La “nuova Biennale” e il tramonto del riformismo neoilluminista

La riorganizzazione dell’ente veneziano si inseriva a pieno titolo in quella stagione di grandi riforme, nel campo dei diritti civili e sul piano sociale, che prese il via sul finire degli anni Sessanta per poi concludersi col decennio successivo. Volendo stilare un bilancio, l’approvazione della legge n. 438 del 26 luglio 1973, oltre a offrire un esempio di alto e qualificato lavoro parlamentare, fu, almeno sulla carta, un successo, sia dal punto di vista dell’affermazione dell’autonomia culturale e del decentramento, sia dell’allargamento della partecipazione alle categorie produttive. In questa prospettiva, rappresentò a tutti gli effetti una messa in discussione della vecchia eredità fascista, conservatasi per così lungo tempo in istituzioni e apparati: dopo decenni di ingerenze governative e burocratiche, si era finalmente fatta strada l’idea che lo Stato, pur continuando a offrire il proprio sostegno finanziario, dovesse fare un passo indietro a favore di una gestione affidata in massima parte alle “forze libere della cultura”, per riprendere una delle espressioni più usate – e abusate – nel pubblico dibattito a partire dal post-contestazione. Tanto più che, come si è avuto modo di vedere, nelle intenzioni dei riformatori il nuovo statuto dell’ente veneziano avrebbe dovuto servire da modello per una revisione dell’intera legislazione inerente agli istituti di cultura pubblica, in primis nel settore delle grandi mostre d’arte, come esplicitato dal primo Presidente della “nuova Biennale”, il socialista Carlo Ripa di Meana:
“Perché una attenzione così grande attorno alla “questione Biennale”? Perché una carica così netta di simbolo, di campione alla “questione Biennale”? Credo che si possa rispondere che sulla Biennale di Venezia hanno finito per addensarsi assieme ai problemi pratici e istituzionali di questo Ente pubblico, i grandi interrogativi del dibattito ben più profondo e significativo sulla funzione della cultura e delle arti nella società contemporanea. È naturale quindi che oggi la Biennale di Venezia risponda alle attese non solo presentando un Consiglio democratico, espressione di assemblee elettive, di confederazioni sindacali e di rappresentanze del personale, ma soprattutto scegliendo e fissando come stabili i caratteri e la natura del nuovo Istituto: rapporto pieno e aperto con la società, in particolare con i giovani e i lavoratori; modificazione del rapporto mercantilistico tradizionale tra opera e pubblico; saldatura con le istituzioni culturali, con le università e le scuole, con le associazioni di base, con i sindacati. Ed è giusto ripetere oggi in forma limpida i no della nuova Biennale: no alla cultura di élite, no alle sole manifestazioni periodiche, no ai settori incomunicanti, no all’attuale modello sociale delle arti basato sulla circolazione ristretta e privata” <1. Già all’indomani della sua entrata in vigore, però, la nuova legge iniziò a mostrare una serie di criticità, prima tra tutte quella relativa al ritardo con cui si giunse alla nomina del nuovo Consiglio direttivo, a causa dell’elevato numero dei designandi, ben diciotto, e dal doppio passaggio previsto per le rappresentanze dei sindacati e degli enti locali, le quali – è bene ricordarlo – avrebbero dovuto procedere tramite liste fornite dalle associazioni di categoria e dalle istituzioni interessate. Allo stesso modo, la clausola che stabiliva la presenza almeno dei due terzi dei consiglieri per rendere valide le riunioni tendeva inevitabilmente a paralizzare l’attività dell’ente, data la difficoltà nel raggiungere il quorum necessario a renderne operative le decisioni: la Biennale, insomma, sembrava soffrire degli stessi mali che avevano travagliato l’esistenza della sua