Il programma per De Gasperi era esclusivamente strumentale

Allo scioglimento del gruppo di “casa Padovani” – tutto interno all’ambiente accademico dell’Università Cattolica più personalmente vicino a padre Gemelli e a mons. F. Olgiati) voluto da Dossetti fin dal 1941 per “cominciare a pensare al futuro” <5 (don Carlo Colombo ricorda come per volontà del Rettore si erano avviati incontri in tal senso, ma altre testimonianze indicano con precisione che la prima ristretta riunione tra Orio Giacchi, Umberto Padovani e Dossetti avvenne il 24 giugno 1940 <6), cioè ad un nuovo assetto sociale e statuale (il “novus ordus” pacelliano) dell’Italia postfascista, a prescindere da programmi “partitici” – conseguente al precipitare degli eventi successivi al 25 aprile 1943 <7, Dossetti porta con sé a Cavriago (il paese dei suoi, nel reggiano) e fa girare anche in ambienti comunisti, gli appunti (che andranno perduti durante le operazioni partigiane) sui principi di un possibile “ordine nuovo”, in concreto una nuova Costituzione da dare al Paese, che il gruppo milanese lo aveva incaricato di stendere poco prima dell’inatteso 25 luglio 1943 (Fanfani fuggirà in Svizzera, La Pira si rifugerà nella clandestinità, Lazzati verrà deportato in Germania).
Non sembra essere stato ancora evidenziato a sufficienza che il gruppo “dossettiano” di casa Padovani è sicuramente il primo ad essersi occupato in modo organico di un possibile assetto istituzionale postfascista e ad aver formulato concretamente un’ipotesi di nuova Costituzione. Niente di così specifico compare, anche successivamente, nei documenti programmatici clandestini della DC romana e del gruppo guelfo milanese.
Il “Codice di Camaldoli”, come si sa, è piuttosto la formulazione di principi di un possibile orientamento sociale, etico ed economico, di ispirazione cristiana, tant’è che viene promosso dalla Sezione Laureati dell’AC e dall’ICAS (diretta da don P. Pavan) ed è, comunque, prevalentemente articolato sui contributi di docenti della Cattolica (nell’elenco degli invitati al convegno, curiosamente, risulta anche Ermanno Dossetti <8 e non Giuseppe al quale, come segnala don Carlo Colombo, il gruppo Padovani aveva poco prima affidato la stesura dei principi di un “codice sociale”. G. Dossetti non compare neppure tra i numerosi nomi indicati da Veronese per i “Comitati di Redazione” del Codice che avrebbero dovuto riunirsi a Milano, Roma, Bologna, Venezia e Genova, diretti rispettivamente da Fanfani, Paronetto, Pergolesi, Vanoni, Gonella, mons. Guano e don Siri) <9.
[NOTE]
5 Testimonianza di Fanfani riportata in diverse interviste giornalistiche e del tutto coincidente con quella di Dossetti: “Non crede professore, che bisognerebbe incominciare un po‟ a parlare di quel che sta succedendo? E lui disse: “Sì.”, in conversazione registrata, non rivista dall’Autore e inedita, rivolta ai membri della propria comunità religiosa il 25 maggio 1986, nel contesto di un ricordo della figura di G. Lazzati, a Villa Pallavicino di Bologna.
6 Vedi testimonianza di F. M. Pandolfi, in “Appendice”.
7 Si veda A. Parola, “Pensare la ricostruzione: gli incontri di casa Padovani”, in Giuseppe Dossetti: la fede e la storia, cit., pp. 261-280.
8 Potrebbe trattarsi di un mero errore di trascrizione, ma non è da escludere che Ermanno – manifestata fin dai primi tempi una spiccata autonomia di pensiero e di azione rispetto al fratello maggiore e assai vicino al gruppo dei fratelli Lazzati (Agostino non era meno conosciuto di Giuseppe), militante di Azione Cattolica fino a divenire successivamente presidente del Comitato Civico diocesano di Reggio Emilia – fosse già conosciuto negli ambienti romani di AC.
