Cima e Albertazzi, infatti, rappresentavano le due anime della Resistenza valsusina, quella militare e quella politica

La Dora Riparia a Condove (TO). Fonte: Wikimedia

L’importanza strategica della Val di Susa risiedeva nelle sue vie di comunicazione che univano l’Italia settentrionale con la Francia e l’Europa occidentale. Essa era percorsa dalla linea ferroviaria internazionale Torino-Modane-Parigi e dalle due strade carrozzabili che raggiungevano i valichi del Moncenisio e del Monginevro facilmente accessibili e transitabili tutto l’anno <86. Per la presenza di quelle grandi vie transalpine l’area assumeva, nella politica di occupazione tedesca, una particolare importanza militare. Innanzitutto si voleva assicurare lo svolgimento regolare degli intensi traffici, in seguito allo sbarco alleato in Provenza del 15 agosto 1944, per difendersi da una probabile offensiva alleata proveniente dal territorio francese liberato. Per quei motivi la Val Susa fu presidiata con particolare attenzione dalle forza nazifasciste fin dagli inizi dell’occupazione. Inoltre le Alpi occidentali offrivano una ridotta potentemente fortificata lungo lo spartiacque su entrambi i versanti <87.
Dopo l’8 settembre le fortificazioni del “Vallo alpino” furono abbandonate. I militari in fuga lasciarono tutto: armi, munizioni, viveri, coperte, ecc. Le casermette diventarono presto meta di un continuo pellegrinaggio da parte della popolazione e dei primi resistenti che prelevarono tutto ciò che poteva servire alla propria causa. A Condove la popolazione giunse “con carri agricoli per prelevare paglia, fieno, avena in quantità; alcuni cercano strumenti musicali, altri viveri, abiti, oggetti in cuoio, legname, coperte, documenti; i ragazzi pensano a maschere antigas, cartoline, francobolli; il maestro Polti invita a raccogliere le “drappelle”: bandierine ricamate appese alle trombe; altri ancora riuniscono silenziosamente le armi abbandonate” <88. I tedeschi per arginare il fenomeno dei saccheggi si presentarono alla locale caserma dei Carabinieri minacciando di fucilarli tutti qualora non avessero posto fine alle spoliazioni. Solo l’intervento del Sindaco di Condove scongiurò l’avverarsi della minaccia, emanando un ordine alla popolazione di restituzione immediata del materiale trafugato dalle caserme in particolar modo riferendosi alle armi <89.
Ma la Val di Susa si impose all’attenzione della guerra partigiana anche perché in quella zona i ribelli passarono subito all’attacco in grande stile contro il nemico occupante che rispose attuando la politica repressiva dei rastrellamenti. Secondo la testimonianza di Bellone “in nessuna altra zona si compirono tanti e così gravi atti di sabotaggio, grandi e piccoli, fortunati o mancati, fin dagli stessi primi giorni della lotta di liberazione nazionale,
onde i tedeschi s’accanirono con particolare rabbia contro la valle, compirono continue puntate e incessanti rastrellamenti (il piccolo paese di San Giorgio nella media valle vide i tedeschi dieci volte nel giro di otto mesi), ed a partire dalla fine di dicembre insediarono in tutti i centri più importanti fortissimi presidi permanenti” <90. Proprio al gruppo di San Giorio, una delle prime bande partigiane che fu costituita su iniziativa dei comunisti della valle, si deve il primo sabotaggio di una certa rilevanza compiuto in valle: “il 20 settembre, nelle vicinanze del paese, i “ribelli” segarono i quattro montanti di un traliccio della linea elettrica ad alta tensione proveniente da Chiomonte abbattendolo sulla strada” <91.
