La Resistenza in Umbria, a Foligno, Bevagna e…

Fonte: Umbria Domani, art. cit. infra

La città di Foligno ha dato un contributo fondamentale alla guerra per la liberazione dell’Italia dal nazifascismo, sia in termini di partecipazione sia per numero di caduti. Furono tanti, di diversi ceti sociali e di diverse idee politiche e religiose, i folignati che si unirono nella Resistenza per ritrovare la libertà e l’unità perdite durante il fascismo.
La storia di questo movimento, nato dal basso, è raccontata in un opuscolo del 1961, quando Foligno venne insignita della medaglia d’argento al valor civile per il contributo dato nella guerra di liberazione. Quel libretto, intitolato “La Resistenza nel territorio folignate”, fu voluto dall’allora sindaco Italo Fittaioli, ex partigiano.
Cinquantaquattro anni dopo, nel 70esimo della Liberazione, il volume è stato ristampato dalla sezione Anpi di Foligno, in memoria di quanti hanno sacrificato la propria vita per il riscatto dell’Italia e, soprattutto, per trasferire ai giovani il valore di quel pezzo di storia.
[…] Scrive Angelo Bitti, studioso di storia contemporanea umbra, nel volumetto ristampato dall’Anpi, con nuove integrazioni: “Per comprendere le motivazioni che spingono molti giovani, provenienti la maggior arte da Foligno e dai centri limitrofi, a partecipare alla Resistenza nelle fila della formazione garibaldina è indispensabile realizzare alcune considerazioni preliminari sulle condizioni in cui si trovava la società locale all’indomani dell’8 settembre”.
“Il peggioramento complessivo delle condizioni di vita della popolazione civile – continua Bitti – contribuì a far nascere un diffuso sentimento di stanchezza e di rifiuto della guerra… Così il 22 settembre, dopo una riunione tenutasi presso la cascina di Radicosa, nel territorio di Trevi, si costituì quello che può essere considerato il primo nucleo della formazione garibadina. La maggioranza di questi giovani era di estrazione cattolica, cresciuti nel circolo San Carlo di Foligno, ma anche militanti come il sottotenente Antero Cantarelli, a lungo comandante della formazione, nella gioventù maschile dell’Azione Cattolica. Quasi contemporaneamente nella zona di Spello sorgeva un’altro gruppo, in contatto con le bande partigiane operanti nel Perugino, formati da giovani del luogo, di orientamento comunista, e da prigionieri slavi fuggiti per la maggior parte dal campo di internamento di Colfiorito. Saranno questi i due nuclei a costituire l’asse portante della formazione, almeno sino alla riunione di Cesi di Serravalle del Chienti il 5 febbraio del 1944, a seguito della quale di ebbe la riorganizzazione della Brigata con la creazione di cinque battaglioni, ciascuno dei quali oscillante tra i trenta e i quaranta uomini”.
I partigiani combattenti, insieme a collaboratori e fiancheggiatori, arriveranno forse a sfiorare le cinquecento unità. Nel corso dell’inverno 1943-44, l’attività della Brigata assume maggiore intensità e acquisisce i tratti tipici della guerriglia. La maggioranza dei partigiani è composta da giovani di età non superiore a 24 anni, risulta nata e residente a Foligno o nei comuni limitrofi e proveniente soprattutto dal mondo contadino.
Dalla fine del marzo 1944, le bande operanti lungo l’Appennino umbro-marchigiano-laziale furono sottoposte a violenti rastrellamenti, con diversi partigiani barbaramente uccisi, e costrette a riorganizzarsi.
Con la liberazione di Roma da parte degli Alleati, gli uomini della Quarta Brigata Garibaldi intensificarono le azioni contro l’esercito tedesco ormai in ritirata.
Il 16 giugno 1944, a Foligno, i partigiani attaccavano le ultime pattuglie tedesche di retroguardia che si ritiravano dalla città liberata dalle truppe anglo-indiane. Le squadre della “Garibaldi” presenti nella zona di Gualdo Tadino, continuarono a combattere sino ai primi di luglio fino all’arrivo degli inglesi. Tuttavia per molti partigiani la guerra non terminò con l’arrivo degli Alleati: un cospicui gruppo di appartenenti alla Brigata, insieme a giovani volontari, si arruolò nel Gruppo di combattimento “Cremona” per liberare parte dell’Italia del nord sul fronte del Po, “contribuendo – scrive Bitti – allo sfondamento della linea Gotica sul fiume Santerno e alla liberazione di Alfonsine, di diverse località del Polesine e di Venezia”. La Resistenza continuò in tutta Italia, fino alla liberazione di tutto il Paese il 25 aprile 1945.