consorella milanese. Inoltre, la partecipazione alle varie manifestazioni era condizionata all’invito diretto e personale rivolto agli autori dal Consiglio direttivo: una norma che, se pure ispirata a principi democratici e culturalmente avanzati, sul modello di quanto già avveniva da anni per il settore cinematografico, finiva per scontrarsi con la realtà giuridica dell’esistenza dei padiglioni di proprietà di Stati esteri. Non proprio questioni di secondaria importanza, che fecero sì che, già nel corso della VI Legislatura, vari gruppi politici, nella fattispecie DC, PCI, socialisti, socialdemocratici e repubblicani, si affrettassero a proporre una serie di emendamenti volti a modificare gli articoli “incriminati” <2. C’è poi un altro aspetto da considerare: sebbene già all’indomani dell’entrata in vigore del nuovo statuto della Biennale una serie di proposte di legge ad esso direttamente ispirate avesse fatto la sua comparsa in Parlamento, né la Quadriennale di Roma né la Triennale di Milano furono riformate nel corso degli anni Settanta o nel decennio successivo <3. L’ente milanese, in particolare, attraversò un periodo di intenso fermento, con la formazione, nella primavera del 1974, di una Consulta «per la ristrutturazione democratica dell’ente», nata su iniziativa dell’ADI (l’Associazione per il Disegno Industriale) e a cui aderirono l’ARCI-UISP, la Casa della Cultura, il Circolo Turati, la sezione milanese della FNA, l’Umanitaria, le federazioni provinciali di CGIL, CISL, UIL, l’Ordine e il Sindacato degli architetti, la Società Italiana di Ergonomia, le riviste «Casabella» e «Artecontro» <4. L’obiettivo primo della Consulta consisteva nell’elaborazione di un nuovo statuto, sulla base della riforma attuata per la Biennale veneziana, nonché di un nuovo regolamento per il Centro studi che recepisse alcune delle istanze promosse dalla contestazione, tra cui il rifiuto del «principio della delega» a favore della creazione di un «organismo aperto a tutte le rappresentanze delle forze reali, punto di raccordo e tramite, non sovrapposizione, con altre occasioni istituzionali» <5. Più in generale, si trattava «di rivendicare la necessità che gli Enti Pubblici […] qualificassero il proprio ruolo quali punti di riferimento per tutte quelle forze che operavano democraticamente in campo culturale, mediante, tra l’altro, la programmazione delle proprie iniziative» e assumendo, al tempo stesso, «un significato di massa, che coinvolgesse autenticamente i lavoratori e i cittadini» <6. Ma anche questo tentativo si sarebbe risolto in una bolla di sapone. Senza entrare nel dettaglio, è possibile affermare che le cause della mancata riforma di Triennale e Quadriennale furono molteplici, da fattori che potremmo definire congiunturali, che determinarono una battuta d’arresto del riformismo in generale, a una crisi più strettamente legata alla formula delle due mostre. E mentre la Quadriennale transitò direttamente dall’ordinamento fascista alla privatizzazione degli anni Novanta, la Triennale subì una revisione statutaria solo al principio di quello stesso decennio con l’approvazione della legge n. 137 del 1° giugno 1990, per poi acquisire la personalità giuridica di diritto privato con decreto legislativo n. 273 del 20 luglio 1999, disposizione che recepiva l’entrata in vigore della legge n. 59 del 15 marzo 1997, in particolare dell’art. 11, relativo al riassetto del sistema degli enti pubblici operanti nel settore culturale e all’adozione per alcuni di essi del modello fondazione. Una revisione che non avrebbe risparmiato neppure l’ente veneziano, il quale con decreto legislativo n. 19 del 29 gennaio 1998 fu di lì a poco trasformato in persona giuridica privata, denominata “Società di cultura La Biennale di Venezia” e poi, dal 2004, in “Fondazione La Biennale di Venezia” <7. Il nuovo status, di fatto, comportava tutta una serie di vantaggi in termini di scioltezza nelle procedure e soprattutto di facilità nel reperimento di finanziamenti, anche provenienti da privati, che senza dubbio si rivelarono determinanti per porre fine a una gestione pubblica del settore. La stessa articolazione dei Consigli di amministrazione fu notevolmente snellita, sia nei numeri che nelle procedure di nomina, e attualmente la governance di questi enti è demandata ad esecutivi composti di cinque o sei membri, a cui si accompagna una direzione scientifica su base collegiale <8. Tutto ciò al netto del fatto che i tre enti continuano a essere finanziati in massima parte attraverso fondi pubblici. Una riforma, quella messa in atto nell’ultimo decennio del secolo scorso, basata sull’innesto, sic et simpliciter, di un paradigma di marca anglosassone in un contesto, come quello italiano, di fatto estraneo a questo tipo di gestione, almeno in ambito culturale: un’operazione, nei fatti e nelle intenzioni, profondamente diversa da quella che aveva condotto, così faticosamente, all’approvazione della legge n. 438/1973. È infine opportuno accennare a un altro tema, nella consapevolezza dell’impossibilità di vederlo esaurito nello spazio di queste poche pagine, ossia l’impatto che ebbero sul fronte riformista, o almeno su una parte di esso, la mancata riorganizzazione di Triennale e Quadriennale e le polemiche, anche feroci, che fin da subito investirono la “nuova” Biennale – mi riferisco in particolare alle accuse di lottizzazione <9. In occasione dell’indagine conoscitiva promossa dal Senato, Giovanni Spadolini aveva constatato, non senza ironia, che «in Italia tutto arriva un po’ tardi» <10. Forse troppo, almeno nella percezione di quanti fin dall’immediato dopoguerra si erano battuti per la costituzionalizzazione degli enti pubblici di cultura, Ragghianti in testa. Ed è proprio in questa fase che la spinta riformatrice dello studioso lucchese andò progressivamente esaurendosi, o meglio finì per traslare da una dimensione propriamente pubblica verso gli studi specialistici, a fronte della sfiducia in una élite che aveva abdicato al proprio ruolo, dilatando oltre ogni limite il processo di riforma e l’attuazione costituzionale. Alla metà degli anni Settanta, così scriveva a Bruno Alfieri: “[…] anche se, come si dice, abbiamo tirato i remi in barca, perché né le forze né i desideri premono per impegni sociali o pubblici di sperabile esito, non è detto che possa o debba mancare la nostra presenza in una situazione difficile come l’odierna, e tanto confusa, ma che come in altri casi storici esige pur sempre il discrimine della consapevolezza e la chiarezza delle distinzioni, da coloro almeno che ne dispongono. Quando cinque anni fa ho creduto di dover concludere (ed avevo ragione) che nessun ottimismo valeva a negare che la generazione, per intenderci, formata da Gobetti e da Matteotti non aveva potuto portare le sue istanze di rinnovamento sul terreno pratico, e non c’era ragionevole supposizione che ciò potesse verificarsi, ho dismesso molte attività alle quali avevo dato e davo tempo, sacrifici e denaro, e mi sono persuaso che avrei servito anche l’interesse sociale, dedicandomi meglio a un lavoro che era poi personale più nel nome che nel fatto, dato lo scrupolo disinteressato e altruistico d’intendere l’esercizio della cultura come dialogo permanente con interlocutori non ideali o fittizi, ma storici e reali, anche se non sempre presenti, ma sempre viventi” <11. Retrospettivamente, gli anni tra il 1944 e il 1945, durante i quali una «classe politica che, avendo avuto una preparazione culturale a livello di quella illuministica, ed avendo avuto il potere (sia pure con limiti) della resistenza, non