Quei primi sabotaggi erano finalizzati a dare un segno della propria presenza, dell’esistenza di un ribellismo attivo contro l’occupazione, pur non creando subito una vera minaccia ai nazifascisti. Nel settembre del 1943 la Resistenza limitava la sua sfera d’azione al soddisfacimento dei bisogni vitali: procurarsi le armi, i mezzi di trasporto necessari per muoversi sul territorio, i viveri, cercare rifugi sicuri, stabilire contatti con le altre bande e con il Comitato di liberazione per coordinare le proprie azioni ed evitare pericolosi isolamenti, stabilire un rapporto costruttivo con la popolazione valsusina. Le prime azioni quindi, anche se modeste sul piano militare, erano indirizzate in questo senso: “azioni di molestia contro posti di blocco e caserme, colpi di mano per rifornirsi di armi e di materiali, atti di sabotaggio, imboscate” <92. Altrettanto importante era il recupero dei materiali da casermaggio come le coperte, i materassi, i capi di abbigliamento. Erano azioni la cui decisione era perlopiù spontanea e contraddistinta dall’iniziativa individuale, proprio perché in larga misura il movimento partigiano fu affidato “alle capacità autonome del singolo il quale fece la propria esperienza sul vivo delle situazioni particolari” <93.
Durante la sua fase neonatale la Resistenza era fortemente caotica e indisciplinata, perché caratterizzata dall’anarchia dei primi nuclei partigiani che agivano sul territorio in modo autonomo e senza un effettivo coordinamento per la mancanza o la debolezza di quegli organismi politici, come i Cln, che dovevano guidare e finanziare la lotta partigiana. Inoltre ad imbracciare il fucile fu comunque una minoranza che peccava di esperienza. La composizione eterogenea delle bande, in cui confluirono oltre ai militari anche i civili, fece emergere tutte le contraddizioni di gruppi armati che mancavano di una adeguata esperienza bellica. Alla scarsezza delle armi, che divenne cronica per tutti i venti mesi di lotta, si associò per molti l’incapacità del loro utilizzo. Se a quello si aggiunge la mancanza di addestramento per i civili e la mancanza di esperienza di guerriglia per i militi, si capisce come, nei primi mesi della lotta, la maggior parte delle bande si sciolse, o venne spazzata via dai rastrellamenti nazifascisti, o preferì rifugiarsi nell’inazione dell’attesismo. Solo le bande che poterono contare sulle capacità, l’intuito e la risolutezza degli uomini che ne erano a capo sopravvissero a quella iniziale selezione naturale.
Tra quei comandanti ci fu Felice Cima. Classe 1921, originario di Saluzzo (Cuneo), studente universitario appartenente all’8° reggimento Bersaglieri con grado di sottotenente, già combattente in Grecia, a seguito dello sbandamento dell’esercito affluì in Val di Susa alla fine di settembre, stabilendosi con i primi resistenti nelle baite di Mocchie, sopra Condove <94. Lì “porto, nell’adempimento della nobile missione, tutto l’ardore della sua anima generosa e della sua non comune prestanza fisica” <95, assumendo il comando del gruppo di resistenti che si erano rifugiati in quel vallone dandone una spinta decisiva all’organizzazione e alla solidità militare della banda stessa. Venne raggiunto all’inizio di ottobre da Marcello Albertazzi, il cui nome di battaglia era “Barba”. Classe 1908, bresciano, vecchio militante comunista che aveva combattuto fra i partigiani di Bagnolo (Val Germanasca) nel cuneese, era giunto all’inizio di ottobre sulle montagne tra Borgone e Condove, dove organizzò un gruppo che risultò essere uno dei più forti e attivi della valle. Uomo energico, risoluto, audace, pieno di ascendente sui suoi uomini, Albertazzi divenne in pochi giorni il comandante più in vista della Valle <96. I due capi banda si stanziarono nella stessa zona: l’area geografica in bassa Val Susa sulla destra orografica della Dora, compresa tra Condove, la Val di Rubiana, che collega la bassa Val Susa alla Valle di Viù attraverso il Col del Lys, e Val della Torre, area che divenne di competenza della 17a brigata Garibaldi “Felice Cima” a partire dalla primavera del 1944. Va detto però che per evitare di essere localizzati e spazzati via dalla soverchiante forza occupante, molte formazioni furono costrette a evitare di soffermarsi a lungo negli stessi luoghi. La mobilità oltre ad una strategia di combattimento diveniva ben presto la condizione essenziale di sopravvivenza per le formazione dei partigiani. Quindi la settorializzazione dell’attività partigiana, soprattutto nella sua fase iniziale, era un’operazione audace. Lo ricorda Cavaglion quando scrive che: “non vi è storico che possa restituirci l’atlante delle formazioni partigiane senza semplificare in qualche modo una realtà che mutava ogni giorno (…) nuovi ingressi, abbandoni, passaggi ad altra banda o trasferimenti in città.” <97.