9 “La dottrina sociale cattolica”, testo integrale del cosiddetto “Codice di Camaldoli”, rinvenuto in Asils, FGG, è il documento finale della “Settimana di Camaldoli”, svoltasi dal 18 al 24 luglio 1943, in preparazione della quale V. Veronese, in qualità di Segretario Generale della Sezione Laureati dell’Azione Cattolica, il 10 luglio invia “Direttive e norme per i lavori” ad un indirizzario di settanta convocati, tra cui: L. Montini, mons. A. Bernareggi, G. La Pira, F. Vito, F. Pergolesi, A. Fanfani, P. E. Taviani, A. Saraceno, S. Paronetto, F. Pergolesi, G. Criconia, I. Giordani, M. Ferrari Aggradi, S. Golzio, don G. Gemellaro, don C. Colombo, G. Gonella, E. Tosato, O. Giacchi, G. Bo, don P. Pavan, G. Capograssi, A. Amorth, L. Bianchini, B. Togni, E. Falck, E. Vanoni, M. Boldrini, A. Baroni, don E. Guano, G. Balladore Pallieri, padre M. Cordovani, A. Moro, G. Andreotti, padre A. Brucculeri s.j., L. Bianchini, M. Boldrini.
Sulla scrittura del “Codice di Camaldoli si sa poco e si è detto poco, in ciò intuendo il peso modesto che in quegli anni gli si attribuì nello sviluppo storico del partito cattolico. G. De Rosa osserva: “In questo laboratorio lavoravano uomini come S. Paronetto e P. Saraceno, di indubbia formazione cattolica, che troviamo insieme con Vanoni e Capograssi tra gli artefici del Codice di Camaldoli, cioè di quel complesso di indirizzi programmatici ispirati alla dottrina sociale della Chiesa, che furono elaborati in vista della ricostruzione. (…) Uomini, potremmo dire, di scuola montiniana, ai quali si legò E. Vanoni (…) che avevano conosciuto l’inadeguatezza degli strumenti del vecchio Stato giolittiano nel governo delle masse e delle forze produttive (…) con una nuova consapevolezza del ruolo dello Stato in un’economia capitalistica che aveva gravi problemi sociali da risolvere e per i quali l’iniziativa privata e l’impresa industriale si erano dimostrate insufficienti (…) E’ vero che si parla ancora troppo di dottrina sociale della Chiesa, ma si affaccia anche il nuovo (….) aggiungeva qualcosa in più, una visione del ruolo dello Stato, che anche un cattolico sturziano difficilmente avrebbe potuto ammettere”, in Da Luigi Sturzo ad Aldo Moro, Brescia, Morcelliana, 1988, pp. 29-30. Riconosce l’eccesso di “dottrina sociale”, ma non dice che cosa in realtà avrebbe “aggiunto” oltre all’implicito, per un documento di AC, concetto di “Stato sociale”.
Roberto Villa, Per una reinterpretazione della fuoriuscita di Dossetti dalla DC. Nuove fonti archivistiche sulle due vicesegreterie nazionali del partito (1945-46 e 1950-51), Tesi di dottorato, Alma Mater Studiorum – Università di Bologna, 2010

La questione della nascita della Democrazia cristiana costituisce uno degli aspetti più interessanti e complessi nella ricostruzione della storia della partecipazione dei cattolici alla vita politica italiana. Il divieto di partecipare attivamente alla vita dello Stato, imposto dal regime fascista e sancito con la liquidazione degli avversari politici il 9 novembre 1926, finì per influenzare in modo determinante il processo di ricostruzione dei partiti politici. Per questa ragione, la Democrazia cristiana nacque come partito clandestino tra la fine del 1942 e i primi mesi del 1943 dal convergere, su un medesimo programma, di diverse tendenze e orientamenti presenti all’interno del complesso e variegato mondo cattolico <16. La presenza di eterogeneità all’interno di esso rese possibile lo sviluppo di un confronto dialettico che avrebbe portato le diverse parti a dibattere sul ruolo che i cattolici avrebbero dovuto svolgere nel processo di ricostruzione della nazione nel secondo dopoguerra. Nel momento in cui la crisi del fascismo era parsa irreversibile, ai cattolici veniva offerta l’occasione di colmare, attraverso forme di partecipazione attiva, il vuoto istituzionale che si era creato <17.
