Un cane andaluso di Luis Buñuel

Fonte: Wikipedia

A chi studia il rapporto tra cinema e letteratura, la carriera artistica di Luis Buñuel offre certamente una grande quantità di spunti interessanti. Avvicinatosi alla settima arte nel momento di passaggio dal cinema muto al sonoro, il regista spagnolo trova nel cinema di fine anni Venti l’ambiente ideale in cui esprimersi: i suoi esordi sono legati a un movimento d’avanguardia, il gruppo surrealista, al quale si ispirava già nei suoi scritti letterari, orientati in questa precisa direzione grazie all’influsso di Ramón Gómez de la Serna, scrittore spagnolo tra i più vicini alle avanguardie. La sua opera prima, il rivoluzionario cortometraggio “Un chien andalou” (titolo di una sua raccolta lirica inedita), marca il passaggio dalla letteratura al cinema, dando alla luce un’opera che si trova a metà tra la poesia e il cinema: con “Un chien andalou”, infatti, vero e proprio “poema in immagini”, Buñuel voleva esprimere la distanza che lo separava dalla poesia spagnola dell’epoca, maggiormente legata alla tradizione, che aveva come maggiore rappresentante l’amico e rivale Federico García Lorca, il quale, nel 1928, aveva pubblicato il Romancero gitano. Questo rapporto privilegiato con la letteratura (più della metà della sua filmografia è tratta da romanzi) e, in particolare, con la poesia (il manifesto della sua opera, si intitola, appunto, El cine, instrumento de poesía), segna tutta la sua carriera: a un cinema di prosa, come poteva essere quello realista, Buñuel preferisce un cinema di poesia, in grado di rendere conto delle molteplici dimensioni della realtà. Il legame con la letteratura si rivela, in particolare, nell’importanza fondamentale attribuita alla sceneggiatura: la sua stesura, nella quale il regista si fa sempre assistere da professionisti come Julio Alejandro e Jean-Claude Carrière, occupa gran parte del tempo a disposizione; una volta ultimata, invece, le riprese e il montaggio, veri e propri “accidenti” per il regista, si risolvono in poco più di tre settimane. […]
Stefano Stefanutto, Da Benito Pérez Galdós a Luis Buñuel: Nazarín (1958), Viridiana (1961) e Tristana (1970), Tesi di Laurea, Università degli Studi di Udine, Facoltà di Lingue e Letterature Straniere, Corso di Lingue e letterature moderne euroamericane, Accademico 2012-2013

[…] Abbandonata ormai la Residencia de Estudiantes di Madrid, dove i giovani Salvador Dalí e Luis Buñuel hanno stretto un’amicizia fraterna con il poeta Federico Garcia Lorca, i rapporti con quest’ultimo si sono ormai logorati. L’accoglienza trionfale riservata dalla critica al suo “Primer Romancero Gitano” non è condivisa dal futuro regista e dal pittore, che concepiscono il loro debutto su grande schermo in netta contrapposizione all’opera dell’ex compagno.
Ciò va tenuto ben presente, se si vogliono comprendere molti aspetti di “Un chien andalou”. A partire dal titolo: slegato, in piena tradizione surrealista, dalle immagini del film, è la traduzione in francese di “Un perro andaluz”, dalla raccolta di scritti che, realizzata da Buñuel contemporaneamente (tra il 1924 e il 1927) al “Romancero” di Garcia Lorca, ne rappresenta una sorta di negativo. E il “cane” in questione può essere un epiteto rivolto al poeta, che proviene dall’Andalucia (almeno, questi lo interpreta così e ne resta ovviamente offeso). A fronte di una poesia convenzionale, ricca di immagini splendenti, bucoliche e vitali, Dalí e Buñuel aspirano a un cinema rivoluzionario, concreto, prosaico, quasi funereo.
