Grandi manifesti scritti in ebraico tappezzavano le camerate

Le vicende relative all‘emigrazione ebraica clandestina dall‘Italia tra il 1945 e il 1948, nonché le sue implicazioni rispetto al complesso quadro politico nazionale ed internazionale del dopoguerra, sono state oggetto di studio in Italia solo in tempi recenti. Come si vedrà più approfonditamente, questi lavori hanno focalizzato la loro attenzione sull’atteggiamento, da alcuni definito benevolo, del governo italiano nei confronti dell’organizzazione del ‘Mossad Le’Aliyah Bet’ <1, e sull’arrivo degli ebrei stranieri (Jewish Displaced Persons) nella penisola, all‘interno della complessa cornice post-bellica. Fin dall’immediato dopoguerra, l’Italia fu una meta peculiare dell’immigrazione ed emigrazione ebraica; per questo motivo, dal sud al nord della penisola, vennero aperte decine di strutture per la gestione e la permanenza dei profughi sul territorio nazionale. In realtà, fu in seguito all’invasione degli alleati che nel Sud Italia il problema dei profughi ebrei in arrivo e partenza si impose già nell’autunno del ’43.
[…] Ancora una volta i profughi ebrei venivano accusati di creare disordini legati perlopiù ai traffici economici illegali, e dunque percepiti come un pericolo pubblico, in grado di condizionare le scelte della popolazione locale; quest’ultima preferiva infatti non transitare nelle zone ad alta presenza di ebrei, poiché avvertiti come pericolosi. L’amministrazione di Milano, pur stigmatizzando la gravità della situazione e incalzando le proteste, si oppose alla chiusura del vicolo con filo spinato e il 28 marzo del 1948 rispose alla Prefettura di Milano in questi termini: “La chiusura con ferro spinato dello sbocco di via Arcimboldi con via Unione non risolverebbe lo stato di cose indecoroso e pericoloso che si è andato creando nella zona; né si vede quali altri provvedimenti siano da prendere per eliminarlo o ridurlo a forma sopportabile. Soltanto un intervento in forza della pubblica sicurezza e radicali provvedimenti potrebbero raggiungere risultati concreti. Questa amministrazione è del parere che si debba fare tutto il possibile e al riguardo assicura che darò tutta la sua collaborazione alla Autorità di P.S. se codesta Prefettura vorrà adottare le misure necessarie”. <129
Oltre alle problematiche relative al mantenimento dell’ordine pubblico, fin dall’autunno del ’45, il governo italiano dovette fare i conti con l’attività politica che veniva svolta nei campi profughi. Esistevano all’interno di queste strutture gruppi appartenenti a diversi orientamenti politici, i quali erano in grado di organizzare vivaci manifestazioni, scioperi della fame e cortei, contro il blocco degli ingressi imposto in Palestina. Le prime manifestazioni si registrarono a Santa Maria di Leuca e Cremona <130, poi ve ne furono numerose altre, per esempio a Grugliasco. L’attività politica era strettamente connessa alla propaganda sionista: «Un giorno, quando ci eravamo resi conto che l’immigrazione non andava secondo i piani, organizzai una marcia di protesta contro il ministro degli esteri britannico Bevin. Parlai agli uomini da un balcone, poi scesi e mi unii alla marcia. Ho ancora delle foto di quella giornata», ha affermato Samuel Mordechai Rubinstein, uno dei responsabili del campo di Santa Maria al Bagno in Salento <131. I campi pugliesi furono politicamente molto attivi. Già nell’autunno del ‘45 cominciarono le prime proteste contro il governo britannico a Santa Maria di Leuca, ma la situazione poi degenerò nei mesi successivi: il 17 aprile e il 22 luglio 1947 mille ebrei provenienti dal campo profughi di Palese inscenarono una manifestazione davanti al consolato britannico; il 23 agosto insorsero contro il direttore neozelandese del campo ed un’analoga protesta s’infiammò, il 6 ottobre, nel campo di Trani. Per quanto riguarda il Nord Italia, le tensioni maggiori si registrarono in Piemonte. Attorno alle ore 18 del 10 gennaio del 1947, un cartoccio esplosivo scoppiò a Torino, in via Milano, diffondendo diversi volantini dell’Irgun. In seguito all’accaduto, fu organizzata una maxi-perquisizione all’interno del campo di Grugliasco, che però non rivelò altro che la presenza di alcuni manifesti politici in ebraico <132. In seguito a questo episodio, alcune agenzie straniere segnalavano che il Console britannico in visita a Torino in quei giorni avesse ricevuto delle lettere minatorie. Il sospetto ricadde sui profughi dei kibbutz piuttosto che su quelli di Grugliasco: «è un fatto quasi certo che, che se le famose lettere sono state preparate a Torino, esse non provengono dai campi di raccolta di Rivoli o di Grugliasco, ma piuttosto possono provenire dai kibutz dove non esiste alcuna sorveglianza da parte della polizia» <133. Il 25 agosto del 1947, due giornalisti si recarono presso il campo di Grugliasco per una visita, proprio in occasione di una manifestazione: “Calma perfetta ieri pomeriggio al campo ebreo di Grugliasco, dove ci eravamo precipitati d’urgenza per assistere ad una preannunciata violenta manifestazione di protesta. Tra i bianchi edifici dell’ex manicomio femminile, negli ampi e verdi viali, corrono bambini eccezionalmente grassi, passeggiano lente le mamme spingendo i carrozzini, sonnecchiano al sole gli uomini. […] C’è invece nell’aria un senso oltre che di stanchezza, di malinconia e di accorato dolore. Verso le sedici, gli internati si sono riuniti sotto un terrazzo dal quale fluttuavano al vento due grandi stendardi ebraici […]. Poi con un lento corteo attraverso il campo, la riunione si è sciolta” <134.