Redazione, 25 aprile, ecco la Resistenza nel territorio folignate, Umbria Domani, 25 aprile 2017

Nello stesso mese di settembre i tedeschi stabilirono un loro presidio a Bevagna e precisamente nell’edificio delle scuole di San Francesco. Il mese successivo, con Armando Rocchi governatore della provincia, al comando militare tedesco si affiancò il governo della Repubblica Sociale Italiana che nominò Ferruccio Mattoli podestà della città, per poi avvicendarlo con il Commissario Mario Andiloro.
Si andavano anche costituendo in città, malgrado molte difficoltà, le strutture organizzative della Repubblica Sociale Italiana appartenente alla 103° Legione di Foligno: la Guardia Nazionale Repubblicana che trovò a Bevagna 39 legionari e la Guardia Giovanile Repubblicana che ne contò 27. Oltre a questi vi era un numero imprecisato di appartenenti al Partito Fascista che fungevano da sentinelle del territorio.
La caccia agli oppositori, con una struttura di vigilanza così stretta, si fece particolarmente dura. I fascisti di Bevagna e delle frazioni si distinsero nella delazione, nella caccia e nell’arresto di cittadini sospettati di essere oppositori del regime e nei mesi successivi anche per l’attività nei rastrellamenti contro i partigiani.
Molti furono i bevanati sospettati di essere avversari del fascismo e per questo tenuti sotto stretta sorveglianza o arrestati: Domenico Pambianco, carcerato 6 mesi a Perugia per “motivi di pubblica sicurezza, l’avvocato Gabriele Crescimbeni, arrestato per gli stessi motivi, carcerato e spedito successivamente nei campi di concentramento nazisti dove morì nel febbraio del’44, Giuseppe Lepri, detenuto a Foligno e Martino Lepri, suo fratello rinchiuso a Foligno e poi Perugia, per motivi politici, Adolfo Gasperini, arrestato e prigioniero a Foligno, Francesco Secondari, “indagato” e rinchiuso a Perugia per oltre un mese, il colonnello Grisippo Pagliochini, già podestà di Bevagna durante il governo Mussolini, a cui venne perquisita più volte la casa prima di darsi alla macchia. Molti furono anche gli episodi di cattiverie gratuite e soprusi, soprattutto nelle frazioni, perpetrate a danno di contadini anche solo sospettati di avere idee liberali o democratiche.
Il clima di tensione e di terrore accrebbe, nel novembre ’43, con la chiamata alle armi delle classi 1923, 1924, 1925 e la pubblicazione del famigerato Bando Graziani che prevedeva la pena di morte per i renitenti.
Non furono molti quelli che risposero alla chiamata alle armi, benché il prefetto Rocchi avesse investito tutta la sua credibilità nel reclutamento e nella costituzione dell’esercito della Repubblica Sociale. A Cantalupo la consegna dei precetti procurò più di una rimostranza nella popolazione, stremata dalla guerra e dalla fame.
La caccia ai disertori e ai ribelli raggiunse momenti drammatici quando in rapida successione furono fucilati sul posto, per renitenza alla leva, i fratelli Ceci a Marsciano e soprattutto Amerigo Fiorani e il suo amico Luigi Moretti a Montefalco, fatto questo che sconvolse i giovani e gli abitanti di Bevagna.
Iniziò per molti la latitanza, la fuga dalla paura della guerra, in maniera solitaria o aggregandosi a gruppi già formati. La decisione di darsi alla macchia fu presa d’istinto o mutuata dalle decisioni di fratelli, parenti, amici o semplici conoscenti. La presa di coscienza dell’importanza della ribellione allo stato fascista e ai tedeschi arrivò più tardi, quando le bande sulle colline si organizzarono compiutamente con un percorso logico politico e militare. Molti giovani scelsero il rifugio solitario dei tanti nascondigli che offrivano le colline, sopra la città, per poi tornare furtivamente, di notte, a dormire nelle loro stanze, con la paura di essere individuati e arrestati. Tanti invece preferirono organizzarsi e fuggire in gruppo, con il vantaggio di affrontare in maniera solidale le difficoltà del momento ma con la condizione sfavorevole di essere più facilmente individuabili.
Tra i primi che presero coscienza dello stato di ribelli e partigiani ci furono sicuramente i fratelli Balbo e Balilla Morlupo, che scelsero di seguire immediatamente il raggruppamento dei Sancarlisti folignati insediatisi a Radicosa, sulle colline di Trevi.
I giovani dell’Istituto San Carlo di Foligno erano un gruppo di studenti antifascisti, amanti della letteratura e del teatro, legati all’ambiente dell’Azione Cattolica. La loro decisione di entrare in clandestinità e combattere per la libertà e la liberazione dell’Italia fu uno dei momenti cruciali dell’evoluzione del movimento partigiano dell’Umbria centrale.
