Il lager diventava l’unica realtà immaginabile e concreta

Il Castello di Montechiarugolo (PR). Fonte: Wikipedia

Dora, nata in Polonia nel 1913, è una donna che sa condurre la sua vita con dignità, con coraggio e con determinazione, al di fuori delle sclerotizzate convenzioni della società del tempo; non è una vittima docile e rassegnata; e di conseguenza è doppia l’esclusione che deve fronteggiare: come donna e come ebrea.
Ebrea polacca, non praticante, conosce fin dall’infanzia l’antisemitismo del suo paese natale ma ne viene colpita direttamente solo dopo la morte del maresciallo Józef Pilsudski, nel 1935, quando la Polonia decreta per gli ebrei l’interdizione della frequenza a diverse facoltà universitarie, prima fra tutte quelle di medicina. E Dora, che alla laurea in medicina aspira, deve recarsi a studiare dapprima in Cecoslovacchia, a Bratislava da cui viene presto espulsa per la sua attività politica poiché già in Polonia, per reagire ai «soprusi del nostro governo», aveva abbracciato «con fervore l’ideale comunista».
La giovane donna decide allora di andare a studiare all’Università di Bologna, essendo del tutto ignara, come tanti, delle implicazioni razziste del regime fascista. Agli inizi può anzi godere anche delle facilitazioni che l’Italia fascista offre in quel torno di tempo agli studenti stranieri.
E nel 1936, durante una breve vacanza a Fiume, incontra «Lui». «Chiuso nella divisa bianca da ufficiale di marina, alto e slanciato, emanava un fascino, una specie d’incanto che faceva vibrare certe corde sensibili del mio animo». La passione che di lì a poco unisce i due amanti non trova ostacoli solo nelle ripetute lontananze imposte dai doveri militari del giovane ufficiale. La turba soprattutto il rifiuto ostinato di lui a legarsi in un vincolo stabile, anche quando nasce una bambina – che lui peraltro riconosce e legittima. Il diario di Dora ripercorre ostinatamente le vicende della relazione, formula congetture, fa rivivere sospetti e timori, alla ricerca di spiegazioni per un rifiuto, a lei incomprensibile, che non tocca gli aspetti formali ma investe la sostanza del loro rapporto. Certo ci sono ostacoli esterni – la sua condizione di ebrea straniera – ma sembra determinante il carattere stesso della donna, lontana da ogni modello consueto nell’Italia borghese in cui vive B. (la sigla con la quale Dora lo identifica).
Così come avviene per Maria Alemanno, la vicenda di Dora sembra testimoniare qualcosa di più che il pervicace maschilismo dell’Italia d’allora. Il comportamento degli uomini coprotagonisti di queste due vicende è intriso di un disprezzo profondo verso le loro donne che confina con la misoginia. E Dora vive quindi la sua maternità da sola, con rari momenti di conforto da parte del suo «marito» (il quale così si qualifica negli sfoghi epistolari), con riconciliazioni e rotture sempre legate alla collocazione eterodossa di Dora nel modello sociale e morale dell’Italia del tempo. Dopo la nascita della figlia si ritrova anche in gravi difficoltà economiche, perché il conseguimento della laurea non le apre, nell’Italia delle leggi antiebraiche, l’esercizio della professione.
La tormentata vicenda sentimentale si era infatti appesantita nel 1938 con l’emanazione della legislazione persecutoria. Uno spiraglio sembra aprirsi quando B., seguendo il suo tortuoso modo d’agire, sembra acconciarsi all’idea di una unione formale e in questa fase si risolve ad avanzare alle superiori autorità militari una domanda di permesso per un matrimonio «misto»; ma nel giro di pochi mesi la richiesta è respinta dalla Marina in omaggio alle leggi antiebraiche. (Per quanto Dora debba riconoscere che l’orientamento politico dell’arma, tradizionalmente monarchica, suggerisce ai superiori diretti comportamenti rispettosi verso la coppia irregolare).
Ma all’interno della coppia sono le tensioni nascenti dall’animo tradizionalista e autoritario dell’uomo a impedire rapporti sereni che si protraggano a lungo. Basta che «Lui» trovi in casa, solo con lei e la bambina, un uomo – Oskar, un comune amico, internato perché ebreo – per aprire una crisi irrimediabile. Ciò avviene nei primi mesi del 1943 nel corso di un soggiorno a Borgotaro, dove li ha portati la girovaga carriera dell’ufficiale, di stanza a Palmaria, isola del golfo di La Spezia, da dove nei giorni di licenza può raggiungere agevolmente Dora e la figlia.
