Il problema della collocazione di Mussolini nel panorama divistico emerge nelle parole di Mino Argentieri, il quale, per riferirsi al dittatore, conia una categoria diversa – e gerarchicamente superiore – rispetto a quella di divo: il Duce sarebbe infatti il «protagonista superdivistico della comunicazione audiovisiva» <85. Meno conciliante con l’idea del duce-divo è la posizione di Rositi, che può convincere nel rilevare una diversa natura della narrazione della vita privata, rispetto a quella che caratterizza i divi cinematografici: “I duci e i dittatori non sono divi nel senso odierno, poiché dimostrano virtù e valori conformi al generale orientamento collettivistico (reale o voluto) della società: la loro vita sentimentale è pressoché occulta (…), la vita familiare messa ai margini e privata di mutevolezze emotive, la stessa carriera politica presentata al di fuori di ogni motivazione psicologica particolaristica. Gli attuali divi, al contrario, esibiscono, come è noto, qualità inerenti alla sfera privata, gusti ed idiosincrasie personali, sentimenti più che convinzioni; le stesse valutazioni morali che essi testimoniano riguardano generalmente la sfera delle relazioni interindividuali”. <86
Laddove il dittatore è protagonista di un’esistenza privata imperfettibile, il divo incarna una delle tante, possibili declinazioni di “personae” che i rotocalchi possono accogliere: se l’immagine del Duce è tanto più potente quanto si dimostra capace di rimanere fedele a se stessa e ai principi della nazione, d’altro canto il “collettivo” dei divi cinematografici assolverà al proprio compito di destare l’interesse degli spettatori quanto più sarà variegato e incline a rappresentare ogni “tipo” richiesto.
Cionondimeno, entrambi i soggetti condividono un’esistenza mediale, occupando letteralmente gli stessi schermi: Mussolini è il protagonista indiscusso dei cinegiornali LUCE che vengono obbligatoriamente proiettati prima di ogni film <87 e corrispondono a una polisemia ragionatamente strutturata <88: solo, essa è basata, nei due casi, su principi diversamente mutevoli.
La presenza del Duce è tuttavia solo uno degli elementi che rende più complessa la nascita di un nuovo divismo italiano negli anni Trenta e che renderà questo indirettamente “debole”, una volta generato. Un altro, rievocato già nel paragrafo precedente, è la competizione con il divismo d’oltreoceano.
Lo suggerirà l’attrice Elsa De’ Giorgi, chiamata a rispondere della statura del proprio (anti)divismo al magnetofono di Francesco Savio: «non dimentichiamo che cos’era Hollywood e come si formavano gli attori che ci venivano proposti. Quindi, quando facevamo del cinema, c’era in noi una modestia di partenza» <89. Tenuto conto che la modestia pare essere elemento imprescindibile di una certa retorica dell’antidivismo propria del contesto italiano non solo nell’epoca del Ventennio <90, in questo periodo, in cui i volti americani sono banditi dagli schermi e la produzione italiana è ancora atrofizzata, essa costituisce potenzialmente un problema oggettivo.
È possibile avere una divinità modesta?
Quando Elsa De’ Giorgi rilascia la propria intervista, Morin aveva già da vent’anni indicato come fondamentale il «processo di divinizzazione che subisce l’attore del cinema e che fa di lui l’idolo delle folle» <91 (definizione – forse superfluo segnalarlo – che nei tempi di cui ci occupiamo rimanda immediatamente la mente a una qualsiasi immagine del Duce osannato sul balcone di piazza Venezia). Andando a indagare le modalità con cui i fautori della rinascita del cinema in Italia e i principali critici che scrivono sulle pagine delle riviste specializzate immaginano si possa – o non si possa – inaugurare un divismo autarchico, notiamo che il terreno è alquanto instabile e, ancora una volta, contraddittorio. In alcuni casi, il divismo non è affatto indicato come un elemento necessario.
Guardiamo come si esprimeva a tal proposito Luigi Freddi nel proprio report a Mussolini – citato dallo stesso a memoria: “Bisogna quindi creare gli attori. Quando avrò detto che sarebbe assurdo indirizzare la cinematografia italiana verso il divismo, che sta per tramontare anche laddove è nato ed ha furoreggiato, si comprenderà che il problema non è insolubile e neppure difficile. Basterebbe seguire un metodo opposto a quello seguito sinora… E prediligere, quand’è possibile, l’avvento della massa, che conferisce al film un’etica corale, suggestiva e potente, facilmente asservibile al concetto moderno di una nuova cinematografia italiana”. <92
Freddi – il quale con discutibile lungimiranza preconizzava un’imminente morte del divismo americano e che con una certa leggerezza trattava il discorso sulle varie tipologie attoriali e sui divi come materia unica – auspicava una soluzione diversa rispetto a quella rappresentata dal divismo dei singoli, ipotizzando un’emersione della massa come reazione necessaria e virtuosa all’assenza di star.