Dopo la cattura del colonnello Salcito nel dicembre ’43 e l’ingrossamento del gruppo di ribelli saliti a Radicosa, il comando della formazione partigiana fu affidato ad Antero Cantarelli, già presidente diocesano dell’Azione cattolica e forte di una notevole esperienza militare. Nella ristrutturazione politica ed organizzativa della banda fu nominato commissario politico il “comunista o filo-comunista” Balilla Morlupo, nomina che servì a bilanciare politicamente e stabilizzare il raggruppamento partigiano.
Balbo Morlupo detto “Angelo”, studente classe 1924, era il fratello di Balilla. Fu assassinato, dopo breve tempo dalla latitanza, e precisamente il 19 febbraio del 1944, a Pieve Torina, sull’appennino umbro marchigiano. Nella zona si era installato un raggruppamento di partigiani che, al comando di un certo Pasquale di Roma, vivevano taglieggiando e terrorizzando la popolazione locale. Balbo, saputo dei fatti, si accingeva a denunciare al comando generale le ruberie della banda e fu ammazzato. Il giorno seguente, con un azione di sorpresa, i partigiani della Brigata Garibaldi, agli ordini di Franceschini, circondarono e disarmarono la banda. Sottoposti a pubblico processo di fronte alla popolazione, Pasquale e il suo luogotenente furono fucilati sul posto.
A Balbo “Angelo” Morlupo è stato intitolato un battaglione della IV brigata Garibaldi e da qualche anno una via della città di Bevagna.
Nel gruppo partigiano di Radicosa c’era un altro giovane studente bevanate, Socrate Mattoli, appartenente a una delle famiglie più importanti della città, discendente di Agostino Mattoli, creatore della medicina omeopatica e politico amico di Giuseppe Mazzini. Socrate Mattoli sposò in seguito Nicoletta Arcamone, sorella del partigiano Massimo Arcamone, e diventò imprenditore illuminato e uomo di grande cultura.
Dopo aver partecipato alla guerra di Liberazione e laureatosi in ingegneria, è emigrato nell’America del Sud, dove ha fondato insieme ad altri la Sade, una delle più grandi compagnie del continente sudamericano realizzando l’elettrificazione dell’Argentina e del Brasile, contribuendo notevolmente allo sviluppo economico dei due paesi. Insieme all’attività imprenditoriale ha portato avanti un intenso impegno sociale. E’ stato fondatore e presidente della prima associazione di umbri a San Paolo, promuovendo i primi viaggi di giovani e anziani emigrati nella loro terra d’origine. Ha realizzato, insieme alla moglie Nicoletta, la scuola italo-brasiliana ‘Eugenio Montale’ un gioiello educativo di integrazione culturale. Gran parte del suo impegno fu rivolto oltretutto alle attività di sostegno e allo sviluppo dei ceti più poveri del suo paese di adozione.
Tra i primi a salire le colline verso la Madonna della Valle ci fu sicuramente Martino Lepri. Figlio anch’esso di famiglia benestante, sebbene avesse perso da tempo la sua agiatezza, maestro elementare, aveva sposato Antonia Santi, nipote del socialista Pietro Santi, farmacista della città, dalla quale ebbe due figli: Maria Teresa e Giulio.
Dopo aver servito la patria in Marina nella guerra di Etiopia e il richiamo temporaneo dal proclama dell’ingresso dell’Italia in guerra, si era dedicato all’insegnamento e alla famiglia. La sera del 25 luglio ’43, dopo aver appreso la notizia della caduta del Duce, probabilmente esausto dai soprusi del regime fascista, con Cesare Manini, distrusse le insegne del fascio littorio sovrapposte alla bacheca di via Flaminia. Ignaro che il regime fascista fosse di là da essere defunto, subì la rappresaglia violenta dei fascisti locali che lo fecero arrestare insieme a suo fratello Giuseppe. Furono incarcerati a Foligno. Giuseppe fu rilasciato qualche giorno dopo mentre Martino veniva tradotto al carcere di Perugia. Durante il viaggio riuscì a fuggire rocambolescamente dal treno bombardato, sul quale viaggiava insieme ad altri detenuti.
Rientrato a Bevagna furtivamente, fuggì sulle colline verso la Madonna dell Valle, aggregandosi poi ad altri fuggiaschi provenienti da Castelbuono e Torre del Colle.
Partecipò probabilmente in maniera molto attiva, considerato anche il suo titolo di studio, alla crescita politica e militare della banda di Damino Pelagatti che si stava organizzando e che in seguito confluì nella IV Brigata Garibaldi di Foligno.