“Si dava il caso che B. non nutrisse affatto sospetti circa la natura dei miei rapporti con Oskar, «Non rimarrei con te neppure un momento se pensassi ad un legame tra di voi» – confessò egli stesso. […] La pulsione che lo dominava in quel momento non era di natura fisica e carnale, ma una più sottile inconfessabile variante mentale di potestà perduta. Il suo orgoglio ferito non ammetteva alcun ragionamento e tanto meno concedeva a me la facoltà di agire in modo non consono ai suoi pregiudizi”.
È la fine di agosto 1943. La licenza è scaduta e B. se ne va. Ai primi di settembre, dopo l’armistizio, svanite le speranze dei quarantacinque giorni badogliani, Dora rimasta sola avverte il pericolo che si addensa su di lei: «La situazione stava diventando insostenibile per noi. Decisi come primo provvedimento di allontanare mia figlia da me, e fu un’intuizione davvero eccezionale che salvò la vita ad entrambe. […] Scrissi dunque alla famiglia di B., esponendo il pericolo che incombeva su mia figlia. In risposta venne mio cognato la portò con sé a Udine». In realtà i suoi precedenti rapporti personali con la famiglia del marito erano stati molto difficili: Dora è respinta per motivi non tanto moralistici (la sorella di B. era lei stessa una ragazza-madre), ma più probabilmente per gelosia verso un’estranea. A malincuore dunque manda la figlia presso i parenti, e resta a Borgotaro per affrontare il suo destino: una lucida scelta piena di coraggio, anche se non prudente. “Verso la fine di dicembre, passato il Natale, dalla caserma dei carabinieri arrivò l’ordine per me di… preparare la valigia. Quando giunsi alla stazione, scortata da un carabiniere, trovai ad attendermi l’amica Pina col viso rigato di lacrime. […] Io invece avevo gli occhi asciutti e conservavo una calma singolare, viste le incresciose circostanze in cui mi trovavo. Evidentemente stavo già calandomi nella fase di estraniazione da me stessa, in una sorta di «trance» che mi avrebbe poi sorretta durante le drammatiche traversie degli anni successivi. Con il mio accompagnatore giunsi a Monticelli Terme, ove il vecchio castello di Montechiarugolo era stato trasformato in centro di raccolta per donne ebree residenti nella regione”.
La detenzione nel «castello-prigione di Montechiarugolo» è il primo passo della sua vita nei lager. Quasi un preludio, mantenuto ancora nei toni sommessi per sfociare via via in una sinfonia dal timbro diverso e con finale a sorpresa inimmaginabile.
“[…] Un piccolo parco circondava il castello, con alberi che lamentavano abbandono e trascuratezza; inoltre vi abbiamo passato i due mesi più rigidi dell’inverno per cui non l’abbiamo quasi mai frequentato. Saliti i pochi gradini dell’ingresso, si accedeva ad un vasto soggiorno ove si radunavano le internate: donne ebree, provenienti da diverse parti d’Europa. In questo locale, provvisto di una vecchia stufa, risiedevamo abitualmente, consumavamo i pasti e chiacchieravamo sempre a bassa voce per non creare confusione e non essere redarguite dal direttore della comunità. Il quale direttore, uomo miserello, figura scialba e grigia, non era certo in grado, forse anche di propria volontà di incuterci paura. Ne aveva una buona dose egli stesso, come ci accorgemmo ben presto. La maggioranza delle donne erano jugoslave, fuggite dal loro Paese all’incalzare dell’esercito germanico. Seguivano le italiane, tra le quali era stata reclutata «la fiduciaria» signora C., moglie di un rabbino, incaricata di tenere i contatti tra le internate e il direttore; relazioni non molto conflittuali a dire il vero. La signora C, donna di temperamento vivace ed allegro, per quanto si poteva esserlo nella nostra situazione, era accompagnata da due figli. Essa non pareva affatto la moglie di un rabbino, o forse solo io avevo impressa in mente una tale immagine conosciuta in Polonia: figura complementare al marito, ligia custode dei rituali religiosi dell’ortodossia ebraica. La signora C. era provvista di una carica di umanità che riversava su tutte noi. Riuscirò mai a dedicarle un pensiero di particolare commozione ed evitare accenti macabri legati al suo destino? Sono stati i suoi due figli, con la sola presenza, a decretare la morte propria e quella della loro madre: di Auschwitz non hanno neppure varcato il cancello. Questa era l’incredibile spietata regola: alle donne accompagnate dai figli non si concedeva il diritto all’esistenza, imboccavano subito la scorciatoia verso la morte”.
