La ricostituzione della Federazione Nazionale della Stampa Italiana

Palermo. Fonte: Wikipedia

Come si è visto, nel tormentato percorso che portò alla formulazione dell’articolo 21 della Costituzione e alla promulgazione della legge sulla stampa, un ruolo non secondario era stato svolto dalla Federazione Nazionale della Stampa Italiana. La ricostituzione della FNSI era avvenuta ventiquattro ore dopo la caduta del fascismo, il 26 luglio 1943, grazie all’iniziativa di un gruppo di 27 giornalisti riunitisi in una sala del circolo della Stampa a palazzo Marignoli a Roma, i quali stilarono in quattro punti il programma del nuovo organismo: riunire in un’unica organizzazione tutti i giornalisti italiani «non asserviti al fascismo», promuovere la «restaurazione della libertà di stampa, che nelle libere democrazie moderne è fondamento e presidio di ogni libertà e di ogni progresso civile», ricostituire le associazioni regionali, impedire che i giornalisti coinvolti con il fascismo «corrotto e corruttore» «cerchino di sopravvivere comunque nei ranghi dell’autentico ed onorato giornalismo italiano».
La stessa assemblea decise contestualmente di dare vita ai primi organi associativi eleggendo un consiglio direttivo di 11 membri e alla presidenza federale Ivanoe Bonomi, l’anziano esponente riformista e capo della Democrazia del Lavoro, che era stato eletto presidente del Comitato di Liberazione Nazionale e che presentava l’unità dell’antifascismo, Alberto Bergamini veniva eletto vicepresidente.
Le convulse vicende politiche di quel periodo, con l’immediata disillusione delle speranze destate dalla costituzione del governo Badoglio ed i lunghi mesi di occupazione nazista della capitale, non consentirono, tuttavia, alla neonata federazione della Stampa di esercitare alcuna concreta iniziativa, nonostante la decisione governativa di dichiarare decaduti gli organi del sindacato nazionale fascista dei giornalisti e la nomina a commissario di Mario Vinciguerra e a vicecommissari di Leonardo Azzarita e Olindo Vernocchi.
Per dare inizio a una vera e propria attività si dovette attendere la liberazione di Roma. È, infatti, del 7 giugno 1944 la seconda riunione assembleare della FNSI nella quale vengono affrontati i nodi politici della categoria. Alla riunione partecipò lo stesso Bonomi, che chiamato alla guida del governo rassegnò le dimissioni da presidente della FNSI. L’assemblea elesse Bergamini alla presidenza e Roberto Bencivenga, governatore civile e militare di Roma, alla vice presidenza. Vennero anche riconfermate le vecchie cariche statutarie, quella di consigliere delegato, affidata a Leonardo Azzarita, e quella di segretario generale, affidata a Giovanni Biadene. I temi principali al centro della discussione furono quelli organizzativi (ricostituzione delle Associazioni territoriali, attività dei circoli della stampa, bollettino federale, ecc,), ma soprattutto quelli politici (albo professionale, commissione superiore per la stampa, Istituto di previdenza, scuole di giornalismo, ecc.).
La prima polemica interna della nuova Federazione venne aperta dal generale Bencivenga, che era stato l’ultimo presidente della FNSI prima della sua soppressione da parte del fascismo. Bencivenga non accettava la nomina a vicepresidente sostenendo che con la caduta del fascismo dovessero essere abrogati i decreti Federzoni che avevano soppresso Federazione e Associazione romana e che, pertanto, dovesse ripristinarsi la legittimità degli organi statutari in vigore nel 1926. «Tornare alla situazione d’allora – dichiarò in un’intervista – è un obbligo d’onore». Ma le tesi di Bencivenga non furono condivise dal consiglio direttivo della Federazione che il 7 luglio’ 44, accettate le dimissioni di Bencivenga, provvide a chiamare alla vicepresidenza Giuseppe Ardizzone.
Come era inevitabile nel clima acceso di quei giorni, le polemiche non si limitarono al caso Bencivenga. A seguito di una dura presa di posizione contro l’operato della Federazione da parte dell’organo del Partito comunista, «L’Unità», che aveva criticato le indicazioni formulate dalla Federazione al Governo circa i nominativi dei giornalisti da inserire nella commissione per l’epurazione, il neo presidente Bergamini, che non aveva brillato per antifascismo e che si sentì personalmente attaccato, rassegnò le dimissioni.
Nel mese di ottobre una nuova assemblea di giornalisti romani, rielesse i nuovi organi federali, chiamando alla presidenza Luigi Salvatorelli e confermando nella carica di consigliere delegato, Leonardo Azzarita. Anche questa nuova assemblea, formata da giornalisti prevalentemente romani era poco rappresentativa della categoria a livello nazionale, né sarebbe stato possibile in quei mesi convocare un congresso dei giornalisti italiani. Tuttavia, il nuovo consiglio direttivo ovviava a questo inconveniente con la presenza di giornalisti rappresentanti tutte le forze antifasciste. Salvatorelli, oltre ad essere un valente giornalista, era, infatti, anche un esponente del Partito d’Azione, azionista era il filosofo Guido Calogero <33, rappresentante dei pubblicisti, Velio Spano e Felice Platone erano esponenti del Partito comunista, Guido Gonella della Democrazia cristiana, Mario Ferrara del Partito liberale, Randolfo Pacciardi del Partito repubblicano, Umberto Calosso del Partito socialista, Enrico Molè della Democrazia del lavoro.