Martino Lepri morì assassinato il 22 aprile 1944, non aveva ancora compiuto 30 anni, per mano di Harum Regepovic e Memetovic Memet, slavi montenegrini che appartenevano alla stessa banda, e che avevano preso a razziare la popolazione locale. Le forti rimostranze di Martino alle loro azioni infastidirono non poco gli slavi che decisero la sua fine.
Subito dopo la guerra, a Martino Lepri è stato intitolato il Circolo della Federazione Comunista di Torre del Colle. A Martino Lepri è stata dedicata una via della città di Bevagna.
Damino Pelagatti fu un altro partigiano molto attivo nelle zone collinari tra Bevagna e Madonna della valle.
Figlio di un caduto della grande guerra, di origine di Castelbuono, combatté nel ’41 nel Regio Esercito Italiano nell’invasione del Montenegro. Al richiamo delle armi preferì la fuga sui monti. Sorprendente fu la sua fuga. Alla vista dei fascisti e dei tedeschi che lo accompagnavano, con la madre intenta a distrarli, saltò dal retro, al secondo piano della casa, in mezzo agli olivi, aggrappandosi ai rami. Presa la direzione di un fosso che scorreva non lontano, risalì velocemente per poi perdersi nella macchia. I fascisti e i tedeschi spararono diverse raffiche di mitra senza raggiungerlo. Restò immerso in un altro fosso tutta la notte per sfuggire i cani che lo braccavano. Lo inseguirono fino a notte fonda ma oramai aveva fatto perdere le sue tracce.
A Damino Pelagatti ben presto si unirono diversi parenti, amici e conoscenti: il cognato Marzio Albi, poi Sabatino Placidi e Antonio Bianchi, Tordoni Angelo, Novello Perugini, Euro e Dante Bonifazi di Castelbuono; Proietti Antonio, Sbraletta Giuseppe, Austero Grivelli, Zefferino Cerqueglini, Sensidoni Giovanni e Celati Gino, Radicioni Osvaldo, Sinibaldo e Giovanni Sinibaldi, Scatoli Ottavio,Otello Monarca, Proietti Domenico, Biagetti Filippo. Vi erano poi un gruppo di collaboratori: Carlo Poggi, Guglielmo Segatori, Raniero Ferretti, Alarico Silvestri, Giuseppe Salvati e Angelo Silvestri.
Più grande d’età degli altri fuggitivi Pelagatti si fece notare per l’assoluta conoscenza e padronanza di quei luoghi. Questa prerogativa fu decisiva, allor quando, la ricostruita Brigata Garibaldi di Foligno, dopo essere stata attaccata, nell’aprile del ’44, dalla divisione SS Hermann Goering, si ricompattò sulle colline di Bevagna e Bastardo.
Le azioni di guerriglia del gruppo si intensificarono con l’avanzamento delle truppe alleate. Furono catturati in totale otto tedeschi e altri due feriti in diverse azioni. Durante gli attacchi furono tolti ai tedeschi sette pistole automatiche, sette carabine, due pistole mitragliatrici e due fucili mitragliatori. Tra i partigiani furono feriti Domenico Proietti e Osvaldo Radicioni.
Il fatto più importante avvenne però il 16 giugno del ’44, il giorno dell’arrivo degli alleati a Bevagna. Durante il ripiegamento, i tedeschi che avevano già fatto saltare tutti i ponti Bevagna, vennero attaccati dalla banda di Pelagatti e il partigiano Marzio Albi catturò tre tedeschi. Mentre i prigionieri venivano portati alle grotte uno di essi saltò nel fosso sottostante e si dileguò. I tedeschi accampati alla Molinella, avvertiti dal fuggitivo, per ritorsione, catturarono in un rastrellamento a Limigiano 30 uomini, donne e bambini, 10 per ogni prigioniero. Sarebbero stati tutti fucilati il pomeriggio se, con un opera di mediazione, Damino Pelagatti in persona non fosse intervenuto a favore della liberazione degli ostaggi. In una chiusa di olivi sopra Castelbuono, alla presenza di Franceschini, Fiore, Formica ed altri componenti della brigata Garibaldi, Pelagatti e Albi, rilasciarono i tedeschi.
Il mancato eccidio di Limigiano provocò grande terrore nella popolazione, paura mitigata solo dalla liberazione e dalla fine delle sofferenze.
Molti furono i bevanati confinati nei campi di concentramento e molti anche le persone rimaste uccise.
Fulgido è l’esempio di Lodovico “Vico”Granieri. Catturato, all’indomani dell’8 settembre, dai Tedeschi a Trieste con tutto il reparto, Vico fu deportato ad Auschwitz come internato militare. Fu trasferito successivamente, nel novembre del ’44, a Ladowitz, nei Sudeti cecoslovacchi, impiegato nello scarico dell’immondizia dai vagoni e nella riparazione dei tratti ferroviari bombardati. Nella primavera dell’anno successivo venne traferito vicino il confine con la Polonia, nell’alta Slesia, sulla linea dei combattimenti tra tedeschi e russi. Scampato miracolosamente alla famosa Marcia della Morte, Vico Granieri ritornò a Bevagna nell’Agosto del ’45.
