«A tutta questa gente è lecita la difesa e la ricerca dei mezzi di sostentamento, che altrimenti gli sono negati, oltre che dei mezzi di difesa» <160.
Ancora una volta è presente un ragionamento sull’utilizzo della violenza. La Resistenza dei sacerdoti è per lo più caritativo-assistenziale, alcuni preti svolgono anche ruoli direttivi nei comandi partigiani, ma resta fondamentalmente una Resistenza nonviolenta. Però in questo caso p. Rinaldini, don Vender, don Almici e don Tedeschi si preoccupano di legittimare davanti al vescovo la Resistenza armata, che viene portata avanti dai laici, ma deve ricevere il supporto dell’autorità religiosa. Essa non è arbitraria e immediata, priva di cause, ma viene intesa come reazione a una precedente azione impositiva del nemico a danno del Paese. È presente quindi il risvolto patriottico prima di tutto. Inoltre non è una violenza impiegata per opprimere ma per liberare. Si tratta dunque di una violenza non originaria, ma scaturita successivamente a una limitazione della libertà per difendere quest’ultima. La forza non viene impiegata per attaccare, ma per difendere la libertà, se stessi e gli altri. L’opposizione armata non è tuttavia mai la prima scelta: prima infatti si cerca di non cedere con altri mezzi e solo alla fine, e alle condizioni elencate, è lecito resistere in modo armato.
Probabilmente, come Bonhoeffer, anche questi preti cattolici si pongono il problema del successo del bene, che in questa situazione concreta può essere raggiunto solo con mezzi non propriamente evangelici. Però non c’è riferimento all’ assunzione di colpa, in quanto l’impiego della violenza è pienamente giustificato. Tuttavia per i preti continuerà a rimanere un problema non del tutto risolto.
Per i cattolici e quindi per le Fiamme Verdi, la rivolta morale accompagna dunque e guida quella armata: «i cittadini migliori, che vedono le cose in questo modo, devono preoccuparsi che il movimento di resistenza non diventi a sua volta fonte di ingiustizia e di mali; non è quindi loro lecito, posta la libera scelta fatta, rimanere inoperosi, bensì hanno il dovere di preoccuparsi che la loro azione avvenga secondo giustizia, per amore della Patria e dei fratelli, non per odio; che essa sia ordinata, non fonte di disordini; che non provochi rappresaglie più gravi dello scopo da raggiungere, ecc.» <161.
Viene qui delineato il tratto più importante della Resistenza cattolica: la ribellione, anche armata, deve avvenire per amore e non per odio. La funzione moralizzatrice dei cattolici tra le formazioni partigiane, auspicata da molti sacerdoti, ha proprio lo scopo di rendere possibile quello che sembrerebbe un controsenso: avvalersi della violenza non con odio ma con amore. La violenza deve venire subito abbandonata quando non risulti più strettamente necessaria, come dopo la Liberazione, quando i partigiani cattolici si adoperano affinché non sia lasciato spazio ad azioni violente per vendetta.
Nel documento si passa poi ad analizzare la posizione che deve mantenere il prete: a lui «non è lecito fare della politica diretta, quindi obbligare in coscienza uno a essere ribelle o a essere fascista, ma, posto che uno abbia scelto liberamente, con sincerità e secondo coscienza (e dopo dieci mesi tutti hanno scelto), deve fargli presenti i suoi doveri precisi di ribelle (o patriota) nel primo caso, di occupante nel secondo caso (il fascista, infatti, non può essere considerato se non nella fisionomia di occupante, perché il governo fascista è illegittimo ed ha valore solo come espressione della dominazione straniera). È opera puramente sacerdotale, religiosa, e non può essere né travisata da noi né tralasciata per paura, pena rinunciare al nostro sacerdozio. L’eroicità maggiore o minore di certe posizioni, che possono venire travisate dai mali intenzionati, è la prova del valore del nostro sacerdozio: se nelle nostre vene corre il sangue dei martiri, di coloro che professano il cristianesimo di fronte a chiunque, costi quel che costi, oppure quello dei timorosi che, per paura di rimetterci la vita o la libertà, tacciono agli uomini i loro doveri» <162.
Il prete quindi deve accostarsi e svolgere la sua funzione con tutti, anche i fascisti, che però devono essere considerati a tutti gli effetti come occupanti. Non si può rinunciare all’opera sacerdotale per paura ma bisogna professare il proprio sacerdozio fino in fondo, nonostante tutti i rischi e le complicazioni.