Dalle sue considerazioni emergono alcuni aspetti interessanti: egli dimostra una tendenza – non esclusiva, ma che spesso si palesa nei suoi scritti – a considerare il cinema preferibilmente in termini artistici, ignorando in alcuni passaggi la natura di intrattenimento del medium, da cui il mancato riconoscimento del concreto potere e potenziale che il divismo poteva rappresentare nell’economia dell’industria cinematografica <93. Il punto di vista sul divismo è strettamente legato a una visione etica che fa da contrappunto all’intero ragionamento di Freddi e che fa pensare – il dubbio pare lecito – a un tentativo di “captatio benevolentiae” nei confronti del Duce – a quel momento divo indiscusso e solitario nel panorama italiano – a cui il report era destinato. Muovendo dall’esigenza di ampliare il pubblico in termini diastratici e dalla volontà di sconfiggere la reputazione di arte ancillare che il cinema ancora costituiva nell’ottica della classe media, Freddi affermava che proprio da questo bacino dovevano essere selezionate le nuove leve, al fine di operare una “moralizzazione” delle masse. È nella massa che il singolo deve riconoscersi, e non già in un volto, il quale quindi deve rimanere confuso in mezzo ad altri, tanti soggetti. Per quanto tali assunti pecchino di una qualche generalizzazione e non sembrino di facile applicazione, vengono in mente almeno due opere di Alessandro Blasetti che sembrano esemplarmente corrispondere agli auspici di Freddi: “1860” e “Vecchia guardia”, prodotte fra il 1934 e il 1935, sono epopee di un gruppo, di una collettività della quale ricordiamo qualche volto particolare – ad esempio quello di Ugo Ceseri nei panni del fascista ‘Marcone’ in “Vecchia guardia” – ma in cui non riesce di riconoscere un protagonismo assoluto (lo scarso successo di pubblico di “1860” sarà attribuito proprio a questo <94), se non, appunto, della collettività in sé. Non a caso i due film – che non fungono da veicolo di star – sono spesso annoverati fra le più valide opere di propaganda fascista; sorprende che “Vecchia guardia” non sia piaciuto proprio a Freddi, il quale tuttavia giustifica la delusione data dalla pellicola di Blasetti con l’incauto, cospicuo riferimento allo squadrismo fascista nelle sue declinazioni più violente e scomode.
Quella di Freddi non è l’unica testimonianza e, certamente, nemmeno l’unica posizione assunta nei confronti del divismo, che conosce un dibattito per la verità molto nutrito nella letteratura giornalistica dell’epoca.
[NOTE]
85 Mino Argentieri, L’occhio del regime, Firenze, Vallecchi, 1979, p. 61.
86 Franco Rositi, Personalità e divismo in Italia durante il periodo fascista, in «Ikon», n. 4, 1968 (già in «Ikon», 62, 1967), p. 27.
87 Sulla trasmissione mediale dell’immagine di Mussolini fra cinegiornali e radio, si veda il paragrafo Mussolini as Divo in James Hay, Popular Film Culture in Fascist Italy, cit., pp. 222-232.
88 Ci riferiamo ovviamente al fortunato modello formulato da Dyer. Cfr. Richard Dyer, Star, Torino, Kaplan, 2009 [ed. or. Star, 1979], p. 89.
89 Elsa de’ Giorgi in Francesco Savio, Cinecittà anni Trenta, cit., vol. II, p. 433. Corsivo nostro.
90 Per quanto riguarda il cinema italiano contemporaneo, rimandiamo a un saggio che tratta l’argomento nello specifico: Andrea Minuz, Il cinema italiano e la retorica antidivistica, in Id., Pedro Armocida (a cura di), L’attore nel cinema italiano contemporaneo. Storia, immagine, performance, Venezia, Marsilio, 2017, pp. 39-49.
91 Edgar Morin, I divi, Milano, Garzanti, 1977 [ed. or. Les stars, 1957], p. 40.
92 Luigi Freddi, Il cinema, cit., p. 23.
93 Cfr. Stephen Gundle, Mussolini’s Dream Factory, cit., p. 50.
94 Cfr. Gianfranco Gori, Alessandro Blasetti, Firenze, La Nuova Italia, 1984, p. 40.
Paola Zeni, Donne, attrici, dive: Luisa Ferida e Lilia Silvi sugli schermi dell’Italia fascista, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Verona, 2017