Dopo aver scritto in pochi giorni la sceneggiatura, a partire da due loro sogni, utilizzano le venticinquemila peseta offerte dalla madre del regista aragonese (e originariamente destinate a un lungometraggio, rivelatosi troppo dispendioso) per realizzare, a Parigi, il loro progetto. Per quanto non vogliano attribuirgli riferimenti culturali definiti, è altamente probabile che abbiano bene in mente il Primo Manifesto del Surrealismo e in particolare il tema della “bellezza convulsa” di Lautréamont.
La sequenza di apertura è tra le più celebri della storia del cinema. Su quella nuvola e quell’occhio tagliato si sono gettati fiumi di inchiostro. Si può speculare a lungo sulla luna foriera di sventura, sull’atto del taglio quale simbolo di iniziazione, o di castrazione, sulla necessità di guardare oltre la superficie delle cose, per addentrarsi nei meandri dell’inconscio. In effetti la presenza dello stesso Buñuel nelle vesti dell’attore che impugna la lama (l’occhio tagliato è invece quello di un vitello), nonché il montaggio relativamente classico della prima scena, contrapposto a quello più libero (per quanto ispirato al concetto di “fotogenia” che il regista riprende da Jean Epstein, di cui è stato assistente) del resto del film, rafforzano quest’ultima tesi. Tuttavia, il rimando è ancora una volta a Garcia Lorca: la luna compare in una poesia del 25, dedicata al regista aragonese ed è preponderante in tutta la produzione lorchiana: la cesura effettuata da Buñuel tramite la nuvola è di per sé eloquente.
Inutile raccontare la trama del film: essa si snoda grazie al sintagma surrealista della “concatenazione”, semplice giustapposizione di elementi incongrui, e procede per analogie, associazioni e dissociazioni, contrapposizioni, volte a creare un effetto straniante. Quest’ultimo è ottenuto con espedienti quali dissolvenze, rallenty, sovrapposizioni, presenti tuttavia in misura limitata rispetto alle coeve opere di avanguardia. Nei successivi film del regista verranno ulteriormente depurati. Le brevi sequenze narrative che sembrano avere una logica, hanno l’unica funzione di accendere pulsioni erotiche e di morte sullo spettatore, con le seconde a prevalere sulle prime.
L’obiettivo è scardinare le convenzioni in vigore nel cinema (e nel romanzo) dell’epoca. Quelle temporali vengono sovvertite dalle cinque didascalie del film: non tanto dalla prima (“C’era una volta”, quasi a prepararci a un mondo fiabesco per poi catapultarci in un autentico incubo), quanto dalle altre quattro: “Otto anni dopo”, ma la stessa donna dell’incipit ha i due occhi perfettamente sani; “Verso le tre del mattino”, inserita tra due sequenze che non sembrano affatto temporalmente discontinue, “Sedici anni prima”, idem; “In primavera”, ma potrebbe essere in qualsiasi momento. Anche la coerenza spaziale viene meno, come nell’emblematica scena in cui la ragazza esce di casa per ritrovarsi in mezzo a una spiaggia.
Quest’ultima è una citazione da “La palla numero 13”, in cui Buster Keaton apre una cassaforte che porta dritta a una strada trafficata. E non è l’unica, poiché Buñuel è un estimatore del comico americano e dirige l’attore protagonista, Pierre Batcheff , in modo tale che ne ricalchi la gestualità. Anche la passeggiata sulla spiaggia di una delle ultime scene è uguale ma speculare a quella che vediamo in un altro film di Keaton, “Il cameraman”.
Chi conosce l’opera del pittore surrealista belga René Magritte ritroverà, inoltre, una citazione letterale del suo quadro “Oscuro sospetto”, che apre una delle scene più celebri, inquietanti e a loro volta citate di “Un chien andalou”: quella in cui la mano di Batcheff si riempie di grosse formiche (curiosità: gli insetti provengono dalla Sierra Gaudarrama e vengono inviati sul set in un pezzo di tronco d’albero, debitamente impacchettato).
Insomma, gli autori ci presentano la loro opera come se fosse realizzata con il preciso intento di non obbedire ad alcuna regola se non a quelle dell’inconscio, ma non ce la raccontano giusta, come testimoniano i ripetuti riferimenti ad altri artisti.