Mario Lolli, Bevagna 1943-1944, ANPI Bevagna (PG)

ll contributo politico militare più significativo alla lotta partigiana in Umbria venne da alcuni comandanti militari che avevano combattuto nell’esercito italiano prima dell’8 settembre (in Jugoslavia e nei balcani contro i partigiani di Tito) e gli stessi partigiani iugoslavi imprigionati o trasferitisi in Italia e in Umbria. Tra i comandanti più noti provenienti dall’esercito regio ci sono Antero Cantarelli che guida la Brigata Garibaldi, Antonio Bonomi comandante della Brigata Gramsci, il capitano Ernesto Melis e Mario Grecchi. Una particolare collaborazione tra esponenti dell’esercito e partigiani si avrà nella formazione della banda Melis, della Brigata Leoni e della San Faustino poi Proletaria d’urto. Ma nella lotta armata per la liberazione dell’Umbria non erano impegnati solo militari o sperimentati militanti antifascisti con alle spalle il carcere o il confino, ma anche alcune particolari figure sociali come quella di un proprietario terriero liberale Bonuccio Bonucci, di un ufficiale dell’esercito, esponente del Partito Popolare come Venanzio Gabriotti, di un moderato liberaldemocratico come Stelio Pierangeli, di un insegnante cresciuto alla scuola di Aldo Capitini come Bruno Enei, di un operaio comunista come Alfredo Filipponi, di due possidenti terrieri come Augusto Del Buontromboni e Luigi Del Sero, fino ad un prete combattente come don Mariano Ceccarelli.
Quello partigiano è in Umbria un movimento fortemente frammentato che in parte si organizza spontaneamente e in parte è diretto da alcuni partiti il Pci, il Psi, il Pd’A., la Dc.
La lotta partigiana si organizza prevalentemente sui monti del Folignate, della Valnerina, dell’eugubino e della zona compresa tra Orvieto e il Trasimeno, lungo quindi la via Flaminia, la umbra casentinese e il perugino.
Alberto Stramaccioni, La rinascita della Patria. Dopo l’8 settembre 1943 la Resistenza armata in Umbria, Alberto Stramaccioni, 3 settembre 2010

La sede del battaglione Mameli si fissò a Mosciano nel territorio di Nocera Umbra ma assai vicino a quello folignate. Il comandante di brigata (Cantarelli), che non aveva ceduto alle sofferenze prodotte dalla menomazione alla mandibola, e aveva riacquistato il solito sguardo intenso e lampeggiante, vi passò ai primi di marzo riprendendo il suo compito. Egli fu successivamente anche comandante ferito e decorato di un plotone del 22° reggimento di fanteria Cremona (in cui molti partigiani del centro Italia confluiscono per rimpiazzare i quadri). Il comandante di brigata era stato chiamato a Roccafranca di Verchiano (m. 830 alt.), sede temporanea del comando, per giudicare una spia tenuta prigioniera. Chiese all’amico d’accompagnarlo. Da Mosciano (m. 780 alt.) che si trova nei pressi di monte Pennino (m. 1571 alt.), per raggiungere Roccafranca, che è a ridosso del monte Cavallo (m. 1485 alt.), Antero [Cantarelli] e Adelio [Fiore ] impiegarono una giornata di cammino, dovettero portarsi in direzione sud-est di Mosciano, in un cuneo del territorio folignate incastrato fra i comuni di Sellano (Umbria) e di Serravalle del Chienti e di Visso (Marche). Il comando di brigata occupava in quei giorni la casa parrocchiale di Roccafranca incorporata al castello attualmente purtroppo abbandonato e fatiscente, come la chiesa dedicata a Maria Assunta. Il prigioniero che si doveva processare era un trentenne non bene identificato, accusato d’aver fatto ammazzare tre partigiani con una spiata. Il processo si svolse con le testimonianze rese individualmente da uomini e donne del posto. Giudicato da tutti colpevole di quei misfatti, nessuna voce essendo discorde e non sapendosi scagionare, fu condannato alla fucilazione dal tribunale partigiano, che non ebbe mai più da affrontare una simile dolorosa situazione.
