A Zolesio erano stati affidati da Parri precisi compiti di intelligence

Genova: Teatro Carlo Felice

[…] Antonio Zolesio il quale copriva tutta la gamma delle caratterialità umane. Egli, pur a distanza di tanti decenni, resta uno dei più discussi ed enigmatici personaggi della militanza giellista di matrice azionista che si sia espresso in prima persona alla guida di unità combattenti nella guerra partigiana di montagna tanto nell’estremo (in un primo tempo) quanto nel medio levante ligure e nel genovesato (in un secondo tempo).
Fiero dei suoi trascorsi, estremamente orgoglioso e leale, vocato istintivamente per l’organizzazione, Antonio Zolesio era sì un antifascista della prima ora ma ciò non gli impediva di manifestare un aperto anticomunismo ‘a prescindere’, talvolta persino irrazionale e ingeneroso quando non addirittura contraddittorio, considerato che la natura dei suoi intenti e dei suoi propositi lo avrebbero portato presto e suo malgrado a conformarsi, seppure virtualmente e non senza dichiarate riserve, ai disegni strategici del maggior partito dell’esarchia antifascista, quello comunista appunto, che nel contesto resistenziale, e sotto le insegne garibaldine, contava un più consistente numero di adesioni e con il quale egli, dopo reiterati chiarimenti e qualche scaramuccia non esattamente dialettica, si sarebbe risolto a convivere sino al termine della lotta di Liberazione.
È pur vero che tale anticomunismo viscerale era divenuto nell’estate del 1944 addirittura rancoroso in conseguenza dei ripetuti episodi di disarmo a suo danno la cui responsabilità oggettiva egli attribuì inizialmente ai commissari politici e ai collaboratori ‘comunisti’ dello stesso Aldo Gastaldi (Bisagno) al quale, pur riconoscendo una certa longanime equidistanza e un’indubbia capacità di comando, egli non perdonava del tutto di non essersi opposto ai loro diktat.
Ora, tralasciando il fatto che a latere di tali discutibili episodi i rapporti tra Zolesio e Bisagno si saldarono poi in una forma di straordinaria amicizia e stima reciproca che non ebbe termine se non con la morte accidentale di quest’ultimo, non pare fuori luogo osservare che, al di là delle presunte o fondate ragioni che Zolesio potesse vantare, sarebbe stato molto più opportuno, tanto da parte sua quanto da quella dei suoi contestatori, adottare un atteggiamento meno tetragono e settario, privilegiando da subito e in tacito accordo l’unitarietà nella contesa contro il comune nemico e rimandando a tempi diversi la soluzione dei contenziosi ineludibili ma meno impellenti. Non a caso di ciò si sarebbe occupata ad abundantiam la politica nazionale repubblicana e democratica del secondo dopoguerra con la definizione dei blocchi contrapposti e la dialettica politica insorta tra di essi.
Va da sé che, anche in virtù dell’intervento perentorio e autorevole dei diversi Comitati di liberazione nazionale (quello dell’Alta Italia in primis), le problematiche derivanti dal coacervo di peculiarità identitarie diverse confluite nel marasma d’una guerra ‘altra’ che doveva diventare ‘di popolo’, dovessero imprescindibilmente trovare pratica soluzione in una massiccia unitarietà degli intenti che armonizzasse e concertasse la pluralità delle molteplici componenti attive sul campo e la complementarità tra le diverse frazioni in gioco; cosa che già a partire dall’autunno del 1944 divenne una realtà definita e vincente: il fascismo totalizzante e illiberale, deteriorato sì dagli inevitabili insuccessi bellici e dalla verticale caduta di consenso ma ancora forte nella componente nazista sua alleata rappresentata dalle munitissime truppe germaniche d’occupazione, sarebbe stato finalmente battuto.
Per tornare al nostro personaggio Antonio Zolesio, questi, nativo di Montecarlo e tenente di vascello di complemento della Regia marina proveniente dall’Accademia navale di Livorno, si era laureato in Economia e commercio presso l’ateneo genovese. Nel 1938 aveva sposato Natalia Wronowska, nipote acquisita di Giacomo Matteotti per via della madre Nella Titta, la quale era sorella di Velia Titta moglie, per l’appunto, del parlamentare socialista ucciso a Roma dagli scherani di Mussolini il 24.
Sotto l’aspetto ideologico, il referente innovatore e riformista della composita cospirazione antifascista che aveva accolto a suo tempo le ansie promotrici di Antonio Zolesio era rappresentato dal Partito d’azione di cui Giustizia e libertà (movimento formatosi a Parigi nel 1929 dopo la fuga di Carlo Rosselli, Emilio Lussu e Fausto Nitti dalla colonia penale di Lipari) costituiva all’epoca dei fatti narrati il vero braccio armato su tutto il territorio nazionale ove il conflitto era ancora in corso: quasi una milizia di partito così come lo erano per antonomasia le brigate garibaldine per il Pci.