La commossa rievocazione della «signora C.» fa emergere dalle memorie di Dora un carattere fondamentale, che la rende una figura ancor più singolare di quanto non suggerisca l’intera sua vicenda personale: è sempre attenta a cogliere ogni traccia di bontà e di dolcezza, di disponibilità umana ed emotiva, anche quando il clima cupo e disperante del destino suo e delle sue compagne sembra calare ogni sentimento in un universo di negazione.
Così avviene anche dopo il trasferimento da Montechiarugolo a Fossoli, vera e propria introduzione alla prigionia concentrazionaria. “La vita al castello-prigione, con i suoi limiti e le sue inevitabili privazioni, aveva pur sempre conservato dei punti in comune con quella condotta fuori delle sue mura: una casa, una mensa, un letto decente. Ma il presagio che così non poteva continuare a lungo era sempre presente dentro di noi. Fossoli infatti, era ben altra cosa: poteva essere già considerata l’anticamera dei campi di concentramento nazisti”.
Ma anche a Fossoli Dora riesce a individuare e valorizzare due figure positive. La prima è una singolare interprete.
“I tedeschi si facevano sempre accompagnare da un’interprete, una bella signora italiana, dai modi distinti, che essi trattavano con evidente riguardo. Quando, dopo la fine della guerra, feci ritorno in Italia e lessi il libro «Il Giardino dei Finzi-Contini», mi parve, ora ne sono quasi certa, che l’efficiente interprete di Fossoli non fosse altri che Micol, la radiosa e consapevole protagonista del libro. […] La presunta Micol non somigliava affatto allo stereotipo di «interpreti», tramandato nella memoria collettiva dei sopravvissuti come quello di «vendute», tendenti sempre dalla parte dei persecutori. […] La sera stessa del nostro arrivo, complice la semioscurità dell’ora, si era introdotta cautamente nella nostra baracca per infonderci coraggio e per fornirci consigli semplici ed efficaci, dei quali il più prezioso fu quello di rivolgersi a lei per qualsiasi necessità. […] Sia essa stata o meno la Micol del famoso romanzo, il ricordo della sua persona rimarrà per noi, durante tutta la deportazione, come un riferimento quasi simbolico cui ricorrere per non abbandonarsi al più nero pessimismo circa la natura umana”.
L’altra persona è Marcel.
“Caro, povero, amico Marcel! Egli mi aveva aiutata ad attraversare la prima tappa concentrazionale senza che la mia forza d’animo e la resistenza dello spirito si fossero affievolite, prima ancora di affrontare le future, terribili traversie. Quel dannato percorso che egli non sarebbe riuscito a superare. Di Marcel dopo la guerra non seppi nulla, salvo che dai lager non fece ritorno. Era scomparso con altri milioni di esseri umani in un vento di tempesta innominabile”. Lo aveva conosciuto nel viaggio di trasferimento verso Fossoli, figlio di un’altra internata di Montechiarugolo. Tra loro si stabilisce un’intesa «spontanea e amichevole», priva di ogni implicazione sentimentale: «tra Marcel e me non ci sarebbe stata alcuna banale avventura, né egli avrebbe mai soppiantato B. nel mio cuore». I loro colloqui erano fitti, condotti «in una miscellanea di svariati idiomi», in cui all’italiano, zoppicante per entrambi (Marcel era serbo), si mescolavano francese, tedesco e «perfino parole del serbo e del polacco». Importante era riuscire a comunicare e soprattutto ad erigere una barriera contro lo sconforto, sempre in agguato nelle nostre esistenze. Capitava anche, specie al calar della giornata, di rimanere seduti in silenzio; a volte Marcel prendeva la mia mano tra le sue e sussurrava un’espressione amorosa usuale nei nostri paesi: «anima mia». Io ne rimanevo commossa e toccata: non ero mica fatta di pietra”.