riuscì nemmeno a rimuovere i caselli del dazio», apparivano, né più né meno, come un’occasione perduta <12. Infatti, «salvo esigue pattuglie di protestanti, le forze politiche maggiori e minori avevano in pratica e in sostanza continuato in molte aree l’eredità fascista» <13. Un tema che emerge dalle pagine, amarissime, di quel testamento politico che è “Traversata di un trentennio”, in cui Ragghianti non esitava ad affermare come «la riprova luminosa della vera e propria, sì, resistenza del fascismo istituzionale, organico, legale, funzionale, fosse data dal decorso non solo lunghissimo o lungo, ma difficile e contrastato, che aveva avuto l’attuazione della costituzione» <14. Un iter tormentato, in parte spiegabile, secondo lo studioso, con la decisione da parte della Costituente di separare nell’Assemblea la redazione della Carta dal governo effettivo, che conservò sostanzialmente l’assetto ereditato dal fascismo, dando vita alla ben nota distinzione tra costituzione legale e costituzione materiale, che aveva «consentito l’installazione di forze e di poteri traenti solo da se stessi, e non dal diritto collettivo, l’esistenza e le condizioni di esercizio» <15. E proprio la carenza legislativa aveva prodotto nel tempo atteggiamenti e deviazioni difficili da estirpare, perché diventati costume politico: “[…] questa legislazione frammentaria, contingente, occasionale e slegata – come sa ognuno che l’abbia verificata anche settorialmente, come a me è accaduto per il vasto raggio della cultura – ha avuto due difetti e limiti insuperabili: che sostituiva, o meglio tentava di sostituire, impossibilmente, l’assenza di quadri istituzionali e giuridici globali, e che in gran parte dei casi veniva fatta a favore di gruppi particolari, di clan, qualche volta ad hominem” <16. Tale procrastinazione, quindi, non era stata senza effetti, tanto che il fenomeno stesso della contestazione, con tutta la sua carica eversiva e anti-istituzionale, fu interpretato dallo studioso lucchese – ma non solo – come la conseguenza inevitabile di un deficit democratico che aveva radici profonde, e che avrebbe prodotto una caduta delle speranze collettive nei confronti dell’attuazione delle riforme, generando una serie di effetti collaterali, primo tra tutti la mancanza di fiducia nelle competenze e nella democrazia rappresentativa, terreno di coltura ideale della demagogia e dei populismi <17. E proprio questa radicalizzazione dello scontro politico, sul finire degli anni Sessanta, insieme alla violenta ideologizzazione che ne seguì, spinsero alcuni intellettuali a trovare rifugio in una dimensione privata – è il caso di Bauer e, in forma più problematica, dello stesso Ragghianti. Come evidenziava Galasso, «il rifiuto della “onnipoliticità” della vita sociale e della cultura aveva un irrinunciabile valore liberatorio e umano. Si scopriva, in qualche modo, una funzione positiva del “qualunquismo” come rivendicazione di privacy e di soggettività» <18. Era il tramonto di quel paradigma riformista, di matrice azionista e neoilluminista, che larga parte aveva avuto nel far sì che tante di quelle riforme, ancorché parziali, giungessero in porto.

 [NOTE] 1 Dattiloscritto delle dichiarazioni introduttive rilasciate in occasione della riunione del Consiglio direttivo della Biennale aperta al pubblico, tenutasi il 18-19 maggio 1974, per la discussione del piano quadriennale di massima delle attività e delle manifestazioni dell’ente, allegato alla lettera a firma di Dorigo, in qualità di capo ufficio stampa dell’ente, a Ragghianti, del 22 maggio 1974, in FR, ACLR, Biennale di Venezia, b. 5, fasc. 3. Per una ricostruzione delle vicende biennalistiche negli anni Settanta cfr. Portinari, Anni settanta. La Biennale di Venezia, cit.; Martini, La Biennale di Venezia 1968-1978, cit. 