La banda comandata da Cima diventò operativa verso la fine di ottobre. Fino a quella data Cima si era preoccupato di organizzare, addestrare e inquadrare i suoi uomini. Solo quando la preparazione della sua banda raggiunse un grado sufficiente egli passò all’azione <98. Dopo aver compiuto una serie di colpi finalizzati al recupero di viveri e armi, si segnalò con un’importante azione di sabotaggio alla condotta forzata di Venaus <99. Cima aveva compiuto quell’atto di sabotaggio per dimostrare di non essere un “attendista” (pare infatti che Albertazzi lo avesse accusato di “attesismo”) <100.
Alla volontà di condurre subito la lotta senza quartiere contro i tedeschi e i fascisti, propugnata da Albertazzi, e in generale dai singoli gruppi di resistenti della sinistra, contrastava la volontà di Cima di attendere di preparasi militarmente e organizzativamente allo scontro. Accadde dunque che la diversa caratterizzazione dei modi e dei tempi da assegnare alla lotta di liberazione privasse le due bande di una compatta fisionomia unitaria.
Cima e Albertazzi, infatti, rappresentavano le due anime della Resistenza valsusina, quella militare e quella politica. Inizialmente le relazioni fra i due non furono delle più cordiali. La conflittualità del loro rapporto rispecchiava quella intercorrente fra le bande “militari” e quelle “politiche”, e tra queste a quelle riconducibili al Partito comunista. Cima non era iscritto a nessun partito e, come la quasi totalità dei giovani cresciuti sotto il fascismo, non aveva nessuna preparazione politica: “aveva idee piuttosto vaghe sulla situazione italiana, ma in compenso, con tutto l’ardore della sua fiorente giovinezza, con lo slancio e l’entusiasmo dei suoi vent’anni, aspirava alla rinascita del suo paese, alla cacciata definitiva dei nemici esterni ed interni dal suolo italiano, un patriota nel senso più nobile della parola” <101. L’impegno di Cima nella lotta di Resistenza sottendeva la volontà di partecipare alla realizzazione di una nuova possibilità di vita che escludesse il fascismo, ma con idee vaghe sul futuro assetto politico del paese. Al contrario Albertazzi, fin dai primi giorni della sua attività in Val Susa, indirizzò l’azione della sua banda verso la lotta senza soste agli occupanti, secondo i dettami della politica attivista profusa dal Partito comunista. L’attivismo del “Barba” non era finalizzato solo alle azioni militari, ma anche alle lotte sociali. Il suo impegno a sostegno degli operai durante gli scioperi del novembre 1943 ne costituiva un esempio. Egli, in quell’occasione, organizzò uno sciopero alle officine Moncenisio e occupò la stazione ferroviaria di Condove per ostacolare il flusso di operai che ogni giorno dalla valle scendeva in città per lavorare <102. Inoltre, ad aggravare il difficile rapporto tra bande “militari” e quelle “politiche”, pesava l’esperienza negativa che Albertazzi aveva vissuto durante la sua attività resistenziale sulle montagne intorno a Bagnolo, quando era stato abbandonato con la sua banda nel corso di un rastrellamento tedesco dal locale Comando militare di sponda badogliana, costringendolo poi a rifugiarsi in Val di Susa. Da lì portò con sé una forte diffidenza verso le bande costituite da ex militari del disciolto esercito, tanto più verso il Comando militare della Val di Susa la cui direzione fu affidata al maggiore Liberti al cui fianco fu posto il tenente Ratti. Le diversità di opinione tra militari e politici allora manifestatesi continuarono a costituire materiale di discussione per molti mesi e, se alla fine trovarono una conciliazione, fu grazie all’opera condotta da Bellone e don Foglia che, appianando divergenze e incomprensioni, riuscirono ad ottenere dai due capi partigiani una leale collaborazione che durò fino alla loro precoce scomparsa <103.