Antesignano di questo concettualmente avanzato movimento nella nostra regione era stato Lino Marchisio; con lui, oltre agli azionisti capifila Eros Lanfranco, Cristoforo Astengo, Luciano Bolis e Marcello Cirenei, l’azionismo ligure poteva contare su altri nomi di riconosciuto ed elevato prestigio quali Mario Cassiani Ingoni, Leonida Balestreri, Mario Zino, Pino Levi Cavaglione, Annibale Ghibellini.
In tale congiuntura ad Antonio Zolesio, già prima del fatidico 1943 che aveva decretato la diversa scelta di campo del Paese nella persona del re e del suo plenipotenziario maresciallo Badoglio, erano stati assegnati preventivi ancorché precisi compiti di intelligence ch’egli, in qualità di segretario militare del Pda per la Liguria (incarico conferitogli per volontà di Ferruccio Parri in persona il quale annetteva ai servizi d’informazione un’importanza preponderante), avrebbe mandato ad effetto, congiuntamente al capitano Dante Novaro (referente della missione Zucca del 2677° reggimento Oss-Apo/512, poi ucciso a Mauthausen-Gusen 2) e ad altri, nel covo clandestino di via San Giorgio, alle spalle del porto di Genova, sotto la copertura d’un innocuo ufficio commerciale.
Tanta tempestiva alacrità avrebbe prodotto a breve la prima (in assoluto) operazione congiunta di intelligence tra le forze alleate e il movimento partigiano dell’Italia del nord: quella missione Law che avrebbe consentito a due ardimentosi, Guglielmo Steiner (Mino) e Fausto Bazzi, entrambi addestrati frettolosa mente ad Algeri dal Soe britannico (Special operations executive) e dall’Oss americano (Office of strategic services, precursore dell’odierna Cia), di sbarcare dal sommergibile britannico Hms Sykle sulla spiaggia di Cavi di Lavagna di notte ai primi di ottobre del ’43 muniti d’un apparecchio ricetrasmittente consegnato infine, dopo rocambolesche avventure, al referente ligure della missione, il genovese Piero Caleffi, a sua volta a stretto contatto sia con l’organizzazione Otto di Ottorino Balduzzi sia con gli esponenti milanesi della cospirazione di matrice azionista e giellista facente capo a Ferruccio Parri.
Va detto che, al verificarsi degli eventi susseguenti alla caduta del fascismo, Zolesio era da tempo distaccato col grado di tenente di vascello presso l’Istituto idrografico della Marina, ubicato allora nel forte San Giorgio, proprio sotto il comando di Carlo Unger di Löwenberg suo diretto superiore, di cui parleremo più avanti.
Solo con l’avvento armistiziale dell’8 settembre, pertanto, le cose avevano assunto sviluppi più decisivi e a Zolesio, subito resosi disponibile per compiti operativi, era stato affidato dai vertici azionisti e giellisti clandestini del Comando militare per la Liguria (in successione cronologica: Mario Zino, Luciano Bolis, Giovanni Trombetta, Antonio Giusti, Giulio Bertonelli, Mario Gherardi) il non agevole incarico di formare e addestrare bande armate alla macchia, possibilmente costituite da militari transfughi o ex prigionieri di guerra già avvezzi all’uso delle armi. Ancor prima di conoscere l’area geografica assegnatagli egli, tuttavia, s’era industriato a dare forma e definizione ad una sedicente “brigata Mare” composta da circa 20 uomini fidatissimi (marò e sottufficiali) con i quali aveva anche svolto azioni di disturbo, sabotaggio ed appropriazione di armi nella zona di Fumeri (tra Mignanego e il passo dei Giovi), accudendo altresì (con l’ausilio del comandante Luisito Salvarezza) una cinquantina di ex prigionieri inglesi e sudafricani fuggiti dai campi di concentramento del piacentino. Tale attività minoritaria s’era resa possibile stante l’acquiescenza e l’incoraggiamento taciti del comandante della Marina di Genova Carlo Unger di Löwenberg.
Vittorio Civitella *, Zolesio e l’opera di intelligence di Fellner e Unger di Löwenberg in Storia e Memoria, Istituto ligure per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea, anno XXV, n. 2/2016 – * Testo dell’intervento tenuto al convegno “Momenti e figure della Resistenza nel Tigullio. Una storia che non può essere travisata”, organizzato dall’Istituto ligure per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea (Chiavari, Civico auditorium San Francesco, 23 aprile 2016)