La costituzione dei Gruppi di combattimento, nell’autunno del 1944, rese ancora più marcato ed ambivalente il senso dell’inferiorità italiana nei confronti delle potenze alleate

Nel corso del primo anno di cobelligeranza, le truppe italiane del Raggruppamento Motorizzato e del Corpo Italiano di Liberazione furono subordinate a più grandi unità alleate, ma mantennero un’identità distinta. Un’identità preservata non solo attraverso l’uso delle uniformi, armi ed equipaggiamenti del Regio Esercito, ma anche da uno scambio di visite ed encomi riconducibile alle normali pratiche della guerra di coalizione <1215.
L’ostinato utilizzo di uniformi e armi italiane, nonostante la loro obsolescenza e scarsità, non sembrava che confermare l’attitudine dei comandi italiani a conservare un prestigio ridicolo dopo la resa. Un comportamento aggravato dal conseguente peggioramento delle condizioni di vita dei soldati, esposti per altro a maggiori rischi nei combattimenti. Di converso, particolarmente inquietante era la munificenza delle truppe alleate. La qualità e la quantità di beni e mezzi a disposizione degli anglo-americani era particolarmente imbarazzante. L’attenzione posta dagli alleati al benessere dei propri uomini, se confrontata con quanto era disponibile per le truppe cobelligeranti, era a tratti umiliante <1216. Soprattutto, poteva caricarsi di connotazioni politiche indesiderate ai comandi. Rosolo Branchi ricorda come “Il primo contatto con gli Americani mi dette la sensazione di trovarmi in un nuovo mondo; non il mondo “America” geograficamente parlando, ma il mondo in cui i concetti di libertà avevano un significato ed il rispetto della personalità umana trovava la sua più alta espressione. Abituato a vedere presso di noi sempre un po’ meno del necessario rimasi sorpreso dall’abbondanza di mezzi in cui si muovevano quei reparti che erano poi quelli più avanzati: abbondanza di armi moderne e di munizioni, abbondanza di viveri di ogni genere molto praticamente confezionati” <1217.
Il confronto con le condizioni dei reparti italiani non poteva che essere impietoso. “La nostra amarezza era accresciuta anche dal confronto tra i miseri mezzi dell’esercito italiano e quelli abbondanti e potenti degli americani, tra la mentalità ristretta dei comandi italiani, sempre attenti a lesinare mezzi e munizioni, e il generoso rispetto che gli americani avevano per la vita del combattente. Una pattuglia statunitense in perlustrazione era normalmente preceduta da due o tre ore di bombardamenti di artiglieria, con un costo di migliaia di dollari. Una pattuglia italiana invece, partiva senza alcuna preparazione preventiva perché bisognava risparmiare sulle munizioni e i costi” <1218.
In sintesi, «la sensazione dell’enorme ricchezza di mezzi della macchina bellica americana fu immediata e traumatizzante. Provammo l’umiliazione d’essere i loro parenti non poveri ma miserabili» <1219.
Nelle retrovie, il prestigio italiano e soprattutto degli uomini italiani come tutori della moralità delle donne era continuamente messo in discussione, anche se tra gli alleati si segnalarono diversi comportamenti. Se i francesi del Corps Expéditionnaire Français giravano per via del Corso a Roma con un cartello recitante «non abbiamo cioccolate, non abbiamo sigarette, non vogliamo donne» <1220, ai soldati britannici venne fornito un foglio prestampato con cui avrebbero dovuto allontanare prostitute e protettori, perché «noi siamo qui per vincere la guerra e rendere nuovamente libera e dignitosa l’Italia» <1221. Constatazioni ricordate anche da Eugenio Corti, quando andò a Roma per partecipare ad una visita di militari italiani dal Papa. “Le vie cittadine si fecero sempre più brulicanti di soldati: americani bianchi e neri, inglesi, sudafricani, indiani, polacchi, francesi, brasiliani, neozelandesi, canadesi, filippini, ai quali la popolazione romana sembrava essersi letteralmente sposata. Non una via in cui non si vedessero donne al fianco o al braccio degli stranieri, e donne passavano con le variopinte vesti svolazzanti su jeeps americane in corsa. Dal loro atteggiamento ci rendevamo con amarezza conto ch’era vero ciò che avevamo sentito dire: Roma era diventata una immensa casa di prostituzione. Tra noi cominciarono i commenti: “Maledette cagne! Hanno tutte perduta la testa. – Guardate là, è incredibile… – A Napoli dicono sia ancora peggio. A Napoli ci sono per le strade anche nugoli di ragazzini che vivono di furti. – Noi là a rischiare la vita per questo mondo di puttane e di ladri. – E c’è ancora, fra noi, chi si meraviglia che gli stranieri ci trattino da vinti. – Che schifo essere italiani!”. “Anche Atene era così” tentò uno, “al tempo in cui noi l’occupavamo”. “Dappertutto oggi è così” tentò un altro” <1222.
