Parigi mi appariva in una luce ormai provvisoria e tediosa

 

Risalgono al 1952-1953 i primi tentativi letterari di Filippini testimoniati dal romanzo incompiuto Gloria di Enrico Frescura, in cui emerge la crisi esistenziale e identitaria di «E.F.», alter ego di Enrico, invischiato a causa della famiglia in una vita comoda che non sembra appartenergli. Dietro al titolo Frescura potrebbe celarsi un «omaggio indiretto a Max Frisch (Frisch[e] appunto “frescura”)» (Bianconi 2019, 20n, che osserva: «Le prime opere di Frisch (ad es. i Blätter aus dem Brotsack [Fogli dal tascapane]) erano presenti e lette in casa Schmidhauser a Losone»), autore che per Filippini assumerà ben presto l’importanza di un «padre putativo» (Bosco 2015a, 14). Sulle tracce di Frisch e degli altri autori scoperti nella biblioteca del suocero, Filippini approfondì i suoi interessi per la cultura tedesca con alcuni soggiorni a Berlino e a Zurigo.
Il Ticino offrì dunque incontri e occasioni che furono di stimolo al desiderio di conoscenza del giovane Filippini e che infine lo indussero, insieme a motivi familiari, a spingersi oltre le frontiere per cambiare una vita che lo rendeva insoddisfatto. Nonostante «quest’orbita tedesca già tracciata» (Filippini 1986, 115), optò infine per Milano, realizzando il desiderio giovanile, fermamente ostacolato dal padre, di «interrompere gli studi magistrali per iscriversi all’Accademia di belle Arti di Brera» (Bosco 2015a, 17).
Marino Fuchs, La traduzione come militanza letteraria, Passione culturale e mestiere editoriale in Enrico Filippini, Tradurre. Pratiche, teorie, strumenti, n° 19, 2020

Nel mio contributo mi concentrerò sui presupposti che portarono Enrico Filippini a lasciare la Svizzera, provando a ricostruire una realtà almeno in parte distorta da punti di vista segnati dall’ideologia <1, che hanno fatto di lui una vittima o un perseguitato.
L’esigenza di Filippini di lasciare la famiglia e il paese d’origine, di andare oltre le frontiere, di confrontarsi con il mondo più vasto e “vero” è il dato di fondo positivo e innegabile, ma certamente privo di qualsiasi connotazione politica. È possibile ricostruire i prodromi e le motivazioni profonde di questa scelta esistenziale decisiva sulla scorta di documenti d’archivio sinora ignorati o trascurati dagli studiosi della materia. Il termine ad quem della mia ricerca è il 1953-54, anno in cui Filippini divorziò dalla moglie Ruth Schmidhauser, lasciò la famiglia e Losone e partì per Milano.
Il documento più significativo si trova in questa biblioteca nel fondo Filippini (AF, Testi e frammenti narrativi, 6.1.1) ed è l’abbozzo di un romanzo incompiuto in otto (o forse nove) capitoli, che sulla copertina reca la scritta «Losone 1952 o 1953» di mano dell’autore. Sono centosessanta cartelle in prevalenza autografe e altre dattiloscritte, queste ultime numerate da Filippini, dal titolo definitivo Gloria di Enrico Frescura. Ci sono due varianti del titolo cancellate da lui: Esempi del modo di vivere del giovane Enrico Frescura, e Modo di vivere del giovane Enrico Frescura, scrittore.
L’importanza dell’inedito sta nella data di redazione, antecedente la partenza per Milano, e nell’indicazione Losone, suo luogo di residenza nella casa dei suoceri: si tratta quindi di un documento notevole, in “tempo reale”, autentico, un testo chiave per conoscere aspetti sinora ignoti dell’infanzia e dell’adolescenza di Filippini e i motivi che l’hanno spinto a lasciare il Ticino.
[…] La seconda premessa: nel libro di Volonterio il Ticino è definito provincia «culturalmente debole», «impigrita», e la Svizzera paese «claustrofobico», «uggioso»: sono questi i due luoghi «invivibili » dai quali, secondo la pubblicistica ideologica, all’inizio degli anni Cinquanta Enrico Filippini sarebbe stato costretto a fuggire.