[…] La prima del film avviene nel settembre del 1929, davanti a una platea d’eccezione (comprendente, tra gli altri, Picasso, Le Corbusier e Cocteau), che ne rimane positivamente colpita. Breton, entusiasta, accoglie i due autori nel movimento surrealista e a sorpresa il film, concepito con il preciso intento di non attrarre, di disturbare, di sconvolgere, ottiene anche un notevole riscontro di pubblico. Secondo Ado Kyrou, ciò è dovuto al notorio masochismo dei borghesi.
A distanza di ottant’anni, mantiene intatta la sua forza perturbante e rimane un corto di grande importanza, anche se, più che altro, nell’ambito del cinema muto (verrà sonorizzato nel 1960 a partire dalle musiche utilizzate nelle prime proiezioni: Wagner e tango argentini) e soprattutto delle avanguardie cinematografiche e dell’intero surrealismo.
Inoltre, ha il grosso merito di aver spianato la strada a uno dei più grandi registi del cinema, che tornerà spesso e volentieri a mostrarci preti, poliziotti, bestie, mani mozzate, strumenti musicali, aggiungendo al tutto massicce dosi d’ironia. […]
Claudio Zito, Un Chien Andalou di Luis Buñuel, Onda Cinema, 31 luglio 2008

[…] Conoscendo l’intera storia dietro la creazione narrativa del film, non possiamo che comprendere come non potesse essere altro che un film poetico e irrazionale. La sceneggiatura è stata scritta a quattro mani, se da un lato troviamo il cineasta francese Luis Buñuel, che realizzò in seguito solo un’altra opera appartenente al surrealismo francese intitolata L’age d’or (1930), dall’altra parte abbiamo il famoso pittore surrealista Salvador Dalì nelle cui opere appare evidente una forte presenza dell’inconscio. Il tutto inoltre, come ha dichiarato il regista francese, è nato da un incontro e da due sogni, del resto la storia e l’aspetto visivo e spaziale risente piuttosto in maniera onnipresente questa componenete trasognante.
Giunto a Figueras da Dalì, invitato a passare qualche giorno gli raccontai che avevo sognato da poco una nuvola lunga e sottile che tagliava la luna e una lama di rasoio che spaccava un occhio. Lui mi raccontà che la notte prima aveva visto in sogno una mano piena di formiche. Aggiunse: e se dai due sogni ne ricavassimo un film?
Luis Buñuel – La medicina della mente. Storia e metodo della psicoterapia di gruppo p. 57
Da questo sogno sono state estrapolate due scene iconiche della storia del cinema, come l’incipit narrativo del cortometraggio che diverrà una delle scene iconiche del cinema mondiale divenendo materiale di studio e di riferimento per molteplici registi. Siamo in un atmosfera notturna, un uomo dietro a un balcone sta affilando una lama di un rasoi per poi scrutare l’esterno dal vetro della finestra, fuori c’è la luna piena e una nuvola leggera e sottile si sta avvicinando per passargli sopra. Con uno stacco siamo su un primissimo piano di una ragazza con occhi spalancati che guardano il la luna. Il cineasta si riconcentra sul cielo notturno e sulla nuvola che sta attraversando il satellite terrestre con uno splendida dissolvenza piena di poesia si sposta sullla mano di un uomo che apre un occhio della giovane per poi sezionarglielo con un taglio netto con la lama del rasoio. Questa scena non ha tanto un valore connesso alla drammaturgia mostrata in Un cane andaluso, ma è un presa di posizione sociale sul cinema stesso, affermando come il nuovo cinema d’avanguardia possieda un nuovo punto di vista, uno sguardo che sorvoli e penetri in tutte le frontiere esterne e interiori dell’anima, affermando l’importanza stessa del cinema intima e rivolto all’essenza dell’individuo. Possiamo asserire che il cineasta sia andato a rifiutare la visione freudiana, che imponeva agli uomini di chiudere gli occhi, piuttosto Buñuel vuole che lo sguardo sia ben aperto e che sia in grado di scorgere e di scoprire e vedere anche il mondo inconscio e irrazionale che fino a ora era stato completamente cancellato e nascosto all’interno dell’arte cinematografica. Il regista francese asserisce con questa immagine il suo pensiero filosofico e la sua estetica dell’epoca di mostrare l’inconscio degli uomini attraverso i la riproduzione visiva dei sogni.