Anche le differenze fra inglesi e statunitensi non passarono inosservate. Giovanni Bonomi, all’11° Artiglieria prima di Monte Lungo, nel ricordare la semplicità dei fanti americani sembra voler tacitamente additare la supponenza dei britannici <1223.
La costituzione dei Gruppi di combattimento, nell’autunno del 1944, rese ancora più marcato ed ambivalente il senso dell’inferiorità italiana nei confronti delle potenze alleate. Ad essere considerato un affronto fu, in primo luogo, lo stesso ordine di tornare nel meridione per ricostituire i reparti. Lo scioglimento del Corpo Italiano di Liberazione, «prima che l’Italia fosse tutta liberata, era l’ultimo sacrificio, il più doloroso, che ci si chiedeva». Ma ad essere considerato particolarmente grave era «l’ordine strano» di tornare a sud «mentre eravamo alle porte di casa, ci colpì come una frustata. Ci sembrò una beffa, un controsenso, un’incomprensione». “Alcuni incapaci di adattarsi disertarono. Nessuno però, anche accettando il sacrificio, nascondeva la profonda ripugnanza a volger la schiena al Po per scendere nel meridione. Era la via opposta alla via degli ideali, alla via di casa nostra. Riluttanti e disgustati moltiplicammo proteste e reclami. Tutto fu inutile: fu giocoforza ubbidire” <1224.
I costituendi Gruppi italiani furono armati, organizzati ed amministrati con equipaggiamenti, organici e tecnica britannica. Come ricordò il tenente Vismara Currò, una volta indossata la ‘battle dress’ delle truppe britanniche, i soldati italiani vennero spesso scambiati per militari alleati <1225. All’«ilare attesa» per l’arrivo del nuovo equipaggiamento, seguì la malinconica constatazione che l’uniforme alleata indossata al posto del grigio-verde italiano rappresentava un’ulteriore conferma dello status di potenza sconfitta, alla mercé dei nemici di ieri. Certo, «vestire all’americana [sic]» era una «conquista» che avrebbe scacciato la sensazione di «sembrare fratelli poveri e quasi dei paria». Non di meno “Dopo un primo sentimento di euforia [dopo aver indossato le divise] entrò in noi una sottile mestizia, una indefinibile nostalgia per la nostra vecchia divisa verde o caki; brutta ma nostra, sformata e logora all’uso ma italiana. Simbolo di tante guerre e fatiche, con tanta storia nelle sue pieghe. Una specie di camicia di Nesso, convertitasi in pelle. Ci sembrò d’aver perduta la nostra personalità, o meglio individualità, il che non era piccola cosa. Ragion per cui, molti mandarono alla malora gli alleati e le loro stranezze!”. <1226
Anche Curzio Malaparte rappresentò icasticamente l’imbarazzo di fronte alla necessità di indossare le divise del nemico <1227, ma ci fu chi, più prosaicamente, si convinse di essere finalmente «diventato qualcuno» <1228. Questo permette di sottolineare come fra i soldati del “Regno del Sud” non sembrò esserci quel rifiuto risentito del Regio Esercito, che nelle diverse formazioni militari della Repubblica Sociale si tradusse anche in una rincorsa alle uniformi fuori ordinanza, e negli ultimi mesi della guerra prese la forma di una vera e propria adozione di un’uniforme tagliata sul modello di quella tedesca.