Le cose stavano davvero in questi termini? È indubbio che, negli anni del secondo dopoguerra, Locarno e i suoi abitanti erano ovviamente provinciali, come lo erano del resto tutte le cittadine e i borghi dell’Italia settentrionale: ricchi tuttavia di una dignità e un’attenzione innegabili nei confronti della cultura e dell’arte, virtù non molto diffuse in quegli anni <2. Durante la stagione turistica, a Locarno si svolgeva uno dei primi “Festival del film” del mondo, nato nel 1946 come quello di Cannes. Nel resto dell’anno era attivo il “Circolo delle arti” con programmi non banali: film di grandi registi del cinema mondiale in versione originale, mostre di giovani pittori ticinesi e lombardi; concerti di musica cameristica, serate di letture poetiche. In quegli anni nacquero ad Ascona le “Settimane musicali” fondate dal compositore Wladimir Vogel, ospiti, tra gli altri, artisti come Gieseking, Menuhin, Backhaus, Klemperer.
Sempre negli anni Cinquanta lo storico dell’arte Virgilio Gilardoni, residente a Locarno, allestì alcune grandi mostre innovative, per esempio quella dedicata al già ricordato Giovanni Serodine, e quella dell’arte popolare nel Ticino. Ad Ascona, infine, si tenevano i “Colloqui di Eranos”, presenti C.G. Jung e altri grandi protagonisti della cultura europea, che anche Filippini frequentava. Decenni più tardi egli espresse nel contributo per una miscellanea <3 la sua gratitudine a due docenti della scuola magistrale di Locarno da lui frequentata, che gli avevano fatto scoprire il mondo della cultura e del simbolico. In altre parole, i giovani locarnesi degli anni Cinquanta potevano trovare anche nella loro provincia «impigrita», occasioni e spunti validi per aprire le menti oltre le frontiere di ogni genere e scoprire nuove dimensioni.
La conferma, finora poco nota, della partecipazione attiva di Filippini a un evento culturale locarnese, l’ho trovata nella serie di ampi servizi dal “Festival del film”, da lui firmati, apparsi nel quotidiano del partito liberale radicale «Il Dovere», con l’analisi dei film in programma dall’1 al 12 luglio 1954. In questi articoli non c’è ombra di situazioni problematiche o critiche: tutto sembra scorrere tranquillo nella mitica cornice del parco del Grand Hotel, non emerge alcuna censura dell’ambiente locarnese pigro e sciatto.
L’unica polemica concerne invece un brutto film italiano, La grande speranza, che Filippini definisce una «ipocrita e ributtante esaltazione nazionalistica e retorica della marina italiana durante l’ultima guerra, un’indecenza».
[…] Le parole e gli apprezzamenti di Filippini sono chiari, univoci e non richiedono commenti: in nessun caso, comunque, sembrano formulati da qualcuno che in quegli anni vive male nel proprio paese «bieco e odioso» e dal quale si sente costretto a fuggire.
Queste citazioni suggeriscono inoltre un appunto metodologico: l’esigenza che le affermazioni segnate dall’ideologia, soprattutto se formulate parecchio tempo dopo gli eventi, siano contestualizzate ed evitino generalizzazioni astoriche, estendendole a epoche diverse, al fine di documentare una tesi. In questo caso concreto, le accuse alla Svizzera degli anni Cinquanta, che avrebbe soffocato e nauseato il giovane Filippini, costringendolo alla fuga «con un atto di coraggio e di sopravvivenza».
Anche la lettura dell’inedito frammento narrativo Gloria di Enrico Frescura smentisce questa tesi. Il racconto autobiografico in divenire e non concluso mette a fuoco la crisi esistenziale dell’autore, il suo difficile, sofferto e invivibile rapporto con la famiglia, la delusione dell’ambiente sociale, i ricordi della prima infanzia, i suoi progetti impossibili di vita e di scrittore. Sono centrali e reiterate le domande: «Chi sono? Cosa sono? Posso essere qualcuno?», mentre non v’è traccia alcuna di problemi d’ordine politico legati al fatto di essere cittadino elvetico.