Nel senso della liberazione invece fu nello stesso giorno decisa la sorte di tre soldati tedeschi prigionieri da qualche giorno e adibiti alla custodia dei cavalli. Appena videro il comandante gli s’accostarono baciandogli le mani e piangendo. Ed egli si espresse in favore della liberazione, anche commosso per la loro età e presunta innocuità. Ma purtroppo tornarono ben presto con i loro commilitoni e uccisero quattro partigiani in uno spietato attacco alla Romita nei pressi di Forcella (monte Cavallo), zona dove operava il battaglione Angelo Morlupo.
… Gli alleati sempre molto sospettosamente (specie gli Inglesi) cominciarono a prendere in considerazione l’attività delle “bande” e stabilirono con loro i primi contatti nel mese di febbraio 1944 iniziando i lanci, invero rari e magri, di armi e munizioni dagli aerei che molte volte fallivano l’obiettivo lasciando i partigiani a bocca asciutta. Adelio ne ricorda uno solo ben riuscito a Visso, che gli permise di possedere uno sten, simile a un mitra leggero adattissimo per la guerriglia in montagna. I nazifascisti di contro nella primavera di quell’anno misero mano ad una vasta manovra di feroci rastrellamenti. Bisognava fiaccare la Resistenza, incutendo terrore anche nelle popolazioni. Appena un mese dopo in aprile, Cristo, il cielo, le montagne, la terra piansero anzi urlarono… con gli uomini e gli animali… per la strage di Collecroce (Mosciano)… Giunta la domenica di Pasqua del 9 aprile 1944 nella chiesina di Mosciano dedicata a San Giovanni Apostolo celebrò il rito religioso il parroco Alfonso Guerra, un tipo gioviale sui trentacinque anni. Alcuni giovani del battaglione Mameli dormivano al piano superiore della casa parrocchiale (oggi completamente abbandonata) attaccata alla chiesa, e ordinariamente si giovavano per sfamarsi dell’aiuto prezioso e generoso della sorella del parroco. Don Alfonso infuse molto coraggio nell’animo dei combattenti e della popolazione, che si distingueva in modo eccezionale per l’ospitalità generosissima, invitando tutti a partecipare al grande banchetto pasquale preparato all’aperto con dovute precauzioni e massima cura, rallegrato dalla splendida giornata di sole. Una delle due mense fu apparecchiata proprio nell’orticello fra la chiesa e il lavatoio ampio e grazioso del paese; l’altra alle Serre. Le Serre che stanno dirimpetto a Mosciano, a breve distanza in linea d’aria al di là della profonda valle che separa i due paesi, erano una vedetta utilissima per scambiarsi rapide segnalazioni fra i vari nuclei e abbracciare orgogliosamente con lo sguardo l’intero anello dei monti circostanti; partendo dal grugno aggressivo del monte Pennino (m. 1571 alt.) sino a valle verso i paesini di Sorifa e Stravignano-Bagni sormontati dall’immagine suggestiva di Nocera Umbra potente baluardo con la maestosa cattedrale, per chiudere il circuito con la vista del monte Subasio (m. 1290 alt.). Su questo paradiso di profonda umanità e gentilezza si scatenò la “bufera infernale”. I fascisti avevano in Nocera Umbra un caposaldo particolarmente presidiato, dove la “Garibaldi” aveva avuto la peggio, come s’è detto. Che essi potessero giungere per la via dei monti ora descritta era da escludere, poiché oltre alle scontate difficoltà orografiche, bisognava fare un cammino troppo lento e pieno d’insidie per la boscaglia con la probabilità di essere segnalati da qualche staffetta. L’unica possibile strada era quella a partire dal territorio folignate attraverso Colfiorito-Annifo, che conduceva diritto a Collecroce (m. 872 alt.) per un tratto ripidissimo e stretto. Poco più avanti sulla piazzetta di Collecroce, isolato, spoglio, severo, non può passare inosservato un altro monumento: “Aprile 1944 – Aprile 1988. Ai caduti per la Liberazione” con i nomi di ventitrè martiri .
