Guadagnano più di noi ma più grande è l’affanno

Alla fine degli anni Quaranta, sul “Public Opinion Quarterly” si discusse sui tentativi del governo di intervenire sulla sceneggiatura di alcuni film destinati al mercato internazionale, al fine promuovere i tradizionali valori “a stelle e strisce” come la libertà, il rispetto dell’individuo, l’ammirazione per la capacità di realizzarsi, e di evitare che i riferimenti al violento mondo dei gangster o ai problemi razziali costituisse un pericolo per l’immagine della società americana <1703. Nettamente contrari furono però in molti, tra cui il produttore cinematografico Walter Wanger, che nel 1950, di ritorno da un viaggio in Europa, rese nota la sua posizione: a suo dire, proprio la possibilità di esprimere liberamente ed in maniera genuina tutte le sfaccettature della società statunitense costituiva un elemento importante del fascino che tale rappresentazione esercitava sul resto del mondo, al punto che proprio i film ritenuti inadeguati ad offrire un’immagine positiva erano vietati oltre cortina <1704.
Le intuizioni espresse da Wanger possono ancora oggi costituire un buon punto di partenza per valutare la natura del “sogno” americano e la diffusione delle immagini più affascinanti. Chi si è occupato di fenomeni culturali come “americanismo” e “antiamericanismo” ha spesso cercato di proporre una divisione netta, individuando per gli autori e gli intellettuali presi in considerazione un atteggiamento chiaramente e univocamente “filoamericano” o “antiamericano” <1705, arrivando a connotare semplicemente come “antiamericani” alcuni «dei tradizionali mediatori dell’immagine americana in Italia», da Piovene a Prezzolini <1706.
Più accattivante, ed adeguata alla complessità dell’atteggiamento verso gli USA di intellettuali e giornalisti italiani, è l’idea esposta da Enrica Bricchetto per definire l’atteggiamento di Luigi Barzini jr., giornalista che ebbe modo di vivere e studiare per anni in America, e che descrisse le sue esperienze ai lettori italiani <1707: “Michela Nacci […] insiste sull’antiamericanismo di Barzini jr. In realtà, […] si intuisce una fascinazione, a tratti critica, stratificatasi nella memoria”. <1708
Il concetto di “fascinazione critica”, individua il tratto più caratteristico del “sogno” americano e della sua forza. La formazione e la diffusione del “mito” dell’URSS erano legate a precise istituzioni politiche ed ideologiche, e i differenti rapporti di attivisti e visitatori con simili istituzioni determinavano con nettezza gli atteggiamenti, che passavano senza sfumature dall’ammirazione incondizionata all’assoluta riprovazione.
Distinzioni così nette non possono essere applicate all’elaborazione e alla diffusione dell’immagine dell’America. Essa si sviluppò attraverso canali molteplici e non direttamente controllabili: a differenza di quanto accadeva quando sull’Unità o su Vie Nuove si parlava della Russia, nei reportage e degli interventi della stampa d’informazione relativi alla società americana ogni autore prestava attenzione anche agli aspetti più difficili da difendere; questi ultimi, però, non erano trattati come elementi di svalutazione, ma spesso finivano per diventare parti integranti del fascino che gli USA esercitavano sul pubblico, esempi della grandezza che una civiltà esprimeva anche negli aspetti più discutibili.
Un simile atteggiamento era ravvisabile nell’aspetto della vita americana che maggiormente suscitava ammirazione in tutto l’Occidente: l’elevato tenore di vita generato da uno sviluppo produttivo impetuoso. Le rappresentazioni cinematografiche della vita americana non presentavano l’immagine idilliaca di un progresso sociale armonico, simile a quello raccontato dai viaggiatori nell’URSS, e non nascondevano il dramma di una povertà ancora diffusa; molti commentatori hanno però insistito sugli effetti che poteva avere, per il pubblico italiano, l’ambientazione dei drammi di una famiglia povera in una casa dotata di frigorifero, elettrodomestico che alla fine degli anni Quaranta aveva conosciuto, in Italia, una diffusione solamente elitaria. Allo stesso modo, i tentativi di rappresentare drammaticamente le metropoli americane come “giungle d’asfalto”, in cui l’incontrollato progresso tecnico aveva disumanizzato le relazioni interpersonali, soccombevano di fronte al fascino che, in una società ancora prevalentemente rurale, esercitavano le grandi opportunità di arricchimento e di divertimento offerte dalle più grandi città del mondo <1709.