Il mondo e il rapporto del cinema con il suo pubblico non sarà più il solito dopo questa scena poiché il regista ha deciso di alzare il velo del razionale e di squarciarlo mostrando all’uomo una visione intimistica e personale.
Struttura e significato di Un chien andalou
Per realizzare la sceneggiatura di Un cane andaluso, Dalì e Buñuel, impiegarono solo una settimana e per effettuare le riprese solamente quattordici giorni. Il cortometraggio segue una struttura per intervalli temporali che vanno a scandire la vita della coppia, in questo senso le uniche didascalie che troviamo all’interno dell’opera sono di localizzazione temporale e non spaziale: C’era una volta, otto anni dopo, circa alla tre del mattino, sedici anni prima e in primavera.
Gli attori della storia principale sono i due francese, Pierre Batchef e Simone Mareuil mentre nella prima parte, la scena del taglio, il protagonista è lo stesso Buñuel, che dà alla scena ancor di più in importanza d’estetica artistica e filosofica.
La storia ha inizio con un uomo che va in bicicletta con indosso un vestito piuttosto singolare e femminile, sul busto dell’uomo è situata una borsetta/scatola a riga con una serratura. Attraverso un montaggio alternato facciamo la conoscenza di una donna che sta leggendo una pagina de La merlettaia di Vermeer, un testo simbolo della femminilità tradizionale di sottomissione casalinga. La ragazza scruta l’uomo dalla finestra scorgendolo cadere in terra e rimanere immobile al suolo. Lei gli va in soccorso baciandolo. Ritornata a casa la donna apre la scatola scorgendo al suo interno una cravatta a righe a sua volta avvolta in una carta a righe, che va a mettere in un colletto di cartone e va a posizionare con cura i vestiti dell’uomo ricreando, sul letto, la figura dell’uomo con gli abiti distesi.
Lei si siede su una sedia fissando il letto finché non si accorge della presenza dell’uomo all’interno della stanza, il quale è intento a scrutarsi la mano da cui stanno fuoriuscendo delle formiche ( immagine proveniente dal sogni di Dalì). La stessa donna si avvicina all’uomo e lo spettatore rintraccia immagini esplicitamente sessuali in cui viene usata l’immagine di un riccio di mare come paragone alla peluria di un ascella.
Da questo istante la storia si fa sempre più confusa, simbolica e trasognante. L’attenzione dei due viene catturata da un personaggio androgino che pur essendo vestito da uomo ha dei tratti fortemente femminili che sta giocando per strada con un bastone con cui tocca una mano mozzata, tenendo però nell’altra mano la stessa scatola a righe posseduta dall’uomo, che potrebbe rappresentare una proiezione della femminilità interiore presente nel primo uomo. L’uomo prima è avvolto dalla folla poi rimane da solo fino a quando non viene investito da una macchina. La storia ritorna sul protagonista maschile che dalla finestra si sposta sulla donna con uno sguardo da predatore animalesco, l’uomo è in preda a un raptus sessuale e prende con forza la donna toccandole i seni che andrà a immaginarseli completamente nudi, come nota lo spettatore. Alla fine la donna riesce a scappare fino a quando rimane inchiodata in un angolo della casa con una racchetta in mano. L’uomo la vuole ma non può raggiungerla, per farlo deve obbligatoriamente prendere due corde e trainare uno strano e simbolico fardello che rappresenta la religione e i suoi ostacoli verso la libertà del corpo e della sessualità, non per caso troviamo ad appesantirlo nella sua marcia: le tavole dei dieci comandamenti, due pianoforti con sopra un asino e infine due preti, uno dei quali è stato personificato da Dalì stesso, benchè per pochi secondi. La giovane però riesce a fuggire dall’uomo bloccando la mano di lui con la porta.