Contemporaneamente alle operazioni di rastrellamento furono previste da parte delle autorità tedesche, in accordo con il prefetto Rocchi, le trattative di “resa” che s’andavano svolgendo con incontri densi di pesanti avvertimenti e diplomatiche intimidazioni. Insomma i tedeschi volevano in tutte le maniere avere le spalle libere in previsione dell’ avvicinarsi del fronte. Anche presso il battaglione Mameli giunsero due emissari della Guardia nazionale repubblicana (fascisti della Repubblica di Salò detti comunemente “repubblichini”) a chiedere un colloquio per trattare la resa con garanzia di piena incolumità per i combattenti che dovevano ovviamente consegnare le armi. La mossa forse nascondeva anche qualche piano mostruoso, se si considera che i partigiani avrebbero dovuto arrendersi con la propria banda nella fabbrica statale di Scanzano (Vescia) pronta a riceverne mille o duemila. Decisero di andare al colloquio usando l’astuzia: promettere la resa, chiedendo una “tregua” giustificata dal fatto di dover informare del disegno in atto tutti i compagni. In tal modo avrebbero ottenuto del tempo per effettuare il trasferimento programmato e sempre più urgente. Ma avrebbero potuto carpire anche qualche notizia circa i rastrellamenti. Insomma tra nemici incontrandosi avrebbero giocato tutti di furberia. Scesero da Mosciano, come sempre a piedi, il bravo e prestante comandante Giacinto Cecconelli e il commissario politico del Mameli giungendo nei dintorni di Nocera Umbra, a valle di Stravignano-Bagni, in un luogo pianeggiante (m. 400 alt.) sovrastato da una collinetta col suo pugno di case chiamato Le Cese. Riconobbero il vecchio mulino da olio e da grano che era stato loro indicato per l’incontro. Per timore di qualche imboscata erano stati scortati da due ali di compagni che avanzavano nascondendosi tra gli alberi del bosco che costeggiava la strada. In attesa c’era l’intermediario un trentacinquenne, e subito arrivarono con una macchina militare due ufficiali della Guardia nazionale repubblicana vestiti in grigioverde, un capitano e un tenente dall’aspetto molto distinto. Era il pomeriggio del lunedì o martedì dopo Pasqua. L’anziano proprietario del mulino introdusse gli ospiti in una sala raccomandando fervorosamente “tranquillità e pace”. Gli ufficiali con maniere e parole bellissime fecero la loro richiesta di resa: “Desideriamo di por fine a una guerra fratricida. Il nostro discorso non è di marca fascista. Siamo in questa divisa perché solo così potevamo evitare il campo di concentramento”. A loro volta i partigiani fecero la loro richiesta di tregua. E furono avvertiti che se la resa non fosse avvenuta sarebbero state impiegate forze imponenti per rastrellamenti ad ampio raggio e di lunga durata. Si era dunque in stato d’allarme sul cocuzzolo di Collecroce. Gli uomini del battaglione Mameli avevano disposto sin dalla fine di marzo la mitragliatrice con le sentinelle in un ottimo punto d’avvistamento (dove ora si trova il cippo funebre) per tenere d’occhio tutto il piano d’Annifo che è mediano fra quello di Colfiorito e quello di Collecroce. Da laggiù poteva arrivare il nemico, da lontano, a piedi non essendoci allora strade rotabili, e allo scoperto. Questi erano elementi a tutto vantaggio dei partigiani. L’ allarme doveva essere dato a colpi di fucile.
All’alba del 17 aprile 1944 si udirono “tre colpi di moschetto” e “subito la raffica delle mitragliatrici” (nemiche), racconta don Guerra. E Adelio nota: ‘Dice “subito” ‘. Perciò qualcosa non aveva funzionato. Qual era stato l’errore? l’imprevisto? l’inganno? Giunsero disperati alcuni partigiani gridando: “I tedeschi sono in corsa contro di noi …le sentinelle dormivano”. Adelio corse incontro ai compagni con i calzoni in mano. A distanza di tanti anni è ancora accorato e non riesce a farsi una ragione dell’accaduto: “Avevo accompagnato le sentinelle nella postazione, ero sceso nella fossa con loro, avevamo puntato insieme la mitragliatrice e avevo dato tutte le istruzioni necessarie raccomandando di non dormire. Infatti rompendo i tedeschi il punto di prima difesa, non c’era più possibilità di fermarli. Mentre invece bastava una mezz’ora di fuoco per ritardare l’attacco nemico, e avremmo potuto difenderci dando battaglia o trovando scampo sul monte Pennino nostro alleato. Con tutta la sua foga Fausta gli risponde che sicuramente s’era consumata all’alba del 17 aprile su quell’avamposto una tragedia, non perché le sentinelle dormissero; o per un agguato teso nel momento in cui gli uccelli ed altri animali del bosco rompono il silenzio con i loro fruscii o per un banco di nebbia persistente che può coprire la vista o per qualsiasi altra macchinazione infernale, le sentinelle sarebbero state assalite e disarmate, ma non dormivano.
Dal 17 aprile e per tre settimane forze tedesche e fasciste, una forza di circa 1000 uomini, investono una vasta area compresa tra Colfiorito, Nocera Umbra e Gualdo Tadino, sbandando completamente la IV Brigata Garibaldi di Foligno. Tra il 17 e il 23 aprile nelle frazioni di Colle Croce, Mosciano, Serre e Sorifa unità SS tedesche massacrano circa 24 civili. 120 persone, rastrellate nel territorio comunale di Nocera Umbra, vengono deportate nel campo di concentramento di Cinecittà a Roma transito per la Germania.
“Sganciamento” e “scioglimento” del battaglione Mameli.