Oltre che abbandonare uniformi ed equipaggiamenti italiani, le divisioni scelte per combattere negli ultimi mesi di guerra dovettero anche cedere il loro titolo per essere rinominate Gruppi di combattimento: un cambiamento dal valore simbolico non secondario. I comandi italiani inoltre vennero subordinati ai loro nuclei di collegamento, le British Liaison Units (BLU). Alle BLU era demandata la «trasmissione […] di tutti gli ordini provenienti dai comandi alleati interessati [con il compito di] definire o di ampliare» le disposizioni in arrivo dalle unità che avrebbero avuto responsabilità delle truppe italiane. Gli ufficiali della BLU avrebbero dovuto essere «considerati investiti» dell’autorità del comando superiore. Di fatto, ai comandi italiani era lasciata la sola «amministrazione interna», anche se «qualsiasi questione in detta materia che possa interessare gli alleati [avrebbe dovuto] essere trattata […] dalla MMIA o per il suo tramite». I comandanti dei BLU, indicati come «organo di consultazione per tutte le questioni di amministrazione interna», erano comunque investiti «dell’autorità del capo della MMIA» <1229.
Una delle «prove di disistima» <1230 che nelle parole di Antonio Tedde, un ufficiale del CIL assegnato al Gruppo “Legnano”, fu riassunta come un controllo esercitato «anche nei più minuti particolari […] eseguito in maniera così pedante, minuziosa e umiliante da menomare agli occhi dei soldati il prestigio e l’azione dei nostri ufficiali anche di grado elevato, di preparazione solida e spirito a tutta prova» <1231.
Le unità di collegamento britanniche non si sarebbero dovute limitare alla trasmissione degli ordini alle divisioni italiane, ma avrebbero potuto interpretali e farli eseguire al di là delle eventuali obiezioni italiane. Inoltre, fornendo dei suggerimenti vincolanti, il comandante di una BLU avrebbe potuto interferire in qualsiasi azione che gli ufficiali italiani avessero voluto intraprendere autonomamente o nel proprio ambito di competenza.
[NOTE]
1215 Pur nell’evidente stato di minorità suggerito dalle visite alleate per verificare la preparazione dei reparti italiani, vedi CONTI, Il primo raggruppamento…, pp. 63-64.
1216 BONOMI, Dal Volturno al Po…, Vol. I, p. 88.
1217 BERLETTANO, Risalendo l’Italia…, p. 85.
1218 BRANCHI, Nebbia amica…, p. 138.
1219 BONOMI, Dal Volturno al Po…, Vol. I, pp. 70-71.
1220 BONCIANI, Squadrone “F”…, p. 128.
1221 Voltanino ne l’«Union Jack», 18 novembre 1943, come riportato in PORZIO Maria, Arrivano gli Alleati! Amori e violenze nell’Italia liberata, Laterza, Roma-Bari 2011, p. 59.
1222 CORTI, Gli ultimi soldati del re…, p. 230.
1223 BONOMI, Dal Volturno al Po…, Vol. I, pp. 86-87.
1224 Nel caso del reparto di Bonomi, il riordinamento avvenne nel beneventano, BONOMI, Dal Volturno al Po…, Vol. II, p. 89.
1225 «Indosso per la prima volta la divisa inglese, che mi sta piuttosto bene; vengo scambiato più volte … per alleato!», 6 novembre 1944, Diario Currò. Pur indossando la divisa alleata, una ragazza non nasconde la propria delusione nel scoprire che Bonciani è in realtà un ufficiale italiano, BONCIANI, Squadrone “F”…, p. 179. La situazione delle truppe destinate al combattimento era comunque migliore rispetto a quella delle truppe ausiliarie, cui furono assegnate divise alleate ritinte di verde che, con il caldo, stingevano, BOSCARDI, Dalle Puglie…, p. 92.
1226 BONOMI, Dal Volturno al Po…, Vol. II, pp. 104-105.
1227 MALAPARTE Curzio, La pelle. Storia e racconto, a cura di Caterina Guagni e Giogio Pinotti, Adelphi, Milano 2010 (edizione originale Aria d’Italia, Roma-Milano 1949), pp. 14-15.
1228 Ridolfi fu assegnato al Gruppo “Cremona” dopo la liberazione di Ravenna, fin a quel momento aveva lavorato in un reparto inglese, ADN, RIDOLFI Rino, La mia guerra, p. 77.
1229 Direttiva britannica n.3, come riportata in VALLAURI, Soldati…, pp. 382-383.
1230 BONGIOVANNI, La guerra in casa…, p. 162.
1231 TEDDE Antonio, Un ufficiale scomodo. Dall’armistizio alla guerra di liberazione (1943-1945), Franco Angeli, Milano 2002, p. 155.
Nicolò Da Lio, Il Regio Esercito fra fascismo e Guerra di Liberazione. 1922-1945, Tesi di dottorato, Università del Piemonte Orientale – Vercelli, 2016