La più importante questione al centro dell’attività federale in quei mesi fu, ovviamente, come si è già detto, quella dell’epurazione e dell’albo professionale. L’orientamento generale, salvo poche quanto illustri eccezioni come quella di Luigi Einaudi, era favorevole alla conservazione dell’albo professionale.
Il 23 ottobre ’44 con decreto del governo Bonomi veniva istituita la commissione unica per la tenuta degli albi dei giornalisti e nel mese di novembre, con successivo decreto, si chiamavano a farne parte gli stessi componenti del consiglio direttivo della Federazione.
La polemica sull’epurazione, sentita inizialmente come forte impegno ideologico al cambiamento della vita italiana, si andò stemperando nel tempo sotto la spinta di oggettive difficoltà applicative e di un mutato clima politico dominato, ormai, dalla necessità di una pacificazione nazionale. Nel marzo del ’46 la commissione unica decideva di soprassedere alla revisione degli albi sino alla chiusura della campagna elettorale per il referendum. Pochi mesi più tardi, in regime ormai repubblicano, quando i fantasmi del passato sembravano sepolti dalla storia, su iniziativa di Palmiro Togliatti, ministro di grazia e giustizia e leader del più estremo dei partiti di governo, fu varata una amnistia generale che poneva fine, sia pure con molte amarezze e con strascichi polemici, all’epurazione.
Un secondo terreno di intervento della Federazione della stampa fu quello relativo alle iniziative governative nel campo dell’informazione. Abolito il vecchio ministero della cultura popolare, sinonimo dell’uniformità della stampa italiana al regime fascista, con decreto luogotenenziale del 3 luglio 1944, il governo Bonomi costituì un sottosegretariato per la Stampa e le informazioni, alle dipendenze della presidenza del Consiglio, al quale venne affidato il compito di liquidare il Minculpop. Nell’ambito del nuovo sottosegretariato venne creata una Commissione nazionale per la stampa, nella quale furono chiamati i rappresentanti della Federazione, con il compito anche di rilasciare le autorizzazioni. I timori, espressi chiaramente dagli organi federali, che il sottosegretariato, al quale era stato trasferito il personale del ministero abolito, potesse di fatto rivelarsi una continuazione, sia pur attenuata, della vecchia pratica del controllo governativo sulla stampa, indussero Bonomi a stemperarne i contenuti allargandone il campo di competenza, oltre che alla stampa, allo spettacolo e al turismo. Con la stessa decisione portava da tre a sei rappresentanti della Federazione in seno alla commissione nazionale. Ma le innovazioni di Bonomi non accontentarono i giornalisti e la Federazione decise di non partecipare più ai lavori della commissione, che insieme al sottosegretariato fu soppressa dal nuovo governo guidato dall’azionista Ferruccio Parri.
A queste tematiche politiche si aggiungevano i problemi, più strettamente sindacali, relativi al trattamento contrattuale dei giornalisti. Dopo l’8 settembre del 1943, mentre nell’Italia del nord il regime della repubblica di Salò conservava validità giuridica al contratto di lavoro del ’39, nell’Italia defascistizzata, liquidato il regime corporativo e abolita la carta del lavoro si mantennero in vigore, sia pure con accorgimenti legislativi, i contenuti normativi del vecchio contratto collettivo mentre sul piano economico si realizzavano vari accordi a livello locale per mantenere il potere di acquisto delle retribuzioni fortemente eroso dall’inflazione.
Questo insieme di problemi trovò occasione di approfondimento e dibatto nel primo congresso della nuova Federazione della Stampa che si svolse a Palermo nell’ottobre del 1946, con la partecipazione del capo dello Stato, Enrico De Nicola, e del presidente del consiglio, Alcide De Gasperi a significare la rilevanza del ruolo dell’informazione nel nascente Stato democratico.
La mattina del 6 ottobre 1946, centotredici delegati in rappresentanza di undici Associazioni regionali davano inizio al primo congresso della Federazione nazionale della stampa nell’Italia repubblicana nella stessa città che aveva visto l’ultimo libero congresso dei giornalisti italiani nell’ormai lontano 1924.
L’avvenimento coronava gli sforzi di quanti già dal 26 luglio del ‘43, come abbiamo visto, avevano sentito l’esigenza di rimettere in vita la Federazione della stampa associando tutti i giornalisti italiani «sul terreno professionale al di sopra e al di fuori dei partiti e delle tendenze ideologiche e politiche», come dirà al congresso nella sua relazione, il consigliere delegato Leonardo Azzarita.