Perfino ad Auschwitz, destinazione finale per tutti i detenuti di Fossoli, si rivela la capacità di Dora di aprire un dialogo con le persone di primo acchito più distanti o ingrate. Sul viaggio che la porta da Fossoli ad Auschwitz Dora spende poche parole, perché esso è stato descritto – dice – molte volte. E sommariamente descrive anche i riti d’ingresso, la spogliazione, le docce, la rasatura; la sua attenzione si rivolge piuttosto alle donne che sovraintendono a queste «ingrate mansioni»: “prestavano la loro opera deportate particolari, recluse ad Auschwitz da molti anni. Per lo più ebree cecoslovacche, seguite da quelle polacche, i cui paesi d’origine erano stati tra i primi ad essere invasi dalla Germania. Dopo aver vissuto tragedie inenarrabili, assistito allo sterminio delle proprie famiglie, esse si erano rifugiate nell’oblio che faceva loro perdere ogni memoria del mondo esterno. Il lager diventava l’unica realtà immaginabile e concreta. E in esso cercavano di conquistare condizioni di vita al meglio possibile. Col tempo passavano alla categoria dei «numeri vecchi» e come tali costituivano la classe privilegiata delegata dai nostri aguzzini a dominare sulle masse amorfe delle altre. Ma quanto erano sbrigative, arroganti, ruvide e violente con noi, appena arrivate! Un modo per vendicarsi del tempo di libertà goduto, secondo loro, mentre esse si trovavano di già rinchiuse nel lager. Come non comprenderle! Sì, ma non allora, nel momento in cui, frastornate dall’impatto con l’allucinante realtà, ci saremmo attese invece un aiuto da parte loro. Solamente una, Halina, si rivolgeva a noi in modo tranquillo, incoraggiante, protettivo. Mi sono azzardata, ché di un gesto temerario si trattava, a chiederle il motivo del suo atteggiamento cosi diverso dalle altre. La risposta che diede fu un messaggio di solidarietà umana che non avrei mai voluto scordare. «Il fatto è» – disse – «che malgrado tutto non ho mai perso la fiducia nel mio prossimo». Cara, dolce, indimenticabile Halina!”
Ai riti dell’ingresso segue il durissimo periodo della quarantena, nel corso del quale Dora comincia ad apprendere le verità del lager; dalla soppressione immediata, all’arrivo nei campi, di tutte le donne con i figli, di quelle inabili o per malattia o per età avanzata, fino a cogliere il lato per lei più disumanizzante di quella condizione: “già durante la quarantena molte di noi avevano capito quanto sarebbe stato sbagliato credere che il ricordo di persone care e degli affetti provati potesse essere di conforto. La fatica di vivere giorno per giorno ci assorbiva completamente, imponendo di recidere il filo che ci legava alla vita precedente; ché altrimenti avrebbe potuto infiacchire e annullare la nostra capacità di resistenza, rendendoci troppo vulnerabili per il presente”.
A lei è tuttavia concessa l’opportunità di assumere un ruolo diverso e di salvaguardare non solo la propria vita fisica ma anche la propria dignità umana.
“Un giorno, improvvisamente, risuonarono tra le mura del blocco due numeri: quello di una ebrea romena e il mio. Con consueto pungolo «schnell, schnell» fummo introdotte in una specie di stamberga, ove due ufficiali SS ci chiesero di confermare la nostra qualifica professionale”.
La sua laurea in medicina Dora l’aveva dichiarata, proprio quando era arrivata ad Auschwitz, allo stesso dottor Mengele – il quale aveva chiesto se nei gruppi che stavano scendendo dal treno ci fosse qualche medico; successivamente Dora aveva tolto dal proprio bagaglio (da cui era consentito prendere una cosa sola, tanto piccola da poter stare nel pugno della mano) il certificato di laurea e l’aveva conservato.
“Con gesto istantaneo tolsi dal vestito ove lo custodivo il mio certificato di laurea sottoponendolo alla verifica degli SS. Questo documento produsse una sorprendente impressione sui due. L’Università di Bologna, nota in tutto il mondo, e l’enfatica dicitura: laureata in «medicina e chirurgia» fecero il resto. […] Non solo fui scelta io tra le due, ma fui subito gratificata con il titolo di Ärztin (dottoressa), il che mi lasciò allibita dalla sorpresa. Mi fu assegnata un’altra uniforme con le identiche strisce grigio-blu e la Stella di Davide sul petto, un paio di scarpe, il tutto più conforme alle mie dimensioni e, con il Posten [la guardia] appresso, via in cammino! Dopo circa un’ora di marcia arrivammo ad un piccolo distaccamento, soprannominato «Budy» dal villaggio presso cui era situato. Si trattava di un piccolo campo di concentramento un poco più vivibile di Birkenau-Auschwitz. Quattrocento donne circa, in maggioranza russe, seguite da polacche, ebree polacche e qualche tedesca, vivevano ammassate in un unico grande blocco, con i soliti letti a castello attaccati alle pareti e in mezzo un corridoio con qualche tavola e poche sedie. All’alba, dopo il «Zehl-Appel», la conta, qui alquanto rapida, ma sempre scrupolosa, i «Komandos» [recte: Kommandos] raggiungevano le terre dei dintorni per coltivarle, bonificare quelle ancora paludose, tagliare alberi. Verso sera i «Komandos» rientravano nel lager, accompagnati dai Posten con i loro spaventosi cani lupo, ben addestrati all’uopo”.
