Lo sfruttamento dello sport

Il quindicennio subito dopo la seconda guerra mondiale, tra il 1945 e il 1960, è stato caratterizzato non solo da numerosi eventi sportivi, nazionali e internazionali, di maggiore o minore rilievo, come quelli che sono stati descritti, ma vi sono stati anche altri importanti traguardi, che avrebbero segnato e modificato il cammino e la percezione dello sport nei decenni successivi.
Uno degli aspetti più importanti riguardò la distinzione tra dilettantismo e professionismo, che regolava in particolar modo la partecipazione alle Olimpiadi. Ai Giochi, infatti, erano ammessi solo gli atleti dilettanti, coloro cioè che non traevano guadagno dalla loro attività di sportivi, ma avevano un altro lavoro e si dedicavano allo sport nel tempo libero, ricevendo al massimo dei rimborsi spese, il vitto e l’alloggio o altri benefit di scarsa entità. Le norme in materia erano molto rigide e non mancarono casi in cui alcuni campioni vennero esclusi perché considerati professionisti, in quanto avevano ricevuto grosse somme per partecipare a una competizione, oppure avevano prestato il loro volto a un’azienda per una pubblicità o ancora avevano lasciato temporaneamente o definitivamente il lavoro per dedicarsi completamente allo sport, vivendo grazie ai guadagni in quel settore. L’esclusione di possibili medaglie d’oro era un prezzo troppo elevato da pagare, in particolare per i due grandi Stati USA e URSS, soprattutto quando in gioco vi erano non solo le vittorie sportive, ma anche la pretesa superiorità di un’ideologia e di un sistema, fondato sul capitalismo o sul comunismo. Nacque così il cosiddetto “dilettantismo di Stato”, formula usata soprattutto in relazione all’Unione Sovietica: il governo finanziava abbondantemente lo sport, cercava i futuri talenti e ne curava la formazione e l’allenamento, ricompensandoli, in particolare in caso di vittoria, con benefici lavorativi e in denaro, che garantivano un tenore di vita superiore a quello medio; gli atleti, però, venivano spacciati per semplici lavoratori, impiegati solitamente nelle forze armate o come professori di educazione fisica. Più sottile era il sistema americano, che formava i futuri campioni all’interno dei college, anche in questo caso garantendo loro ricompense degne di un vero e proprio stipendio, pur risultando solo degli studenti.
A contribuire alla creazione di degni rappresentanti di una Nazione in campo sportivo intervenne anche la scienza, che studiava il corpo umano alla ricerca di tecniche, sostanze e materiali in grado di potenziare il fisico, per non sentire più la fatica o il dolore e migliorare anche notevolmente il risultato, magari battendo il record olimpico o mondiale, creando così un vanto per il Paese d’origine dell’atleta. «La medicina, la biologia, la chimica e la fisica, con le loro scienze collaterali, fanno il loro ingresso nello sport […], non per porsi al servizio dell’uomo che svolge un’attività sportiva, ma per servire al raggiungimento del miglior risultato sportivo nel minor tempo possibile, anche a danno della stessa salute dell’uomo. Il presunto assioma sport=salute […] viene così ribaltato nell’identità sport=risultato» <106. Il luogo maggiormente noto per questi esperimenti era l’Istituto superiore di Lipsia, nella Germania dell’Est, ma ben presto molti altri Stati crearono strutture analoghe, difendendo le scoperte in campo sportivo come fossero segreti militari.
“Gli scienziati sovietici superavano di gran lunga in attenzione e determinazione i pochi biologi e ingegneri delle università americane che per decenni erano stati a osservare le gambe dei corridori che correvano su pedane, l’ossigenazione del sangue nelle prove di fatica, o che avevano calibrato l’efficienza delle attrezzature per lo sci nel tunnel del vento. […] I potenziali atleti vennero riuniti in “accademie” dello sport che in realtà erano dei campi di addestramento a tempo pieno”. <107
Divenne chiaro, dunque, che «i risultati sportivi erano nel lungo corso manipolabili» <108 e che «erano il prodotto di obiettivi politici da realizzarsi attraverso la pianificazione a breve e a lungo termine delle risorse, della conoscenza scientifica, di membri particolarmente dotati della società» <109.