[NOTE]
86 Maria Elisa Borgis, La Resistenza nella Valle di Susa, Edizioni Ca-Ma, Torino 1975, p. 11
87 L’attività di fortificazione italiana, avviata all’inizio degli anni trenta su tutto l’arco alpino occidentale, il cosiddetto “Vallo Alpino”, fu la risposta italiana ai lavori intrapresi in Francia per la costruzione della linea
difensiva Maginot. Costruita dai francesi a partire dal 1932, a protezione della propria integrità territoriale, la linea di fortificazione della frontiera prese il nome del Ministro della guerra in carica Andrè Maginot. La linea Maginot alpina fu caratterizzata dalla realizzazione di grandi complessi sotterranei d’artiglieria realizzati in cemento armato, ben armati e ottimamente equipaggiati, autosufficienti per vettovagliamento e capaci di ospitare tre-quattrocento uomini. Strutture che si differenziavano molto dalla tipologia difensiva adottata dagli italiani sulle stesse montagne. Il “Vallo alpino” infatti constava di una miriade di piccole casematte o malloppi di calcestruzzo non armato, a scapito della solidità delle strutture, inferiori anche nell’armamento alle opere francesi. Ciò evidenziava un divario tecnico, fra le due diverse tipologie difensive, a sfavore del “Vallo Alpini”. Si veda Dario Gariglio, Le fortificazioni, in Gianni Perona (a cura di), Alpi in Guerra 1939-1945, pp. 33,34,35
88 E. Lambert, A Condove negli anni della Resistenza, bollettino in Comunità parrocchiale S. Pietro di Condove, anno 10, n° 1, cit., p. 4
89 Piero Del Vecchio, Giorgio Jannon, Andrea Olivero, Emanuele Sarti, Un posto nella memoria. Condove e i condovesi negli anni della guerra 1940-1945, Editrice Morra, Condove 1995, p. 52
90 Aisrp, scaffale B, cartella 35, interno b, dattiloscritto sulla storia della Resistenza in Val di Susa, p. 3
91 Ibidem.
92 Luigi Longo, Un popolo alla macchia, Mondatori, Milano 1947, cit., p. 113
93 Guido Quazza, La Resistenza italiana, Giappichelli, Torino 1966, cit., p. 121
94 Felice Cima: nome di battaglia “Felice”, nato a Saluzzo (To) il 15.12.1921, residente a Torino in via Carlo Alberto 34, professione studente. Appartenente all’Arma della Fanteria 8° Reggimento Bersaglieri con grado di Sottotenente. Partigiano dal 09.09.1943 al 27.11.1943 nella banda “Cima” con grado di comandante di banda. Deceduto il 27.11.1943 in combattimento nei pressi di Condove; Marcello Albertazzi: nome di battaglia “Barba”, nato a Brescia (Bs) il 02.08.1908, residente a Condove (To). Partigiano dal 20.09.1943 al 27.11.1943 nella banda “Albertazzi” con grado di comandante di banda. Deceduto il 27.11.1943 in combattimento nei pressi di Condove…
95 Aisrp, scaffale B, cartella 35, interno b, dattiloscritto sulla storia della Resistenza in Val di Susa, p. 3
96 Ibidem.
97 Cavaglion, la Resistenza spiegata a mia figlia, cit., p. 49
98 Aisrp, fondo Nicola Grosa, scaffale BFG, cartella 8, interno 1, biografia di Felice Cima
99 Borgis, La Resistenza nella Valle di Susa, p. 25
100 Ivi, p. 29
101 Aisrp, scaffale B, cartella 35, interno b, dattiloscritto sulla storia della Resistenza in Val di Susa, p. 3
102 Ivi, p. 27
103 Sergio Bellone, Testimonianze 1933-1945, (a cura di) Sergio Sacco e Gigi Richetto del Centro studi “Virgilio Bellone” di Bussoleno, Tipolito Melli, Bussoleno 1995, p. 47
Marco Pollano, La 17a Brigata Garibaldi “Felice Cima”. Storia di una formazione partigiana, Tesi di laurea, Università degli Studi di Torino, Anno Accademico 2006-2007