«In conclusione: il governo tedesco si è autodefinito occupante e nemico; il governo fascista è illegittimo e la sua legislazione (al di fuori di quella dell’ordine pubblico) è illecita e ingiusta; il governo di Roma, legittimo fino all’8 settembre, non cessò di essere tale anche dopo, per quanto ad alcuno possa non apparire tale; esso ha ormai ripreso quella legittimità che pareva sopita, ed è il solo che garantisce gli interessi della nazione; il movimento di liberazione è perfettamente lecito; è logico che si trovi alleato con chi ha comuni preoccupazioni e interessi; i tedeschi sono nemici di fatto, gli anglo-americani sono alleati di fatto; il pericolo comunista non va eliminato sostenendo il fascismo attuale o uno di nuovo conio, ma con la diretta partecipazione al movimento di liberazione da parte dei cattolici, cittadini pur essi responsabili degli orientamenti dell’Italia di domani; la Chiesa non può osteggiare il movimento di liberazione, né negare ai suoi partecipanti l’assistenza religiosa, che è perfettamente lecita e apolitica» <163.
Per approfondire le possibilità e i limiti di una ribellione a un governo di fatto, gli autori rimandano al pensiero del tomista Luigi Taparelli d’Azeglio, che riprenderemo più avanti.
Viene qui introdotto il nodo fondamentale del “Manifesto della Resistenza cattolica”, ossia la richiesta alla Chiesa di fornire ai partigiani l’assistenza religiosa.
Si passa poi a descrivere le diverse fisionomie dell’azione resistenziale. Tra settembre e dicembre 1943 si è trattato di masse di gente disorganizzate salite sui monti per timore della deportazione o, viene ammesso, «per avere la possibilità di far la peggio (malviventi ai quali tornava comodo fare i briganti)» <164. Questi gruppi di sbandati però non riescono a opporsi efficacemente alle azioni armate dei nazifascisti e si sciolgono velocemente. Assieme a questi però ci sono anche alcuni uomini mossi sinceramente dall’amor di patria, pochi perché la maggior parte, per non perdere l’onore e per non tradire l’Italia, si è lasciata deportare in Germania. Gli sbandati vengono convinti dai fascisti a scendere dai monti, mentre gli uomini spinti dall’amor di patria rimangono e a essi si uniscono, in città, altri uomini preoccupati di preservare i beni e le vite dei cittadini al momento della ritirata tedesca, che sembra imminente. Tra quelli però che si presentano ai nazifascisti sono presenti dei traditori che causano l’arresto di alcuni capi del movimento partigiano.
In seguito iniziano le chiamate alle armi delle classi più giovani e il trasporto in Germania degli operai, con la promulgazione di pene severissime in caso di inadempienza, fino alla pena di morte.
«Nonostante questo, molti, piuttosto che tradire ignominiosamente la propria coscienza di cittadini e di soldati e pronunciare giuramenti imposti contro ogni norma di diritto, presero la via dei monti, dove altri capi avevano pazientemente ripreso le file d’una organizzazione di difesa della Patria oltraggiata. Oggi essi costituiscono un esercito ben organizzato, che incute timore all’occupante; esercito che, nella provincia di Brescia, si è finora astenuto da violenze e rapine proprio per l’interessamento dei cattolici (esso, sinora, si è limitato a due o tre atti di difesa necessaria ed improrogabile).
Purtroppo, in altre province d’Italia, il mancato impegno dei cittadini migliori ha permesso che il movimento assumesse toni di violenza e di disordine che possono preoccupare, ma che possono anche essere eliminati, poco alla volta, con quell’azione che in provincia di Brescia è già in gran parte compiuta, poiché alcuni sacerdoti seppero, sin dal principio, far presenti quali erano i doveri di chi si poneva in condizione di ribelle; e i cattolici ne seguirono gli insegnamenti. Se qualche sacerdote, frainteso nella sua azione, geme in prigione o in campi di concentramento, la coscienza del dovere religioso – non politico – compiuto, lo aureola di gloria. I cattolici caduti per la Patria in queste condizioni devono essere onorati e guardati come fulgido esempio di eroismo cristiano» <165.
Qui c’è un’ulteriore conferma della eccezionalità bresciana: infatti nella provincia di Brescia la Resistenza non sfocia in episodi di violenza e disordine gratuiti, proprio perché è influenzata dalla numerosa partecipazione dei cattolici, cosa che non avviene in maniera così massiccia in altre province. Una presenza così cospicua e così positiva per le sorti del movimento resistenziale è resa possibile dall’operato di alcuni sacerdoti, che si impegnano attivamente e concretamente nell’indirizzare i ribelli cattolici a una certa condotta. Così facendo, compiono il loro dovere che, viene ribadito, è prettamente religioso e non politico.
Non è sicuramente un compito facile quello dei preti perché «l’affluire di nuovi gruppi di uomini sui monti, la continua permanenza in periodi di forzata inattività e la reazione a una situazione di così aperta ingiustizia, congiunta al pericolo che l’iniqua legge fascista fa pesare pure sulle case e le famiglie di coloro che mantengono questa posizione, aprono facilmente l’animo alla reazione violenta ed all’odio» <166. Ma è proprio per questo che urge il contributo dei sacerdoti e dei cattolici.