A maggior ragione, possibili accenti critici sull’American way of life si trovavano nei reportage giornalistici, che a detta di Guido Piovene erano pensati soprattutto per presentare un’immagine realistica dei luoghi che alimentavano il sogno cinematografico, al di là delle rappresentazioni oleografiche del Sud aristocratico e del selvaggio West <1710. Proprio Piovene introduce nel suo racconto di viaggio un tema che avrebbe potuto rendere assai meno appetibile la vita lavorativa degli USA: “Guadagnano più di noi ma più grande è l’affanno”, era il titolo di un articolo in cui gli elevati stipendi americani erano spiegati con le ingenti spese che ognuno doveva sostenere per vivere, in un paese «dove “tutto si paga”» e dove esistevano poche possibilità di risparmiare qualche dollaro a fine mese <1711. Lo sguardo critico ad un simile comportamento era assai meglio esplicitato da Virgilio Lilli su Epoca:
“L’americano spende tutti i suoi guadagni per comprarsi, a rate, l’automobile e il frigorifero, la televisione e l’aspirapolvere: vive da milionario senza un quattrino in tasca. Così, quando deve pranzare fuori casa, finisce in una latteria, e si veste soltanto di abiti fatti in serie” <1712.
In opposizione all’etica del risparmio che caratterizzava la società italiana Lilli presentava, non senza un certo scetticismo, un sistema di rapporti economici orientato al consumo diffuso, in cui non solo ogni prodotto, ma ogni aspetto della vita, comprese le prediche dei religiosi, era creato in serie per la soddisfazione di un gusto ormai uniforme in tutto il paese: “L’America è il paese nel quale la vita ha la perfezione e la monotonia anonima delle cose fatte a macchina e dove la stessa ideazione dell’uomo può essere prevista come può essere previsto l’andamento di una macchina”. <1713
Un approccio simile, neppure troppo velatamente critico, era però destinato ad impallidire nell’immaginario del pubblico rispetto ai racconti del «vecchio emigrante italiano» che «andava al lavoro col suo ‘yacht’» <1714, o a quelli della vita di Giuseppe Di Giorgio, umile lavoratore divenuto uno dei più potenti magnati agrari del mondo, personificazione del sogno di tutti gli immigrati in cerca di fortuna <1715.
Nel Marzo del 1953, significativamente poco prima delle elezioni, toccò al nuovo inviato del Corriere Indro Montanelli descrivere nei termini più lusinghieri la vita americana che tutti gli italiani sognavano: “A Levittown una casa costa undicimila dollari, e si tratta di uno chalet con garage e giardino, in cui un multimilionario italiano non disdegnerebbe di vivere. Qui ci vivono invece gli operai, i quali […], per andare in città al lavoro, hanno ciascuno la propria automobile. La casa, alla consegna, è già rifinita di tutto. E il tutto americano è diverso dal tutto italiano. Comprende la ghiacciaia elettrica, l’aspirapolvere, l’apparecchio radio e televisivo, il toaster e insomma quel comfort base che da noi è il lusso degli abbienti. […] Appollaiati su alti sgabelli al banco del bar, fra volti rosei di fanciulle ultravitaminizzate che ti guardano dai loro cartelloni pubblicitari in cui son promesse tutte le felicità, si allineano la domenica, i giovanotti levittownesi […]”. <1716
D’altro canto, persino gli accenti più perplessi relativi all’incomprensibile tensione americana al consumo non necessario erano percepiti essenzialmente come le descrizioni di una società che aveva strutturalmente superato la necessità di soddisfare i bisogni primari, e che si apprestava ad edificare un’opulenza ancora più impressionante. Amerigo Ruggiero, in un suo articolo, cercava di tracciare un quadro sprezzante della tendenza allo spreco nella società degli USA, ma lo stile di vita che descriveva poteva anche apparire allettante: “Non passano due settimane che l’una o l’altra delle ragazze non compaia con un cappellino nuovo. […] Avviene che durante l’annata negli armadi a muro, spesso grandi come camerini, si ammucchino cataste di cappelli, montagne di scarpe, balle di vestiti che non saranno più usati. […] Le ragazze fanno tanto affidamento sul “dry cleaning” che non sanno più ormai attaccare un bottone o rammendare uno strappo. […] Le madri, quelle di origine europea, sono disperate. Soffrono tanto sciupio e tanta sciatteria. Educate alla più stretta economia, sanno che quanto si spende settimanalmente per il solo “dry cleaning” potrebbe sostentare una famiglia in Europa. […] Quello che colpisce soprattutto l’europeo è lo spreco”. <1717
Allo stesso modo Piovene, da intellettuale “vecchio stampo”, appariva stranito e quasi disturbato nel visitare città in cui il numero delle automobili fosse superiore a quello delle famiglie <1718, ma metteva in evidenza l’indubbio significato di ciò per quanto concerneva il continuo miglioramento generale del tenore di vita. Nella diffusione dei cibi in scatola, allo stesso modo, egli vedeva quasi un elemento di realizzazione di un “socialismo” non ideologico:
“Tutti fruiscono così di cibi fondamentalmente buoni, ricchi d’ingredienti ed igienici; il cibo in scatola fa parte della produzione di massa, ed è uno dei numerosi aspetti socialistici del Paese”. <1719
Un simile atteggiamento di generale comprensione degli aspetti della vita americana più lontani dall’abituale panorama culturale italiano era ancora più evidente nella trattazione dei temi che, tradizionalmente, erano percepiti come degni di riprovazione: si trattava di problemi come la diffusione dell’alcolismo e della passione per il gioco d’azzardo, la criminalità organizzata, la discriminazione razziale. Questi spunti erano trattati con frequenza da inviati e commentatori, spesso con toni di preoccupazione e di critica per drammi che, apparentemente, erano sconosciuti alla società italiana; ciononostante, era sotteso a molti interventi un atteggiamento, se non di assoluzione, di comprensione di una realtà differente.