Il battaglione prese allora l’immediata decisione di dileguarsi velocissimamente. C’era a fianco della chiesetta di Mosciano un burrone che porta quasi a picco dentro la gola strettissima, in cui si precipitarono gli scampati al massacro per risalire poi il fianco anch’esso ripido del monte opposto, cercando d’uscire dalla traiettoria dei probabili tiri nemici. Sparirono così, costeggiando il monte boscoso e scendendo sino a Giove (m. 557 alt.) dove si riunirono. Si contarono: erano una trentina. Aspettarono che facesse buio e quindi raggiunsero il paese di Valtopina. Bisognò attraversare prima il fiume Topino su una passerella e i binari della linea ferroviaria Roma-Ancona e la statale Flaminia frequentata dai tedeschi e poi nascondersi di gran corsa nuovamente nel bosco più vicino. Si erano ancor più assottigliati lungo quest’ultimo percorso, erano rimasti una ventina. Presero gli ultimi accordi prima di lasciarsi. Bisognava uscire dalle maglie del terzo rastrellamento il più terribile. Sciogliere il battaglione, sparpagliarsi, sparire. Si salvi chi può e come può. In quei paraggi scoprirono una adattissima grotta asciutta e ben chiusa anche all’esterno, dove nascosero le armi (che ritrovarono intatte). Disperata era la loro situazione di renitenti alla leva, e di persone sin troppo conosciute, nessuno dei quali poteva far ritorno alle proprie abitazioni senza correre gravissimi pericoli. Neppure potevano avvicinarsi ai paesi perché la gente, informata delle stragi, appena avvistava i partigiani si metteva a urlare con le mani nei capelli, cacciandoli immediatamente. Tutta la popolazione sapeva cosa toccava a chi li ospitava o li aiutava in qualche modo. Le spiate erano facili e all’ordine del giorno. Al più veniva loro lanciato un pezzo di pane, proprio come ai lebbrosi di vecchia memoria. I più giovani e i meno esperti di quei luoghi furono consigliati e (in)stradati nelle più diverse direzioni; partito anche l’ultimo uomo, scapparono i quattro fra i maggiori responsabili, amici nella buona e cattiva ventura, Cantarelli, Cucciarelli, Franceschini, Fiore. Era una sera chiara quando si misero in cammino affidandosi al sentiero in salita che più s’addentrava negli anfratti scoscesi e profondi del sacro monte occupato dai nazifascisti sull’uno e sull’altro fianco. Fu necessario chiedere indicazioni per salire ad Armenzano, da cui bisognava passare per scendere poi in Assisi. La salvezza insomma questa volta poteva venire soltanto dal mistico monte Subasio (m. 1290 alt.). E fortunatamente trovarono una casa abitata dove attinsero le informazioni per continuare il viaggio. Attraversando i verdi labirinti disabitati di boschi di querce, castagni e cedui, all’altitudine di circa seicento metri s’imbatterono affamati in due o tre case isolate (località chiamata il Falcione) dove tutti dormivano, ché era passata la mezzanotte. Sperando che lassù non fosse giunta la notizia delle recenti stragi, bussarono a una porta al pianterreno. S’affacciò una donna dal piano superiore che disse: “Non possiamo aprire. Siamo donne sole”. Erano della famiglia Carpisassi, originaria di Armenzano, probabilmente sfollate nella loro casa di campagna isolata nell’universo verde del monte. Gli uomini si sa che in quei frangenti non si trovavano mai nelle abitazioni, anzi c’erano ma invisibili. Fausto, uno dei quattro, ovviamente fingendo, minacciò di far saltare la casa con un tubo di gelatina. Si sentirono allora le donne gridare: “No, no, no!”
E tirato il paletto, dischiusero la porta di casa. In fretta e furia vennero fatti accomodare e furono serviti di ogni ben di Dio da sette distinte signore, affaccendate intorno a loro: prosciutto, salame, pecorino, pane di casa, e una grandissima frittata cotta alla fiamma dell’ampio focolare. Con tanti ringraziamenti scapparono, facendosi accompagnare da un malcapitato montanaro. Al seminario regionale di Assisi furono accolti da un amico monsignore, Dino Tomassini, che poi sarebbe diventato vescovo di Assisi e Nocera Umbra. Si fermarono giusto per dormire, 24 ore. In fretta un boccone e via come il vento scappando da una porta segreta, poiché infuriavano i rastrellamenti proprio nei conventi della città. A Spello si rifocillarono a casa del compagno comunista Persiano Ridolfi che, più fortunato di loro, si era già messo al riparo.
Adelio FioreFausta Fiore, Memorie di un ribelle (settembre 1943-maggio 1945), Editoriale Umbra, 1995