Il semplice atleta, colui che praticava uno sport per divertimento, per passione o magari per migliorare la propria condizione fisica, si trasformò così in campione e non era più uno dei tanti che poteva essere rappresentativo di una media, ma si elevava sopra di essa, diventava l’eccezione oltre la regola. Lo sviluppo dei mezzi di comunicazione, la radio prima e la televisione poi, sempre in modo più massiccio, contribuirono a questo mutamento, dando al campione spazio sempre maggiore, causando in lui e nel pubblico aspettative magari superiori alla realtà. Il vincitore esisteva da sempre ma cominciò in questi anni, in particolare in quelli del boom, a distinguersi, anche grazie all’intervento delle industrie, che sfruttavano la popolarità dello sportivo o dell’evento per pubblicizzare i propri prodotti. Contestualmente nacque anche lo “sport spettacolo” e gli italiani, che prima accorrevano negli stadi, sulle strade o al velodromo, adesso si accontentavano di vedere i propri beniamini in tv, sebbene il fenomeno fosse ancora agli inizi.
Se da un lato, infine, lo sport venne potenziato ai massimi livelli, allo scopo di guadagnare titoli nelle competizioni più importanti, dall’altro la scuola aveva ancora una posizione arretrata in questo campo e mancavano le strutture di base non solo per gli alunni durante le ore di lezione, ma anche al di fuori di esse. Per molto, troppo tempo, lo sport fu visto solo come una distrazione dalle materie più importanti e per questo motivo il suo inserimento tra i programmi scolastici è stato lento e fortemente accidentato, prima con il passaggio dalla ginnastica all’educazione fisica, poi con l’esclusione delle elementari e infine con lo status di materia a sé stante, cioè non faceva media con le altre. Oltretutto le palestre o erano assenti o comunque insufficienti e gli studenti erano costretti a correre tra i banchi, in corridoio o in giardino; le numerose proposte di legge avanzate per migliorare la situazione furono spesso archiviate per mancanza di fondi disponibili. In alcuni casi le strutture presenti non si potevano utilizzare, si pensi per esempio a ciò che accadde con il patrimonio immobiliare della Gioventù Italiana del Littorio (detta ex-GIL) che, dopo la caduta del fascismo, doveva essere liquidata come altri enti e i beni ripartiti tra vari ministeri, a seconda dell’originale uso e della competenza, ma non se ne fece mai nulla e, nonostante le proposte di legge, le palestre rimasero chiuse, sebbene ci fossero costi di gestione e l’organo fosse commissariato. Nemmeno le Olimpiadi di Roma riuscirono a dare impulso allo sviluppo dello sport nelle scuole e nelle città, anzi, il CONI, indebitatosi per l’evento, fece sapere che non avrebbe concesso nessun finanziamento e la politica, sempre preoccupata di non deludere i suoi elettori con tagli in alcuni settori, si mosse ben poco per trovare una soluzione.
[NOTE]
106 SANDRO PROVVISIONATO, Lo sport in Italia. Analisi, storia, ideologia del fenomeno sportivo dal fascismo a oggi, prefazione di Antonio Ghirelli, Roma, Savelli, 1978, p. 160.
107 RICHARD D. MANDELL, Storia culturale dello sport, trad. di Salvatore Maddaloni, Roma-Bari, Laterza, 1989 (originale: Sport: A cultural history, Columbia University Press, 1984), p. 237.
108 Ibidem.
109 Ibidem.
Francesco Pomiato, Letteratura, sport e società in Italia nel secondo dopoguerra (1945-1960), Tesi di laurea, Università Ca’ Foscari – Venezia, Anno accademico 2011/2012