano che la guerra volgeva al peggio, le proteste italiane di «fedeltà» alla Germania, senza che i tedeschi avvertissero alcun bisogno di speculari rassicurazioni. Ma la tracotanza del signore non lasciava al vassallo altra «libertà» che quella di tradirlo, passando al nemico. La riluttanza dei tedeschi (almeno fino al recente libro di Kuby) a considerarsi essi, nella sostanza, traditori degli italiani, sta probabilmente anche in questo: che il vassallo può tradire il signore, ma che il signore tradisca il vassallo è proposizione, per il signore, priva di senso.
Ma intanto, quali che fossero le convinzioni di fondo, la distinzione fra i capi traditori e il popolo italiano a sua volta vittima del tradimento, aveva una troppo evidente utilità pragmatica perché i tedeschi non vi ricorressero. I tedeschi infatti invitarono subito gli italiani a dissociarsi dai traditori; ma lo fecero con una rozzezza che ingigantiva le contraddizioni di quell’invito e rendeva ancor più scarse le probabilità che esso trovasse un’accoglienza di massa. «È evidente la via che dovete seguire», perorava uno dei primi appelli tedeschi, largamente diffuso dalla radio: «via dai traditori, e venite con i vostri camerati tedeschi». È singolare come i tedeschi non si rendessero conto che se c’era in quel momento una parola che ripugnava alla grande maggioranza degli italiani, e in particolare proprio agli ufficiali e ai soldati cui l’appello soprattutto si rivolgeva, era quella di «camerata»; e se anche poteva trattarsi della frettolosa traduzione di una parola connotata meno intensivamente, in senso fascista, nella lingua tedesca, resta il fatto che ci si sarebbe pur dovuti rendere conto del suono che essa aveva nell’orecchio dei destinatari italiani. Probabilmente gli estensori e ispiratori di quel proclama non seppero far di meglio che mostrare di prendere sul serio la tesi che tutti gli italiani fossero degli onesti camerati, che solo il tradimento aveva strappato dagli alleati tedeschi. Del resto, interpretare come opera del tradimento di molti o di pochi sconfitte e smacchi rientrava nella tradizione tedesca. Il disprezzo per gli italiani si rivelava comunque in quel passo dell’appello in cui si prometteva che «come i soldati tedeschi anche voi sarete altrettanto ben vettovagliati, pagati e trattati».
Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella resistenza, Bollati Boringhieri, 1991