A tal fine, i primi incontri costitutivi della nuova formazione politica si tennero a Roma proprio intorno alla figura di Alcide De Gasperi. Alle riunioni, che si svolsero con una certa regolarità, parteciparono attivamente ex-popolari, fra i quali Cingolani, Gonella, Grandi, Gronchi, Scelba e Spataro per discutere sulla forma che avrebbe assunto l’azione politica dei cattolici <18. Eventi analoghi si svolsero anche nella città di Milano, intorno a Piero Malvestiti, Gioacchino Malavasi e ai loro amici che avevo partecipato attivamente all’esperienza del Movimento guelfo d’azione, considerato «punta avanzata dell’antifascismo cattolico» <19. Una prima occasione di confronto fra i due gruppi avvenne in Trentino, a Borgo Valsugana, nell’estate del 1942. In queste riunioni si sarebbe scelto il nome «Democrazia cristiana» e si sarebbero confermate le linee del programma del partito. Nel verbale di una riunione tenutasi il 6 agosto del 1943 si trova traccia delle tensioni di ordine psicologico emerse nel confronto tra il gruppo romano e quello milanese. Tra i cattolici della prima generazione non mancarono dissonanze interne e tendenze finalizzate a riproporre lo schema della passata esperienza popolare. Comune a tutti i popolari era «la visione storico-politica e non teorica del problema della presenza dei cattolici in politica» <20. L’attività dei guelfi, invece, si era svolta all’interno degli ambienti della formazione giovanile di Azione cattolica e per questo si presentava molto diversa. La proposta politica ideata dal gruppo guelfo era decisamente più avanzata rispetto a quella degli ex-popolari ma, al tempo stesso, meno qualificata e matura perché proveniente da una tradizione priva di esperienze politiche significative.
La suggestiva espressione «siamo democratici perché cristiani» <21 di Edoardo Clerici, scritta in un opuscolo della Dc, può essere considerata una chiara espressione della teoria neoguelfa. Il Movimento pensava alla democrazia come una conseguenza storica e spirituale del cristianesimo, considerando la libertà politica come derivata direttamente dalla libertà spirituale proclamata nel Vangelo. Gianni Baget-Bozzo ha notato come il gruppo guelfo «aveva la forza e la debolezza dell’antifascismo cristiano. Esso non sapeva esprimere una propria ideologia ed una propria visione politica, tanto che nella Democrazia Cristiana non riuscì nemmeno a organizzarsi come componente omogenea e fu assorbito nella classe dirigente del partito a titolo individuale» <22.
De Gasperi cercò sempre di ampliare la rete di collaborazioni con la nuova generazione di cattolici, prendendo contatti diretti anche con i dirigenti della FUCI e del Movimento laureati di Roma. In particolare, vennero contattati Sergio Paronetto, Giorgio La Pira come esponente del gruppo fiorentino, e alcuni docenti dell’Università cattolica di Milano che cercavano nel campo economico nuove e più coerenti espressioni della dottrina sociale della Chiesa. Alla vigilia della caduta del fascismo, alcuni dei più significativi esponenti di questi gruppi si riunirono a Camaldoli, nel Cenobio dei Padri Camaldolesi, per una settimana di studio. Fu proprio in quel contesto che si affacciò l’ipotesi della redazione di un testo di «cultura sociale» a cura della sezione Laureati, della presidenza centrale dell’Azione cattolica e della Direzione dell’Istituto Cattolico di Attività Sociali (ICAS). Il risultato di questo incontro fu la produzione del Codice di Camaldoli <23 pubblicato sotto il titolo Per la comunità cristiana: principi dell’ordinamento sociale a cura di studiosi amici di Camaldoli <24 che, come ha affermato Pietro Scoppola, rappresenta «uno dei contributi più rilevanti provenienti dall’ambiente cattolico italiano, legato alle associazioni ufficiali, al dibattito culturale e politico sociale del dopoguerra nel nostro paese» <25. La stesura di quel documento era il punto di partenza per affrontare il problema della ricostruzione. Tra i principali estensori del testo figuravano i nomi di monsignor Adriano Bernareggi, monsignor Francesco Roberti, don Carlo Colombo, don Franco Costa, Paronetto, Saraceno, Montini, Vanoni, Capograssi, Andreotti, Gonella, La Pira, Moro, Pergolesi, Taviani. A conclusione dei lavori vennero approvati settantasei enunciati, scritti in termini sintetici, corredati da numerosi riferimenti a documenti pontifici e alla dottrina tomista. I concetti fissati nel codice di Camaldoli propongono un modello di organizzazione della società e dello Stato che si pone oltre l’esperienza della dittatura fascista, la quale non viene considerata solo come una parentesi della storia dell’umanità ma come un momento che necessita di essere compreso nelle sue dinamiche più intrinseche per poter essere meglio superato. In sostanza, in quel documento si affermò l’idea che al vertice della politica doveva esserci collocata la persona umana, la quale si organizza in corpi sociali che a loro volta costituiscono la comunità più ampia che è lo Stato. Questa impostazione ideologica riflette un esplicito rifiuto dei postulati del corporativismo, le cui caratteristiche apparivano legate a forme di governo dittatoriale e a partito unico. Infine, il coevo documento di Camaldoli contiene riferimenti alle dottrine tradizionali del cattolicesimo e rafforza la necessità di dover risolvere il problema principale di formulare una terza via tra socialismo e capitalismo.