Successivamente la donna lo vede malato nel letto con addosso la scatola a righe, qui fa la comparsa un altro uomo che altro non è che un doppione del protagonista, che si va ad avventare contro il sé malato. La lotta si fa furiosa fino a quando l’uomo strappa dall’alter ego malato la scatola e gli accessori facenti parte della sua vita passata o parallela, andandolo a buttare dalla finestra. Infine prima che l’alter ego riesca ad andare via, l’uomo gli spara e questo prima di morire si trasporta in un altro luogo dove si aggrappa per un breve tempo a una schiena di donna nuda. L’uomo liberato passeggia allora all’aperto con un amico e viene invitato a vedere l’uomo ucciso, che viene poi portato via in una sorta di corteo funebre.
La giovane ritornata a casa trova sul muro un simbolo macabro proveniente dalla farfalla Sfinge testa di morto. Ricompare l’uomo che però ha perduto la bocca e al suo posto ha i peli dell’ascella di lei, la donna se va offessa ed esce di casa, qui lo spazio geografico si disfà e va direttamente al mare, qui è lei che sta ricercando l’uomo ma lui appare pittusto distaccato fino a quando lei lo bacia. Camminando lungo mare la donna e l’uomo notano i resti della loro vita passata scansandoli e ridendoci sopra avvicinandosi ad un finale felice, ma proprio nell’ultima scene li vediamo sepolti sotto la sabbia, vicino ma lontani in un aspetto piuttosto triste e depresso.
Stefano Del Giudice, Un chien andalou – Un cane andaluso: Sogno e pulsioni nel corto di Luis Buñuel, L’occhio del cineasta

[…] L’ispirazione per Un Chien Andalou ha avuto inizio con i sogni di due uomini, due artisti e due amici. Luis Buñuel e Salvador Dalì che cominciarono a lavorare su una sceneggiatura partendo da dei loro sogni passati. Realizzato nel 1929, il film non è invecchiato affatto. Le sue scene e le immagini sconnesse e ossessionanti sono ancora oggi scioccanti come lo erano di sicuro all’epoca in cui il cortometraggio uscì.
Un chien Andalou, una pellicola potente!
La ragione per cui la pellicola è così potente ancora oggi può risiedere nei temi di amore, sesso, morte e decadimento che sono eterni e attireranno sempre artisti e pubblico. Le immagini che vedrete in questo film sono apparentemente senza connessione, un flusso ininterrotto che forse vi ricorderà il mondo dei sogni con tutti i suoi significati psicologici profondi. La prima scena vi colpirà con tutto il suo orrore. Il regista, Luis Buñuel si avvicina a una donna con un rasoio e, tenendole un occhio ben aperto, lo taglia in due. Ovviamente la scena è un fotomontaggio e l’occhio tagliato è quello di un vitello morto, ma questa immagine racchiude in sé la missione rivoluzionaria del surrealismo che intendeva squarciare l’occhio dello spettatore mostrandogli tutto quello che non aveva mai visto prima o che non aveva mai voluto vedere.
Le didascalie che compaiono durante il film seguono lo scopo surrealista e quindi non hanno nessun nesso con le immagini. L’unica cosa che emerge chiaramente è il tema di fondo e cioè l’attrazione erotica profonda e violenta tra un uomo e una donna. Il sogno sembra provenire dalla mente dell’uomo mentre la donna lo osserva, lo aspetta e lo cerca, ma quando lui si avvicina, lei lo respinge disgustata. Una curiosità: Un Chien Andalou è citato in moltissimi film, tra questi gli esempi più eclatanti sono Il silenzio degli innocenti di Jonathan Demme e Io ti salverò di Alfred Hitchcock. Inoltre la rock star e icona David Bowie nel suo tour del 1976, usò il cortometraggio surrealista come apertura per i suoi concerti. […]
Luis Buñuel e Salvador Dalí, un chien Andalou, Artesplorando, 6 maggio 2020