Infatti «la presenza in questi gruppi di molti giovani buoni (molti di AC [Azione Cattolica]), crea per essi la necessità di un aiuto spirituale e sacramentale che:
li faccia capaci di comprendere in una luce superiore il loro eroismo;
li faccia capaci di resistere per amore, non per odio;
li aiuti a vedere, nel proprio sacrificio, il sacrificio di Cristo;
li prepari intellettualmente alle responsabilità di domani;
li faccia pronti a piegarsi nell’atto di carità fraterna verso il compagno (forse senza fede) che per natura di cose è aperto a capire le influenze di un abito di carità e d’amore che si esprima in ogni azione, anche in quella della difesa necessaria (essa pure opera d’amore). È, questa, una posizione eroica che l’uomo solo non può raggiungere, ma per la quale occorrono gli aiuti della parola e della grazia di Cristo.
La Chiesa ha il diritto di compiere la sua azione religiosa nei riguardi dei cattolici ovunque essi si trovino raggruppati (tanto più se da essi richiesta) e non può permettere che per un motivo politico (opportunità o meno) si tralasci la cura spirituale delle anime. Naturalmente l’opera del cappellano va a vantaggio anche dello stesso occupante, perché il sacerdote ha la possibilità di limitare, con la persuasione, l’azione dei patrioti nei limiti del diritto di guerra e di impedire che si sbocchi in una serie di violenze che sarebbero causa di gravi reazioni nell’avversario» <167.
Quindi l’assistenza religiosa è un diritto della Chiesa pienamente inerente al suo mandato e non può essere tacciata di essere un’indebita azione politica. Al contrario, alla scelta di non garantire assistenza spirituale a dei cattolici, in questo caso riuniti in formazioni partigiane, sarebbe da dare una lettura politica, perché tale scelta sarebbe dovuta non a motivi religiosi ma a motivi di opportunità politica.
P. Rinaldini e gli altri dichiarano l’impossibilità di fornire questa assistenza da parte del clero dei singoli paesi, data la dislocazione dei gruppi sui monti e l’inopportunità di creare dei rapporti continui tra i preti in paese e i partigiani nascosti in montagna. Quindi la conclusione è che «alla necessità dell’aiuto spirituale, alla impossibilità di fornirlo nei paesi, l’unica soluzione che si presenti realizzabile è quella che un sacerdote salga tra quei giovani, per compiere a suo rischio e pericolo, e con azione puramente personale, questa necessaria assistenza spirituale (la Chiesa non può che essergliene grata).
Naturalmente il convivere con quei giovani, obbligherà il sacerdote a tutte quelle misure di prudenza necessarie a garantire il più possibile la continuazione della sua opera (a questo, ad ogni modo, dovrà pensarci lui) e a impedire che ciò vada a detrimento della sua persona o della Chiesa. Comunque, per il bene delle anime è lecito porre a repentaglio la propria vita, anzi ciò è anche doveroso.
Sarebbe parziale atteggiamento politico il negare questa assistenza religiosa perché ciò sarebbe, agli occhi dei ribelli e di tutti, come una disapprovazione del loro operato (mentre all’esercito repubblichino essa è concessa)» <168.
Inviare un sacerdote in montagna è perciò l’unica soluzione per garantire assistenza spirituale ai partigiani, compito tanto rischioso quanto doveroso per un prete. Giustamente Rinaldini e gli altri fanno notare l’incoerenza nel concedere solo ai fascisti dei cappellani, e in questa prospettiva considerano che rifiutarli ai partigiani vorrebbe dire non accettare e non riconoscere la loro azione. Anzi, la Chiesa così facendo presterebbe il fianco alle accuse di collusione col regime nazifascista: «può esserci per la Chiesa un’opportunità più o meno grande a compiere certe azioni o a prendere certe decisioni, per i riflessi che ne potrebbero sorgere ai suoi danni. Però all’opportunità di evitare dei danni oggi da una parte (la probabile reazione dell’occupante quando abbia a scoprire la cosa) si aggiunge la certezza di altri danni da un’altra parte (scivolamento verso il male e verso l’ingiustizia di una massa notevole di uomini) nonché di quelli, rilevanti, che si produrranno nel domani (quando la Chiesa potrà essere accusata di parzialità e, addirittura, di correità coll’occupante e col fascismo)» <169.
[NOTE]
160 Il manifesto della Resistenza cattolica, a cura di Dario Morelli, cit., pp. 30-31.
161 Ivi, p. 32.
162 Ibidem.
163 Ivi, pp. 32-33.
164 Ivi, p. 33.
165 Ivi, p. 35.
166 Ibidem.
167 Ivi, p. 35-36.
168 Ivi, pp. 36-37.
169 Ivi, p. 37.
Filippo Danieli, Fedeli e ribelli. Paradigmi di Resistenza cristiana al nazifascismo, Tesi di laurea, Università degli Studi di Trento, Anno Accademico 2018-2019