[NOTE]
1703 Un esempio della posizione più chiaramente “interventista” è H.M. Sptzer, “Presenting America in American Propaganda”, Public Opinion Quarterly, XI, 2, 1947, 213-221.
1704 Cfr. W.F. Wanger, “Donald Duck and Diplomacy”, Public Opinion Quarterly, XIV, 3, 1950, pp. 443-452. Alcune interessanti osservazioni sulle idee di Wanger e sul suo significato storico sono in D. W. Ellwood, “Il cinema e la proiezione del modello americano”, in Id., G.P. Brunetta (a cura di), Hollywood in Europa cit., pp. 26 e ss.
1705 È il caso dei lavori di M. Nacci, come L’antiamericanismo in Italia negli anni Trenta, Torino, Bollati Boringhieri, 1989, e “Contro la civiltà dell’abbondanza. L’antiamericanismo del PCI”, in E. Aga Rossi, G. Quagliariello (a cura di), L’altra faccia della luna cit., pp. 239-261.
1706 P.P. D’Attorre, “Sogno americano e mito sovietico…” cit., p. 32.
1707 In particolare, il libro tratto dalle sue riflessioni sugli Stati Uniti è Oh America, Milano, A. Mondadori, 1978.
1708 E. Bricchetto, La verità della propaganda. Il Corriere della Sera e la guerra d’Etiopia, Milano, Unicopoli, 2004, p. 176. Un’ipotesi interpretativa simile è proposta anche in R.F. Kuisel, Seducing the French cit., pp. 7-8.
1709 Per alcuni es. in proposito, cfr. spec. R. Campari, “Grattacieli e pellirosse” cit.
1710 Cfr. G. Piovene, “Sotto i grattacieli di Nuova Orleans il ‘Vieux Carré’ equivoco e vizioso”, Corriere della Sera, 8/VI/1951, p. 3.
1711 Corriere della Sera, 17/XII/1950, p. 3.
1712 “I milionari senza danaro”, Epoca, II, 30, 5/V/1951, p. 19.
1713 Id., “Americanizzarsi o morire?”, Epoca, II, 29, 28/IV/1951, p. 26.
1714 G. Piovene, “Va al lavoro col suo ‘yacht’ il vecchio emigrante italiano”, Corriere della Sera, 4/II/1951, p. 3.
1715 Id., “Un ‘grande’ italiano d’America ha creato e dato il nome a una città”, Corriere della Sera, 1/VIII/1951, p. 3. Sul tema delle opportunità professionali, cfr. “Perché in America non c’è una vera lotta di classe”, Corriere della Sera, 3/VIII/1951, p. 3.
1716 I, Montanelli, “Levittown, perfetta città creata da una ditta in tre anni”, Corriere della Sera, 15/III/1953, p. 3.
1717 A. Ruggiero, “Quello che spreca una famiglia americana”, Il Messaggero, 28/IX/1947, p. 3.
1718 G. Piovene, “Più automobili che famiglie a San Francisco”, Corriere della Sera, 25/VIII/1951, p. 3.
1719 Id., “Come il castello delle streghe il nuovo albergo di Cincinnati”, Corriere della Sera, 28/IV/1951, p. 3.
Andrea Mariuzzo, Comunismo e anticomunismo in Italia (1945-1953). Strategie comunicative e conflitto politico, Tesi di Perfezionamento, Scuola Normale Superiore – Pisa, 2006