Altri temi presenti nel frammento interessano solo marginalmente il nostro discorso: gli amici e i compagni di lavoro di Frescura, una galleria anticipatrice dei vitelloni felliniani, perdigiorno scansafatiche, di casa nei bar, dediti a sbornie e ad altri vacui passatempi, con l’unico progetto di farsi l’auto per rimorchiare cameriere. Per costoro la donna non è che un oggetto sessuale: la «roba» o «la cosa» da «far fuori». Enrico Frescura ha atteggiamenti e comportamenti ambigui: da un lato si sente affascinato, coinvolto e complice, dall’altro è nauseato e deciso a chiudere. Sono due i modelli estremi che, per ragioni diverse, gli è impossibile imitare: Max, l’uomo di successo, e il Buletti, lo zotico sessista. Enrico Filippini fa, senza saperlo, esattamente come fa Federico Fellini, che scrive nello stesso 1953, anno di uscita de I vitelloni: «Se vorrò continuare il mio lavoro sarò costretto ancora una volta a tradirli, come ho fatto da ragazzo quella volta che una bella mattina ho preso il treno e me ne sono andato in città» <4.
Senza alcun dramma né vittimismi persecutori, sia Fellini sia Filippini che non si conoscevano, prendono la stessa decisione, lasciano il paese e vanno in città.
In seguito, il primo vent’anni dopo in Amarcord, rievocherà le proprie origini, tra amore e odio, giudizio, nostalgia e complicità; il secondo, alla vigilia della morte, ritornerà sui luoghi mitici dell’infanzia e scriverà L’ultimo viaggio.
È anche da ricordare il tema del lavoro di impiegato, odiato e insopportabile per Enrico, e sono pure centrali e ricchi di molte implicazioni autobiografiche i temi della donna e del femminile in genere, della sessualità e dell’erotismo, che tuttavia non toccherò né tanto meno approfondirò in questa sede. Mi occuperò invece dei temi della famiglia, dei rapporti conflittuali con il padre e la madre, dell’infanzia e dei suoi miti, della lotta intellettuale e culturale di Enrico con se stesso e con l’ambiente locarnese. […]
[NOTE]
1 Vedi il volume, programmaticamente a tesi sin dal titolo, di G. Volonterio, Il delitto di essere qui. Enrico Filippini e la Svizzera, Feltrinelli, Milano 1996. È diversamente impostato il saggio di A. Bosco, Enrico Filippini e il Ticino, in «Il Cantonetto», a. LXII, n. 1-2, 2015, pp. 14-23, che alla radice del rapporto conflittuale di Filippini con la Svizzera vede «alcuni nodi cruciali del pensiero contemporaneo quali identità, differenza e sradicamento» (p. 21).
2 Vedi Fermenti culturali nel Ticino degli anni Cinquanta, Atti del seminario Bellinzona 27 marzo 2004, con contributi di S. Bianconi, G. Pedrojetta, D. Baratti, M. Dell’Ambrogio, S. Gilardoni, S. Soldini, N. Navone, R. Ceschi, in «Archivio Storico Ticinese», n. 136, 2004, pp. 169-286.
3 E. Filippini, Stappare le orecchie, in Associazione degli scrittori della Svizzera italiana, Per gli ottant’anni di Piero Bianconi, Pedrazzini, Locarno 1979, pp. 99-103.
4 F. Fellini, L’arte della visione. Conversazioni con Goffredo Fofi e Gianni Volpi, Donzelli, Roma 2009, p. 70.
Sandro Bianconi, Un intellettuale oltre le frontiere. I prodromi in (a cura di) Massimo Danzi e Marino Fuchs, Enrico Filippini a trent’anni dalla morte. Scrittura, giornalismo, politica culturale nell’Italia del secondo Novecento, Mimesis, 2019

Per comprendere l’utilità di uno studio globale dell’Archivio Filippini porterò alcuni esempi relativi al biennio 1961-1962. All’epoca Filippini aveva tradotto su richiesta di Enzo Paci, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale di Edmund Husserl per Il Saggiatore (1961), ed era già stato nominato consulente per la letteratura tedesca da Feltrinelli, balzando agli onori delle cronache letterarie per la traduzione e l’importazione de Le congetture su Jackob di Uwe Johnson (1961). Inoltre, si apprestava a introdurre in Italia l’opera di Günter Grass, nonché la “nuova letteratura tedesca” tramite l’antologia Il dissenso (1962). <13
Dal settembre 1960 soggiornava a Parigi dove seguiva, grazie a una borsa di studio svizzera, i seminari di specializzazione di Merleau-Ponty e di Paul Ricoeur.
