La direzione dei Gap decise che fossi io a dargli la caccia e ad eseguire la sentenza di morte

Roma: il Tevere. Foto: D.L.

[Da un’intervista di Antonio Gnoli ad Alfredo Reichlin – vedere infra]
Che bilancio fa della sua vita?
“Un borghese diventato comunista. Mio nonno era un industriale svizzero. In Puglia aprì una fabbrica chimica. Mio padre fece altro. Dopo la Grande Guerra divenne un dannunziano convinto. La casa di Barletta, dove sono nato, piena di cimeli. Di frasi fatte e roboanti: “Ardisco e non ordisco”, la ricordo ancora. Ridicola”.
Era l’anticamera del fascismo.
“Per qualche anno mio padre fu podestà di Barletta. Poi preferì dedicarsi alla professione di avvocato e ci trasferimmo a Roma. Avevo cinque anni”.
Agli occhi di un bambino cos’era quella Roma?
“Provavo fastidio. Vedevo il contrasto tra quell’Italia, meschina, retorica, piccolo borghese, e le mie origini a contatto con il mondo contadino. Senza diritti né protezione. Gli anni del liceo al Tasso mi aprirono gli occhi. Fu lì, nella mia classe, che conobbi Luigi Pintor. E attraverso lui il fratello Giaime. Di pochi anni più grande. Divenne la nostra guida intellettuale.
Ci fece leggere Rilke, che aveva appena tradotto, Ossi di seppia di Montale e I proscritti di Salomon. Per la nostra crescita politica ci affidò a Eugenio Colorni. Che poi sarebbe morto tragicamente in un agguato nel 1944″.
Qualche mese prima morì Giaime.
“Saltò [Giaime Pintor] su una mina tedesca nel dicembre del 1943. Luigi venne a casa mia per darmi la notizia. Smunto, con le labbra contratte, disse: dobbiamo vendicarlo”.
Cosa intendeva?
“Voleva dire cambiare la natura del nostro impegno politico. Diventammo gappisti; entrammo in clandestinità. Un uomo misterioso, che poi risultò essere Valentino Gerratana, ci consegnò delle armi. Furono mesi terribili. Consapevole che se fossi stato preso mi avrebbero torturato e poi ucciso. A un certo punto qualcuno del nostro gruppo tradì. A un appuntamento con dei compagni arrivò la Banda Koch. Arrestarono Luigi e pure Franco Calamandrei”.
Si scoprì chi aveva tradito?
“Sì, il Cln, con a capo Giorgio Amendola, processò il traditore che nel frattempo si era aggregato alla Banda Koch. La direzione dei Gap decise che fossi io a dargli la caccia e ad eseguire la sentenza di morte. Riuscì a scappare a Milano. E solo dopo seppi che era stato ucciso in uno scontro a fuoco con i partigiani”.
Lei partecipò anche all’attentato di via Rasella?
“Non direttamente anche se fummo noi gappisti a organizzarlo”.
Cosa sa dell’assassinio di Gentile?
“Ero a Roma. Mi giunse la notizia che i Gap avevano, nei dintorni di Firenze, giustiziato Gentile. È quello che so. In quei giorni fui catturato da un paio di fascisti. Mi trascinarono per la discesa di via Cavour. Pensai è finita. Quando, dal fondo della strada, comparve improvvisamente Arminio Savioli. Un compagno. Puntò la pistola contro i due e sparò. Uno cadde. Mi liberai dell’altro. E cominciammo a correre”.
Come ha vissuto in seguito quel clima di violenza?
“Sono storie che non mi piacciono. Ma eravamo in guerra. Bisognava sapere da che parte stare. Quello che venne dopo non fu facile”.
Venne la Liberazione.
“Con gli americani a Roma ci fu un’esplosione di gioia. Era bello aver riconquistato la libertà. Ma al tempo stesso Roma mostrava il suo volto peggiore. Le puttane, i borsaioli, i fascisti che ancora resistevano e circolavano. Pensavo: ma per chi abbiamo combattuto e rischiato? Fui preso da una crisi di identità. Non sapevo più chi fossi. Ero disorientato, caddi in depressione”.
Antonio Gnoli, Alfredo Reichlin: “La politica la fa chi crede in se stesso, su di me ho avuto più di un dubbio”, la Repubblica, 7 dicembre 2014