Il progetto che ispirava la politica del gruppo degli ex-popolari, che rappresentò il fulcro del programma della Democrazia cristiana era molto diverso. Per i cattolici della prima generazione era diverso il modo di pensare le istituzioni: «esse erano strumenti del popolo, per il popolo, con il popolo e spettava loro il compito di difendere la democrazia attraverso il rafforzamento delle strutture statali» <26.
Quelle descritte fin qui non erano le uniche realtà presenti nel complesso mondo cattolico. A Roma avevano ripreso la loro attività i giovani del partito della Sinistra cristiana <27 costituitosi nel 1937. Essi rivendicavano convintamente l’importanza di segnare una discontinuità con l’esperienza del fascismo e costruire un ordine nuovo fondato sui valori cristiani. Parimenti, in alcune regioni italiane aveva raggiunto un’ampia diffusione il Movimento cristiano sociale di Gerardo Bruni, un cattolico che rimase sempre convinto del fatto che la missione affidata ai cristiani impegnati in politica potesse essere riassunta nella «costituzione di un’organizzazione che, da una parte non spenga l’individualità, salvaguardi la dignità della persona e del lavoratore e interessi la produzione di ogni categoria di lavoratori e, dall’altra, rappresenti una seria garanzia contro il risorgere dell’individualismo» <28. In entrambe le realtà l’obiettivo era comunque quello di dar vita ad un progetto politico estremamente radicale che mal si conciliava con il progetto più realistico e moderato della dirigenza democristiana. Seppur il ruolo e l’incidenza di questi ultimi gruppi nel processo di formazione della Democrazia cristiana siano stati marginali, è importante citarli per comprendere il clima nel quale il nuovo partito, almeno in un primo momento, si trovò ad operare. Questo riferimento ad una pluralità di sensibilità e di istanze aiuta a comprendere i diversi presupposti dai quali i cattolici partirono per la ricostruzione della struttura politica e sociale della nazione. Molte delle caratteristiche più importanti della Democrazia cristiana si possono comprendere solo se analizzate in prospettiva, innanzitutto, di questo difficile rapporto fra le diverse generazioni. Nonostante le evidenti differenze, vi furono, tuttavia, dei punti indiscutibili di convergenza sui quali poté e riuscì a concretizzarsi l’unità politica dei cattolici: il riconoscimento del primato della libertà politica, l’affermazione della giustizia sociale e il ruolo interventista dello Stato volto a correggere gli squilibri del capitalismo e a limitare i rischi del collettivismo.
Costituisce un dato rilevante il fatto che nella nuova generazione di cattolici un denominatore comune fu l’estraneità alla tradizione popolare e la naturale opposizione ad una proposta che rappresentasse soltanto un ritorno alla situazione del passato. Di questo De Gasperi dovette tenere conto quando arrivò il momento di scegliere il nome del nuovo partito politico: la parola popolarismo, molto cara a Don Luigi Sturzo e ai popolari, appariva in quel preciso contesto ormai deteriorata e strettamente legata alle dinamiche del periodo prefascista. Come affermò De Gasperi, con l’epiteto Dc si volle sottolineare la volontà di «non ripetere gli errori del passato evitando anche l’impressione di invitare i giovani ad un’assemblea ove podio e poltrone fossero già occupati in forza dei meriti passati o in base all’anzianità di servizio» <29. Parimenti, la scelta del nome rivelava l’obiettivo di realizzare una fusione tra le due generazioni. Nella circolare n.7 del 1° settembre 1943 si rafforzò la raccomandazione di coinvolgere i giovani nella formazione dei comitati provinciali, sottolineando l’importanza della loro collaborazione e la fiducia riposta in essa per l’opera di rinnovamento che il paese attendeva.