I temi in discussione erano molteplici e si collocavano nel quadro di ricostruzione della vita democratica nel Paese. Sul piano dell’azione sindacale il congresso deliberò «di stipulare un’intesa di carattere permanente con la CGIL, e chiese la denunzia immediata del contratto di lavoro. Punti qualificanti delle richieste: il rafforzamento dei poteri del direttore, inteso come unico responsabile dell’indirizzo politico del giornale, e l’istituzione di consigli redazionali elettivi che «assistano i direttori nell’adempimento dei loro compiti». Sul piano professionale si invocò la costituzione dell’Ordine e di un albo inteso come «garanzia di stabilità professionale e strumento per la tutela del pane e del lavoro di coloro che hanno votato la propria esistenza all’attività professionale».
Ma gli inviti più pressanti furono rivolti all’Assemblea Costituente. I giornalisti italiani chiedevano che fosse ristabilita in tutta Italia la completa libertà di stampa con l’abolizione di ogni misura di autorizzazione, sospensione, soppressione ecc., l’approvazione di norme di legge per realizzare «un serio controllo sulle fonti finanziarie dei giornali e una disciplina giuridica delle aziende editoriali».
Il congresso si chiuse con la riconferma alla presidenza di Cipriano Facchinetti che dal gennaio del ’46 aveva sostituito il dimissionario Salvatorelli, e di Leonardo Azzarita nella carica di consigliere delegato.
Sul piano organizzativo il congresso di Palermo aveva deciso a maggioranza di muoversi nella linea di una «cordiale intesa» con la Confederazione Generale del Lavoro, risultando minoritaria l’opinione, espressa principalmente dall’Associazione veneta, di una formale adesione alla Confederazione. In questa linea furono presi contatti con i segretari confederali e fu costituito un apposito gruppo di lavoro che, nel mese di dicembre, formulò il testo di un «patto di alleanza» con la CGIL in quattro punti in cui si sanciva la «reciproca assistenza» tra le due organizzazioni, l’impegno della CGIL ad assicurare appoggio e sostegno «alle rivendicazioni sindacali dei giornalisti, che saranno fatte valere dalla Federazione Nazionale della Stampa», rapporti di consultazione sui problemi inerenti «la collettività dei dipendenti delle aziende giornalistiche». Come ultimo punto si stabiliva che l’accordo dovesse essere permanente, ferma restando la possibilità di una «prevista formale adesione della Federazione Nazionale della Stampa alla CGIL». Quest’ultima clausola testimoniava un dibattito ancora aperto all’interno della categoria sui destini della propria organizzazione, vissuta nell’incertezza delle proprie capacità sindacali. Un dubbio, legittimo all’alba dello Stato repubblicano, che il tempo avrebbe ampiamente fugato. Poche settimane dopo, nel gennaio del ’47 il patto di alleanza veniva firmato da Facchinetti e Azzarita per la FNSI, da Giuseppe Di Vittorio, Oreste Lizzardi e Giuseppe Rapelli per la CGIL.
A distanza di pochi mesi, il movimento sindacale entrava in crisi a seguito dei mutamenti del quadro politico del paese che, archiviata l’esperienza ciellenistica si avviava verso la lunga esperienza centrista con la scissione del PSI e la nascita del PSDI e con l’uscita dalla compagine governativa e il passaggio all’opposizione del PCI. Immediata conseguenza del nuovo equilibrio politico fu la scissione della CGIL, nel cui ambito i lavoratori di ispirazione cattolica, repubblicana e socialdemocratica mal sopportavano l’egemonia comunista. Con quella prima scissione nacque, al fianco della CGIL, la CSC, che in seguito, come organizzazione sindacale di sola area cattolica, avrebbe preso il nome di CISL, dopo una successiva scissione e la nascita della UIL, l’organizzazione sindacale che riuniva i lavoratori repubblicani e socialdemocratici. La nuova articolazione pluralistica del movimento sindacale faceva, di fatto, venir meno quell’ultimo punto del patto tra FNSI e CGIL che prevedeva in prospettiva la «formale adesione» alla Confederazione della Federazione della Stampa.
La variegata militanza politica dei giornalisti italiani escludeva la possibilità che la FNSI potesse aderire ad una organizzazione sindacale espressione di un solo partito. D’altra parte l’esiguo numero di giornalisti sconsigliava la loro frammentazione nelle diverse Confederazioni sindacali, pena l’annullamento di ogni seria rappresentatività di categoria. Unica soluzione, senza alternative, fu pertanto quella di consolidare la Federazione della Stampa come sindacato unico e unitario del giornalismo italiano. A convalidare questa scelta, resa obbligata dagli eventi, intervenne subito l’adesione della CSC al patto d’alleanza con la FNSI del ‘47, patto che fu in seguito sottoscritto da tutte le nuove Confederazioni sindacali, dalla CISL, dalla UIL e, infine, anche dalla CISNAL, l’organizzazione sindacale di estrema destra.
33 Per un profilo di Guido Calogero, cfr. da ultimo S. ZAPPOLI, Guido Calogero (1923-1942), Edizioni della Normale, Pisa 2011.
Guido Ferrini, La stampa italiana dal dopoguerra alla seconda Repubblica. Dalle concentrazioni editoriali alla finanziarizzazione dell’editoria, Tesi di laurea, Università di Pisa, Anno accademico 2014-2015