Anche in occasione dei fatti dell’Exodus, in segno di solidarietà verso i correligionari costretti a ritornare nei luoghi della deportazione, in molti campi italiani, per esempio a Modena, a Roma e in Piemonte, i profughi organizzarono proteste e scioperi della fame fortemente politicizzati: “L’S.O.S. dei naufraghi si è propagato fulmineo fra tutti i correligionari sparsi nei campi di Europa e vi ha generato un’ondata profonda di sconforto prima, di opposizione poi. L’accordo fra gli internati è stato immediato: nei campi italiani, sciopero della fame dalla mezzanotte di ieri alle 18 di stasera. Stamane, a Rivoli ed a Grugliasco, come nei kibutz piemontesi – particolarmente ad Avigliana, a Poirtino, al Nichelino – pesava un’aria cupa di sconforto […]. Grandi manifesti scritti in ebraico tappezzavano le camerate. […]. Vicino a questi, stanotte sono stati diffusi altri manifesti, sinistramente minacciosi: c’è un mitra, al centro ed una scritta: ‘soltanto così’. Poi una sigla I.Z.L. (Irgun Zwai Leumi). E’ palese l’avvertimento. […] Alle 10,30 gli internati si sono riuniti in due grandi comizi di protesta e, mentre gli interventi avevano tutto il lutto all’occhiello, le bandiere bianco celesti erano abbrunate” <135.
La documentazione analizzata fino a questo momento, relativa alle problematiche generate dalla presenza dei profughi nella penisola, ci ha permesso di ricostruire un quadro generale meno idilliaco di quanto, negli ultimi anni, le riemerse memorie personali dei profughi e quelle delle comunità locali abbiano descritto. Per riuscire a comprendere le complessità di questa convivenza, bisogna tenere innanzitutto in considerazione che le DPs giunsero in Italia in una condizione di grave fragilità fisica e psicologica che certamente influiva duramente sul loro ritorno alla normalità; i traumi che essi si lasciavano alle spalle erano il frutto di sofferenza accumulate negli anni precedenti: persecuzioni, violenze, deportazioni e l’impossibilità del ritorno a casa. In secondo luogo, bisogna considerare le difficoltà sociali, economiche e politiche del dopoguerra, che certamente influirono sui rapporti tra la popolazione italiana e i profughi, alimentando i fisiologici problemi legati ad una convivenza forzata che non sempre, come abbiamo visto, fu priva di scontri. In questo contesto, i profughi furono vittime di una generica criminalizzazione: furono accusati di praticare reati diversi, dai piccoli furti alla borsa nera, ma anche di alimentare il degrado delle città con la loro condotta economicamente, socialmente e moralmente riprovevole. In terzo luogo, bisogna tenere presenti le conseguenze della violenta campagna stampa condotta dal fascismo tra gli anni Trenta e Quaranta, che aveva alimentato fortemente l’antisemitismo degli italiani. Come è emerso dalla documentazione analizzata in questo capitolo, nel dopoguerra erano ancora fortemente presenti nell’immaginario collettivo, nella stampa, persino nelle istituzioni locali e nazionali, quei linguaggi, quelle immagini, quei pregiudizi facenti parte di quello che è stato efficacemente definito un vero e proprio archivio.