La questione della scelta del nome rappresentò un problema principalmente di tipo ideologico e vide, ancora una volta, De Gasperi mediare tra i vecchi popolari e la nuova generazione di cattolici. Per gli appartenenti al Movimento guelfo il nome avrebbe dovuto essere Democrazia cristiana, coerentemente con la loro idea del fondamento cristiano della democrazia, mentre per gli ex-popolari il nome avrebbe dovuto essere quello dell’ormai disciolto Ppi, per sottolineare una continuità con la tradizione prefascista. Dinnanzi alle diverse ipotesi, Alcide De Gasperi si mosse diplomaticamente e con estrema abilità, cedendo sul nome del partito ma non sul contenuto: la nuova formazione politica finì per chiamarsi Democrazia cristiana ma il personale politico che ne assunse la dirigenza fu quello degli ex-popolari <30. Con questa azione il leader della Dc riuscì a restituire fiducia alla componente popolare, che gli fu vicina durante l’operazione di riconquista delle masse, ma ebbe sempre la chiara consapevolezza che non sarebbe stato possibile in nessun modo «ricreare il retroterra ideologico e materiale» che era stato proprio del Partito popolare italiano.
Quest’ultimo non faceva più parte della memoria del movimento cattolico, che lo riteneva ormai sepolto e suggellato insieme allo Stato liberale e ai suoi protagonisti.
Le ragioni di tale impossibilità devono essere comunque ricercate nei mutamenti politici, sociali ed economici del secondo dopoguerra. Il contesto storico in cui si trovò ad operare Alcide De Gasperi fu del tutto nuovo e decisamente più complesso rispetto a quello del 1922-1926 in cui operò Don Luigi Sturzo. Secondo lo storico Renato Moro la classe dirigente formatasi durante il periodo fascista «poté considerarsi del tutto nuova e figlia della frattura che il regime aveva provocato nel movimento cattolico italiano» <31. Dunque, la presenza di questi nuovi quadri rappresentò quel tratto di discontinuità necessario a rendere fondata l’affermazione che la Democrazia cristiana non avrebbe mai potuto essere l’erede diretta del Partito popolare italiano. E su quest’ultimo punto lo stesso De Gasperi intervenne più volte, sottolineando come «il popolarismo è un patrimonio che, in ogni caso, abbiamo il diritto di rivendicare. […] Ma la nuova generazione che a tali battaglie non partecipò, non chiede di adattarsi sul passato, ma di marciare insieme verso l’avvenire. Dei più anziani sarà lo sforzo di creare un ponte verso le loro aspirazioni e i loro sentimenti e lo sforzo loro sarà quello di studiare la storia per evitare errori ed imitare esempi, e il ponte dell’incontro si chiamerà Dc, comune patrimonio di idee dal quale trarremo ispirazione per un concreto programma di azione politica» <32.
Gianni Baget-Bozzo sostiene che il nuovo nome del partito avrebbe permesso a De Gasperi di distaccarsi dalla tradizione popolare in un punto essenziale: mentre per Don Luigi Sturzo il programma aveva un’importanza sostanziale per De Gasperi era esclusivamente strumentale. Egli affermava che il programma politico di un partito non era da intendersi come un impegno vincolante per il futuro ma come uno strumento per risolvere i problemi del presente. Al contrario, per Sturzo le formule politiche e programmatiche rivestivano un’importanza primaria e il programma non era considerato solo come un esperimento o un mero elenco di contenuti amministrativi, ma rappresentava un atto di moralità e di creatività politica.
La Democrazia cristiana, nella proposta degasperiana, si sarebbe presentata fin da subito diversa dal partito Popolare italiano proprio sulla base di questa considerazione. In aggiunta, nell’elaborazione del suo programma Sturzo dovette necessariamente abbandonare qualsiasi tipo di riferimento ideologico e velare la strumentalità del potere politico rispetto a quello ecclesiastico. Di contro, la formula degasperiana esponeva il partito cristiano in forma subordinata e strumentale rispetto alla gerarchia ecclesiastica, gettando così le premesse per quello che sarebbe stato il partito dell’unità dei cattolici e determinando, sul piano elettorale e politico, il suo successo.