Prima di poter assumere a Budy le sue funzioni di medico, Dora deve affrontare l’ostilità dell’infermiera che occupava il posto, una bionda tedesca incompetente e profittatrice, che portava il triangolo nero delle prostitute e che era sorretta da una «cricca che l’attorniava, composta in prevalenza di ebree polacche (“numeri vecchi”) adibite alle pulizie interne del blocco». Per Dora l’episodio è soprattutto rivelazione dei meccanismi dai quali erano governati i lager, dell’intreccio tra la miseria e l’opportunismo, dei legami tra vittime e carnefici e infine dello sfruttamento delle rivalità interne ai gruppi stessi dei perseguitati.
“Anche a Budy, come in tutti i lager, imperavano tra le deportate non solo sentimenti antisemiti, ma anche rancori nazionalistici di ogni genere. Era nota l’insofferenza esistente tra le polacche e le russe che si gratificavano reciprocamente con appellativi tra i quali i più comuni erano «parassite bigotte» le prime e «razza selvaggia» le seconde. Perfino tra le russe della Grande Russia e le ucraine correva un sotterraneo antagonismo. Tali deplorevoli pulsioni furono sempre fomentate e sollecitate dalle SS, per le quali costituivano fonte di inesauribile, gratuito divertimento. Come esultavano i Posten ad osservare due detenuti darsele di santa ragione, senza altro motivo che quello di venire da loro aizzati uno contro l’altro”.
Per quanto lei stessa sia investita dai pregiudizi antiebraici, particolarmente forti e dolorosi perché spesso provengono dalle sue compatriote polacche deportate, riesce a dominare i sentimenti di ripulsa e a mantenersi al di sopra delle piccole malvagità. Ben più importante per lei il suo compito di «Ärztin», di cui non riesce a cogliere il senso in un campo di concentramento, fino a quando non viene a conoscere a quale «glorioso futuro» era destinato il piccolo, insignificante, periferico lager di Budy. Secondo questi piani Budy avrebbe dovuto diventare nientemeno che un lager modello da esibire se fosse accaduto il peggio, alle forze armate nemiche, che si sapeva ormai non molto distanti. La presenza di una «Ärztin» là dentro rendeva il progetto molto «stile umanitario» e costituiva forse il punto di partenza per la sua attuazione.
Dora è conscia dei limiti della sua preparazione medica; ma, mentre questo non viene minimamente percepito dai suoi sorveglianti, lei si impegna a svolgere il suo compito con rigore ed equanimità.
“Malgrado la mia scarsa, quasi inesistente esperienza nella pratica medica, dovuta alle prolungate, sfavorevoli circostanze del mio passato, nessuno del medici SS, nelle loro fuggevoli ispezioni, fu sfiorato dal sospetto che proprio a Budy ebbe inizio per me l’esercizio della professione medica. Con ogni probabilità per alcuni di loro, forse per la maggior parte lo «status medico» li collocava ad un gradino inferiore al mio. Io, almeno nella teoria medica, ero molto ferrata. […] Io mi ero deliberatamente prefissa di trattare tutte alla stessa stregua, a prescindere dalla loro origine nazionale o di «razza»: lo ritenevo mio preciso e naturale dovere. Col tempo tra me e le ricoverate si instaurò un clima di intesa del tutto particolare, sfiorante a volte una vera complicità. Nessun limite o tabù era posto alle parole che sgorgava dai nostri cuori: parlavamo ovviamente degli argomenti riguardanti la salute, davamo libero sfogo ai ricordi personali e, con molta circospezione, dai nostri discorsi non furono escluse neppure le questioni riguardanti l’odio razziale e l’andamento della guerra”.
Tuttavia, nella macchina infernale del lager, nemmeno a lei è lecito di sottrarsi ai compiti disumani imposti a tutti coloro che ne facevano parte […]
Luigi Ganapini, Voci dalla guerra civile. Storie di italiani 1943-1945: La persecuzione e la deportazione degli ebrei, Storie italiane, Collana dell’Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano, Società editrice il Mulino, 2012