I carteggi forniscono numerosi spunti per legare il lavoro creativo al lavoro editoriale. Negli epistolari, motivi professionali e personali sono spesso legati tra loro, testimoniando così una militanza culturale di Filippini a tutto tondo.
Una lettera scritta a Paci nel febbraio del 1962, permette di ricostruire la temperie del biennio:
ma Parigi mi appariva in una luce ormai provvisoria e tediosa… E lì, indugiando nei caffè, sempre il Flore, mi sono messo a leggere un libro per diver timento: erano i giorni in cui la sola idea di prendere la penna in mano, di leggere Wittgenstein o che so io mi riempiva di nausea. Il libro era” L’auto-analyse de Freud”, molto noioso ma per me rivelatore…
Ho avuto qualche brividuccio, avevo finito per vedere convalidata la mia impressione che l’attività poetica avesse valore di auspicio, di vaticinio, oltre che terapeutico…
E poi, temo verrò a Milano stabile, a finire i lavori. Per quanto sia un po’ perplesso: ho paura che a Milano il lavoro editoriale mi assorba troppo, che non mi resti il tempo per scrivere abbastanza. E sarebbe proprio peccato: perché  adesso tutto matura…
Inoltre ho fatto un errore: ho messo in giro un mio racconto (una cosa molto marginale, un esperimento di punteggiatura) e adesso tutti mi chiedono racconti, romanzi, gli editori mi telefonano, come se avessi scritto chissà che… <15
Colpisce la descrizione della vita parigina, con gli indugi nei caffè, dove F. affronta letture diverse da quelle previste dagli studi. Vedremo in seguito come l’inclinazione all’indugio si riveli decisiva e come tale dato autobiografico entri nei suoi racconti. Emergono i timori per il definitivo trasferimento a Milano e l’impiego a tempo pieno nel lavoro editoriale, che avrebbe potuto distoglierlo dalla scrittura dei saggi. Infine, si ha notizia di un primo tentativo di racconto fatto circolare, e giudicato dall’autore «una cosa molto marginale, un esperimento di punteggiattura» nonostante la ricezione positiva che sembra aver conosciuto.
[NOTE]
13 In questi anni l’importazione di un certo tipo di letteratura straniera diventerà per la Feltrinelli una strategia volta a legittimare lo sperimentalismo della neoavanguardia italiana che gravitava intorno alla rivista «il verri», passata proprio nel febbraio 1962 sotto l’egida della Feltrinelli
15 AF. Carteggi. 2.2.36 Lettera di Enrico Filippini a Enzo Paci, Parigi, 1962.
Marino Fuchs, Oltre l’indugio: l’Archivio Enrico Filippini, tra militanza culturale e ricerca della verità in Rivista svizzera delle letterature romanze, 60 (2013), Fascicolo italiano. Autrici e autori della Svizzera italiana nel secondo novecento

Ancora, il criterio della lettura «per differenza» fa risaltare, nel campo della prosa, traiettorie divaricate e concorrenti: l’«esercizio esistenziale di verità assoluta» o la «richiesta metafisica a se stesso» di Filippini versus la coppia Manganelli/Arbasino, con le rispettive e diversamente manovrate «poetiche del falso» (p. 233 della dispensa).
Fin qui il punto d’arrivo di un’amicizia che risale – il dato è noto – ai primi anni Sessanta. Incrociando le testimonianze epistolari degli archivi di Pavia e di Locarno, non molte per la verità, è possibile ripercorrere alcune tappe di un lavoro comune <11.