[…] Secondo l’interpretazione di Gianni Baget-Bozzo, sarebbe stata proprio questa affermata influenza della Chiesa cattolica sulla società italiana a spingere De Gasperi a pensare alla Dc come ad uno strumento della dottrina sociale cristiana, capace di dare applicazione al modello «gelasiano» in cui vi è dipendenza del potere civile rispetto a quello religioso35. Questa lettura del ruolo strumentale che poteva assumere il partito politico per De Gasperi mette in evidenza un dato importante: tra le tante preoccupazioni che muovevano il leader della Dc quella decisamente più assillante era la questione del consenso della Chiesa cattolica alla democrazia e al nuovo partito. Quest’ultimo avrebbe assunto, oltre che un compito politico, anche un ruolo di supplenza religiosa e culturale. Per meglio comprendere questo punto è fondamentale fare riferimento all’esperienza del 1922-23 che egli in prima persona aveva vissuto con estrema sofferenza: il volgersi delle simpatie vaticane verso il fascismo aveva segnato la crisi della democrazia in Italia e gettato, ancora una volta, i ceti medi italiani verso un rifiuto delle istanze democratiche. Al contrario, la Chiesa, con il suo appoggio alla Dc, avrebbe garantito fermezza e adesione popolare al processo di ricostruzione e alla democrazia. Per De Gasperi era, dunque, prioritario riuscire a superare i vari orientamenti e le varie tendenze presenti all’interno del Vaticano facendo accettare il disegno di un reinserimento dei cattolici nella vita politica italiana attraverso un partito di ispirazione cristiana che, al tempo stesso, avrebbe goduto della sua necessaria autonomia. L’impresa era piuttosto ardua anche a causa delle sensibilità plurali che emergevano nelle gerarchie vaticane. L’intuizione di De Gasperi sulla necessità di coinvolgere la Chiesa nel progetto democratico lo aveva portato ad interfacciarsi con la complessità propria dell’ambiente ecclesiastico e a subirne inevitabilmente i condizionamenti. All’interno della Chiesa, infatti, la partecipazione dei cattolici alla vita politica era immaginata in una forma pluralista e differenziata che avrebbe rappresentato al meglio l’eterogeneità propria del mondo cattolico36. Proprio in virtù di questa ragione la proposta avanzata dalla futura dirigenza democristiana di puntare tutto sull’unità politica dei cattolici, appoggiando i progetti del nuovo partito e delegando solo ad esso la tutela delle prerogative della Chiesa, appariva decisamente prematura. L’idea più difficile da accettare rimaneva comunque quella di rendere possibile l’ipotesi di una collaborazione del partito dei cattolici con altre forze politiche non cattoliche, o addirittura ostili: era solo realizzando questo progetto che sarebbe stato, tuttavia, possibile scongiurare un appoggio della Chiesa cattolica e del popolo italiano a forme di governo autoritario. La riuscita di questa impresa avrebbe determinato il successo della Democrazia cristiana che, altrimenti, sarebbe passata alla storia solo come una piccola formazione destinata ad incontrare le stesse difficoltà del Partito popolare italiano. Rispetto al partito di Don Luigi Sturzo, la Democrazia cristiana avrebbe subito uno sviluppo inverso: agli inizi della sua storia non fu il partito della Chiesa ma lo divenne successivamente e in suo favore giocò indubbiamente l’unità politica dei cattolici che, nonostante le notevoli difficoltà, riuscì a determinarsi.
Quello che nacque nel 1942 si può considerare, dunque, un partito nuovo e del tutto diverso dal Partito popolare italiano anche se, secondo il giudizio dello storico Pietro Scoppola, sulla linea di una sostanziale continuità con esso. Sul piano programmatico ed elettorale la Democrazia cristiana si presentava come un partito interclassista e i risultati delle ricerche sociologiche condotte in questi anni hanno confermato in modo inequivocabile questa peculiarità. Estendendo l’analisi al di là dei confini del mondo cattolico si può affermare che la base elettorale della Dc fosse composta principalmente dal ceto dei contadini. Questo dato spiega perché il partito di De Gasperi fosse molto più forte e radicalizzato là dove era diffusa la piccola proprietà contadina, mentre rimaneva marginale nelle campagne dove prevaleva la mezzadria o il bracciantato agricolo. Come ricordato, la difesa della piccola proprietà contadina avrebbe sempre rivestito un’importanza centrale nella strategia della Dc: non a caso la riforma più significativa realizzata nel periodo del centrismo degasperiano sarebbe stata proprio quella agraria. Ma la Democrazia cristiana era anche inevitabilmente un partito di ceti medi: il legame che essa cercava di stabilire tra questi ultimi e i ceti contadini non era affatto casuale. De Gasperi aveva intuito che il consenso dei ceti medi al partito non sarebbe stato di facile ottenimento: questo ceto sociale, dopo la caduta del regime fascista, si ritrovò quantitativamente rafforzato soprattutto nelle zone del sud Italia dove era estranea l’esperienza della Resistenza. Con la liberazione e la fine del regime, la borghesia e il ceto medio subirono una profonda crisi culturale e morale che si tradusse con un diffuso quanto convinto rifiuto della politica <37. Il consenso della Chiesa alla Dc sarebbe stato un tramite importante anche in questo senso per far convogliare verso il nuovo partito adesioni politicamente poco qualificate. Nei primi anni della sua esistenza, il partito dei cattolici ebbe limitate possibilità di svolgere un lavoro autonomo sulla sua base e l’opera di organizzazione delle strutture interne si dimostrò fin dall’inizio molto lenta. A conferma di ciò, il 10 ottobre 1944, Alcide De Gasperi scrisse a Sturzo per aggiornarlo sugli sviluppi del suo operato sottolineando come il partito necessitasse di una forte concentrazione di forze che egli momentaneamente faceva fatica a concedere in quanto impegnato nell’attività di governo.