2 Atti Parlamentari, Camera dei Deputati, VII Legislatura, Proposta di legge n. 3913 del 10 luglio 1975 d’iniziativa dei deputati Mariotti e Giolitti, Modifiche alla legge 26 luglio 1973, n. 438, concernente: Nuovo ordinamento dell’Ente autonomo “Biennale di Venezia”; Atti Parlamentari, Camera dei Deputati, VII Legislatura, Proposta di legge n. 4160 del 9 dicembre 1975 d’iniziativa dei deputati Picchioni e Zanini, Modifiche alla legge 26 luglio 1973, n. 438, concernente nuovo ordinamento dell’Ente autonomo biennale di Venezia; Atti Parlamentari, Camera dei Deputati, VII Legislatura, Proposta di legge n. 4338 del 27 febbraio 1976 d’iniziativa dei deputati Pellicani, Chiarante, Federici, Tortorella, Trombadori, Modificazioni alla legge 26 luglio 1973, n. 438: “Nuovo ordinamento dell'Ente autonomo Biennale di Venezia”. Oltre i punti già sollevati, relativi agli artt. 10 e 13, la proposta DC modificava l’art. 8 prevedendo la possibilità per i consiglieri di essere riconfermati per un quadriennio nella misura massima di un terzo dei componenti e aboliva la possibilità del concorso per l’incarico di segretario generale. Inoltre, in tutte le proposte, all’art. 10 il ministro per i Beni Culturali e Ambientali prendeva il posto di quello della Pubblica Istruzione. 3 Atti Parlamentari, Camera dei Deputati, VI Legislatura, Proposta di legge n. 3183 del 7 agosto 1974 d’iniziativa dei deputati Meucci, dall’Armellina, Lindner, Santuz, Nuovo ordinamento dell’ente autonomo denominato “Triennale di Milano per l'architettura moderna, le arti decorative e industriali moderne”; Atti Parlamentari, Camera dei Deputati, VI Legislatura, Proposta di legge n. 2009 del 11 aprile 1973 d’iniziativa dei deputati Meucci, Biasini, Giomo, Lindner, Miotti Carli, Reggiani, Santuz, Nuovo ordinamento dell'ente autonomo esposizione quadriennale nazionale d’arte di Roma. 4 Sul tema si veda Pansera, Storia e cronaca della Triennale, cit., pp. 121-127. L’attività della Consulta sfociò nella pubblicazione del già citato Libro bianco della Triennale, cit. Su questa fase di vita della Quadriennale si veda invece Pribišová, La Quadriennale di Roma. Da Ente autonomo a Fondazione, cit. 5 Libro bianco della Triennale, cit., p. 43. 6 Ivi, p. 42. 7 Legge 15 marzo 1997, n. 59. Delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed enti locali, per la riforma della Pubblica Amministrazione e per la semplificazione amministrativa, in «Gazzetta Ufficiale», n. 63, 17 marzo 1997, supplemento ordinario n. 56, risorsa online: https://www.gazzettaufficiale.it/atto/serie_generale/caricaDettaglioAtto/originario?atto.dataPubblicazioneGazzetta=1997-03-&atto.codiceRedazionale=097G0099&elenco30giorni=false. 8 Gli attuali statuto della Biennale, della Quadriennale e della Triennale sono consultabili rispettivamente alle pagine: https://www.labiennale.org/it/trasparenza/riferimenti-normativi-su-organizzazione-e-attivit%C3%A0; https://www.quadriennalediroma.org/wp-content/uploads/2017/05/statuto-vigente-Q-2017.pdf; https://triennale.org/trasparenza/statuti. 9 Cfr. la documentazione conservata in ASAC, Fondo storico, Statuti e regolamenti, b. 23. 10 IC, p. 112. 11 Ragghianti ad Alfieri, 10 dicembre 1975, in FR, ACLR, Carteggio generale, fasc. Bruno Alfieri. 12 Ragghianti, Traversata di un trentennio, cit., p. 35. 13 Ibidem. 14 Ivi, pp. 38-39. 15 Ivi, p. 40. 16 Ivi, p. 41. 17 Sul concetto di «trasformazione non governata» si veda G. Crainz, La stagione dei movimenti: quando i conti non tornano, in «Meridiana», 38-39, 2000, pp. 127-149, in part. pp. 142-144. 18 Galasso, Italia democratica, cit., p. 261. 

Elisa Bassetto, Contro la ‘Biennale di Stato’. La riforma degli enti autonomi nazionali di mostre d’arte (1945-1973), Tesi di dottorato, Alma Mater Studiorum – Università di Bologna, 2022