Pavia conserva quattro lettere di Filippini a Giuliani (tre del 1964-1965 e una del 1970); altre quattro di Giuliani, non tutte responsive, sono a Locarno (tre del 1965 e una del 1977). La forcella compresa tra 1964 e 1965 si riferisce alla gestazione del secondo numero di «Grammatica» sul teatro, pubblicato nel 1967 con testi di Manganelli, Balestrini, Malerba e dello stesso Filippini (si tratta di Flettere Flettere amore e di una traduzione da Grass) <12. Nello stesso anno esce anche il numero del «verri» sul Teatro come evento (a cui partecipa anche Filippini) <13 e si tiene a Ivrea lo storico convegno Per un nuovo teatro <14. Il progetto del numero di «Grammatica» ha quindi una lunga preparazione, che sembrerebbe rimontare almeno al 1964 se ci atteniamo a una lettera di Filippini, consultabile nell’archivio pavese, datata 17 dicembre <15:
Illustre, ma non sconosciuto,
il Balestrini mi ha detto del meritevole progetto di fare un numero di «Grammatica» con dentro cose di teatro.
Bravi, bravi, bravi. Io gli ho detto e ti confermo che manderò una cosa mia, che tradurrò un atto unico di Grass, che sceglierò un pezzo della sceneggiatura del Brass <16 e ci farò una noticina.
Il tutto entro l’Epifania. Io ti auguro di passare un santo Natale e di bene inaugurare il ’65, che poi magari inauguro a Roma anch’io.
Cari saluti,
Enrico Filippini
In due missive a Filippini del 16 e 29 novembre 1965 Giuliani annuncia anche l’interessamento di Bompiani (a quanto pare la rivista sarebbe dovuta uscire come quaderno, a latere della più affermata «Sipario») <17: e infatti sarà proprio Bompiani a distribuire il fascicolo. […]
[NOTE]
11 L’inventario dell’archivio di Locarno è pubblicato in appendice agli atti del convegno di Locarno del 3-4-ottobre 2008: S. Bianconi (a cura di), Enrico Filippini, le neoavanguardie, il tedesco, presentazione di A. Ghiringhelli,
Salvioni, Bellinzona 2009. Anche on line, sul sito della Biblioteca Cantonale di Locarno, all’indirizzo: https://www.sbt.ti.ch/bclo/?m=fon&sm=fil. Per una messa in prospettiva dell’archivio Filippini come «autobiografia da ricomporre» cfr. il primo capitolo della monografia di M. Fuchs, Enrico Filippini editore e scrittore. La letteratura sperimentale tra Feltrinelli e il Gruppo 63, Carocci, Roma 2017, pp. 17-25.
12 «Grammatica», n. 2, 1967. La traduzione da Grass riguarda il pezzo teatrale Dieci minuti a Buffalo (pp. 30-34).
13 Cfr. Sul teatro, «il verri», n. 25, 1967. Si tratta di un dialogo a più voci che coinvolge anche Arbasino, Falzoni, Frassineti, Giuliani, Gozzi, Lombardi, Manganelli, Porta. L’intervento di Filippini, Vesch (Ponderición misteriosa), si legge alle pp. 72-73.
14 Per uno sguardo panoramico cfr. V. Valentini, Riti perduti. Il Gruppo 63 e il teatro in Italia negli anni Sessanta, «Alfabeta 2», a. IV, n. 33, 2013, p. 10.
15 Per le lettere di Filippini a Giuliani cfr. l’unità archivistica con segn. GIU-08-0454.
16 Probabilmente Filippini si riferisce a un progetto di sceneggiatura del Tamburo di latta, tradotto da Feltrinelli nel 1962. Filippini torna sull’argomento, questa volta in un articolo su «la Repubblica» dedicato a Grass del 3 dicembre 1978. Lo si può leggere nella raccolta La verità del gatto, Einaudi, Torino 1990 (Dalla parte del nano, p. 34: «Tinto Brass cercò di farne un film, ma Carlo Ponti non volle, forse perché non riusciva a coniugare le dimensioni del nano e quelle della propria consorte»).
17 «La rivista uscirà come “quaderno di Sipario” e sarà distribuita come Sipario; l’accordo, intanto, vale per questo fascicolo teatrale, poi si vedrà»
AF, Carteggi, 3.2.325, lettera di A. Giuliani a E. Filippini, s.l.[Roma], 29 novembre 1965.
Mauro Bignamini, Enrico Filippini e il Gruppo 63. Notizie dal Centro Manoscritti di Pavia in Mimesis op. cit.