Con queste premesse, possiamo affermare che, da un lato, quello trascorso sulla penisola, fu per i profughi, dopo tanto patire, certamente un periodo di cura e riabilitazione, di ricostruzione individuale e collettiva. Ciò fu possibile soprattutto grazie alle attività sociali e culturali organizzate dal Joint in collaborazione con l’Ojri; prova tangibile di questa tensione verso il futuro fu anche l’altissimo numero di matrimoni celebrati nei campi profughi e il cosiddetto baby-boom. Furono indubbiamente questi fattori interni alla vita del campo ad influenzare positivamente, nonostante le difficoltà materiali, il ricordo dei profughi transitati dalla penisola, percepita come il ponte verso Eretz Israel. Dall’altro, l’arrivo in massa di donne e uomini di provenienze nazionali, sociali e culturali diverse, portatori di un trauma di cui per anni non si comprese l’unicità, non poté essere privo di conseguenze. E sarebbe del tutto ingenuo pensarlo. I problemi erano riscontrabili anzitutto all’interno dei DP camp, laddove i rapporti tra gli stessi profughi, come si è visto, furono tesi e talora violenti. A questi si sommavano anche diversi fattori esterni alla vita del campo, a partire dal contatto tra la popolazione italiana e le DPs, che non fu affatto semplice. Numerose infatti furono le tensioni, che si concretizzarono frequentemente in proteste e denunce contro i profughi;
causate sia dalle difficoltà economiche in cui versava il paese, sia del permanere di antichi pregiudizi antiebraici. Per tutte queste ragioni, possiamo concludere che la vita quotidiana dei profughi ebrei durante la loro permanenza in Italia – per quanto incomparabilmente migliore di quanto si erano lasciati alle spalle – sia stata segnata da differenti problemi di natura economica, sociale e politica <136.
[NOTE]
1 Fu una branca dell‘Haganah che organizzò l‘immigrazione ebraica clandestina verso la Palestina sotto mandato britannico; essa fu operativa dal 1938 fino a dopo la fondazione dello Stato di Israele (1948).
129 Archivio di Stato di Milano (ACSM), Prefettura di Gabinetto, II versamento, cat. 0031, anno 1948, cart. 569, attività immorale di via Unione.
130 Toscano, op. cit., p. 59.
131 http://www.profughiebreinpuglia.it/index.php/component/content/article/97-la-memoria-dei-campi-di-transito-salentini-nei-ricordi-dishmuel-mordechai-rubinstein.
132 Fra i 1600 ebrei del campo di Grugliasco Carabinieri e agenti scoprono manifestini dell’Irgun Zwai, La Stampa, 15.01.1947.
133 Le lettere esplosive partite dai kibutz? Visite ai campi degli ebrei di Grugliasco e Rivoli, una precisazione del Console britannico a Torino, La Stampa, 06.06.1947.
134 Dimostrazione di protesta degli ebrei, La Stampa, 26.08.1947.
135 Nei kibutz della provincia, diecimila ebrei sciopero della fame, La Stampa, 22.07.1947.
136 Si veda anche Kokkonen, op. cit., cap. 8.
Federica Di Padova, I campi profughi per Jewish Displaced Persons in Italia tra storia, ricostruzione e memoria (1943-1951), Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Trieste, Anno accademico 2017/2018

Un altro aspetto degli impegno tra il 1946 e il 1948, collegati all’ordine pubblico, sono le situazioni che la Marina deve affrontare per l’attività del movimento sionista, che ha scelto l’Italia come base principale per l’emigrazione illegale di profughi ebrei in Palestina, riscuotendo grandi simpatie anche da Sinistra. Tra marzo e maggio 1946 un migliaio di profughi giunge al pontile della Marina di Pagliari a La Spezia, decisi ad imbarcare su due piccoli mercantili lì artatamente ormeggiati; il comandante del distaccamento deve bloccarne la partenza rimuovendo parti dell’apparato motore e dislocando una torpediniera per interdirne l’uscita dalla rada, fino all’autorizzazione alla partenza concessa dagli inglesi (8). Nel 1946 altre piccole unità mercantili riattate nei cantieri tra Bocca di Magra e le coste liguri partono per la Palestina. Nel 1947 è la volta dell’Exodus scortato da due corvette da Porto Venere fino al limite delle acque territoriali francesi, diretto a Port de Bouc per l’imbarco dei profughi e poi di un altro piroscafo scortato dalla torpediniera Sagittario sempre verso la Francia. Nel marzo – aprile 1948 un piroscafo di bandiera italiana con un carico d’armi per gli arabi da Fiume per la Palestina viene bloccato a Molfetta e sabotato poi a Bari da sommozzatori probabilmente israeliani.
(8) F. Maugeri, Ricordi di un marinaio, Mursia, 1980, p. 251; A. Sereni, I clandestini del mare, l’emigrazione ebraica in terra d’Israele dal 1945 al 1948, Mursia, 1973, passim.
C. Amm. Renato Battista La Racine (Collaboratore Ufficio Storico S.M.M.), Il rapporto tra la Marina e la Nazione dalla Liberazione alla caduta del Muro di Berlino in Le Forze Armate e la Nazione Italiana (1944-1989). Atti del Convegno di Studi tenuto a Bologna nei giorni 27- 28 ottobre 2004, CISM (Commissione Italiana di Storia Militare), Roma, 2004