[NOTE]
16 F. Malgeri, Chiesa, cattolici e democrazia. Da Sturzo a De Gasperi, Morcelliana, Brescia, 1990; P. Scoppola, La proposta politica di De Gasperi, cit., pp. 29-61.
17 V. Capperucci, Il partito dei cattolici, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2010.
18 Sulla nascita del partito si veda: G. Spataro, I democratici cristiani dalla dittatura alla Repubblica, Mondadori, Milano, 1969.
19 V. Capperucci, Il partito dei cattolici, cit., la cit. è a p. 32.
20 P. Scoppola, La proposta politica di De Gasperi, cit., p. 96 ss.
21 E. Clerici, Perché siamo democratici cristiani, Api, Milano, 1945, p. 14.
22 G. Baget Bozzo, Il partito cristiano al potere. La Dc di De Gasperi e di Dossetti, 1945-1954, Vallecchi, Firenze, 1974.
23 Questo documento chiamato Codice di Camaldoli venne pubblicato con il titolo Per la comunità cristiana: principi dell’ordinamento sociale, Studium, Roma, 1945.
24 V. Capperucci, Il partito dei cattolici, cit., p. 33; F. Malgeri, Storia della Democrazia Cristiana. 1943-1948, Edizioni Cinque Lune, Roma, 1987-1989, pp. 24-27.
25 R. Webster, La croce e i fasci. Cattolici e fascismo in Italia, Feltrinelli, Milano, 1964 pp. 199 ss; P. Scoppola, La proposta politica di De Gasperi, cit., p. 60.
26 V. Capperucci, Il partito dei cattolici, cit., p. 34.
27 N. Antonetti, L’ideologia della sinistra cristiana. I cattolici tra Chiesa e comunismo: 1937-1945, Franco Angeli, Milano, 1967.
28 G. Bruni, La professione nell’economia della vita cristiana, in «Studium», n.3, 1936.
29 A. De Gasperi, I cattolici dall’opposizione al governo, Roma-Bari, Laterza, 1955, p. 492; P. Scoppola, La proposta politica di De Gasperi, cit., p. 64.
30 G. Baget-Bozzo, Il partito cristiano al potere. La Dc di De Gasperi e Dossetti, cit., pp. 30-40.
31 V. Capperucci, Il partito dei cattolici, cit., p. 90; R. Moro, La formazione della classe dirigente cattolica. 1929-1937, Il Mulino, 1982.
32 F. Traniello, Dal Partito Popolare alla Democrazia cristiana, in AA.VV., Luigi Sturzo e la tradizione cattolico-popolare, Morcelliana, Brescia, 1984. p. 122; V. Capperucci, Il partito dei cattolici, cit., p. 90.
35 P. Scoppola, La proposta politica di De Gasperi, cit., p. 69; G. Baget Bozzo, Il partito cristiano al potere. La Dc di De Gasperi e di Dossetti, 1945-1954, cit., p. 63
36 V. Capperucci, Il partito dei cattolici, cit., p. 26
37 P. Sylos Labini, Saggio sulle classi sociali, Bari, Laterza, 1975, pp. 156 ss.
Martina Cirelli, La ricostruzione degasperiana dell’Italia: il decennio 1943-1953: dal partito alla nazione, Tesi di laurea, Università LUISS “Guido Carli”, Anno accademico 2020/2021