1.2.2 La Missione Giusti del Giardino e l’azione di “Radio Venezia Giulia” <73
Già nella primavera del 1945 negli ambienti legati al MAE serpeggiava l’idea di attivare dispositivi in grado di rendere stabile l’afflusso di informazioni dalla Venezia Giulia, facendo affidamento su di un canale di monitoraggio dipendente in forma esclusiva dal corpo diplomatico italiano. La necessità era probabilmente quella di avere sotto mano relazioni in grado di raggiungere la direzione degli uffici in tempi più rapidi rispetto a quelli dettati dal Ministero dell’Interno, obbligato, nei limiti del possibile, a verificare le informative inoltrate agli altri ministeri, in un sistema di controlli incrociati che rendeva per forza di cose assai meno tempestiva la circuitazione delle notizie riservate. Si trattava inoltre di ottenere delle analisi maggiormente tarate sugli interessi operativi del MAE, che aveva bisogno di strumenti utili al fine di comprendere come inserirsi nel quadro politico locale per armonizzarlo con le proprie strategie diplomatiche.
Alla fine dell’aprile 1945 la prima mossa orientata in tal senso di concretizzò nell’invio a Venezia del conte Justo Giusti del Giardino <74, incaricato di allestire una missione che avesse come compito quello di raccogliere informative sulla Venezia Giulia. A curare i servizi di intelligence venne chiamato Massimo Casilli d’Aragona, già funzionario delle Colonie e ufficiale dell’Esercito, che orbitava nella Venezia Giulia già da tempo, dove aveva redatto numerose relazioni in merito alla situazione dei rapporti tra le varie formazioni partigiane. Egli tentò di monitorare da vicino soprattutto la situazione politica triestina, in riferimento all’attività del CLN della Venezia Giulia e alle scelte del GMA [Governo Militare Alleato], senza però trascurare l’invio costante di agenti in collegamento con lui anche nei territori che sarebbero stati successivamente inseriti nella cosiddetta Zona B del TLT [Territorio Libero di Trieste]. Si trattava di una missione coperta dalla più rigida riservatezza, dato che la sua presenza non venne registrata nemmeno dagli agenti del Ministero dell’Interno e che frequentemente gli stessi uomini di Casilli finirono per essere bloccati alla frontiera proprio dalla polizia italiana. L’obiettivo delle notizie ricercate soprattutto nel territorio istriano era quello di redigere dossier che esulassero dallo svolgere un compito di mero servizio informazioni interno alle istituzioni italiane, già assolto generalmente dalle relazioni del Ministero dell’Interno, cercando di farne il cuore argomentativo di articolati appunti politici che avrebbero finito per circolare tra i vari rappresentanti diplomatici coinvolti nel dibattito internazionale.
La Missione Giusti del Giardino rispondeva all’esigenza di mettere ordine nel quadro politico triestino, che, come abbiamo visto, era foscamente descritto nella sua gravità dai partecipati appunti degli agenti del Ministero dell’Interno. Giusti del Giardino tentò di allacciare una serie di relazioni stabili con quelle che egli riteneva le figure di maggior prestigio in città, riferendosi soprattutto ad Antonio Fonda Savio, presidente del CLN giuliano, e al vescovo Santin. Alla sua missione sono poi riconducibili i falliti tentativi perpetrati nel senso di una ricomposizione tra il Partito Comunista della Regione Giulia e i partiti parte del CLN, così come i vari passaggi politici che portarono alla fine dell’esperienza ciellenista, confluita successivamente nella Giunta d’Intesa.
Tale aspetto permette dunque di evidenziare al meglio le forti differenze intercorse tra le varie missioni informative intrecciatesi sul territorio giuliano: se al Ministero dell’Interno spettava la registrazione dei fatti che accadevano, al MAE era riconducibile la necessità di un intervento maggiormente sofisticato, finalizzato ad un utilizzo politico delle informazioni e ad un’influenza diretta sull’azione e sul profilo degli attori locali. Alle caratteristiche operative che avevano dato vita alla Missione Giusti del Giardino si sovrappose però anche l’attività di pura propaganda, che aveva come scopo un’operazione mirata a insistere anche sugli umori della popolazione locale, soprattutto nei territori della Venezia Giulia sotto controllo jugoslavo, dove il contro spionaggio rendeva molto difficile un intervento diretto delle forze operative italiane. Per questo motivo fino alla fine della sua storia la Missione si collegò all’attività di un’emittente clandestina, ossia di “Radio Venezia Giulia”. L’idea di creare una radio che svolgesse il compito di documentare a livello internazionale quanto accadeva nella Venezia Giulia e di mobilitare la popolazione italiana alla resistenza contro qualsiasi dominazione straniera era nata in seno al CLN giuliano già nel maggio del 1945, durante i “40 giorni” della presenza jugoslava. La proposta era stata avanzata da diverse delegazioni giuliane inviate dal CLN a Roma, incontrando il favore del Governo e del MAE, il quale assicurò il finanziamento dell’intera operazione. Gli impianti dell’emittente clandestina vennero collocati a Venezia nel Ridotto del Lido, in una struttura di pertinenza della Marina militare, mentre la direzione giornalistica venne affidata ai fratelli Pier Antonio e Alvise Quarantotti Gambini. <75
La radio era dotata anche di strumenti di intercettazione dei segnali provenienti dalle emittenti jugoslave, i cui notiziari venivano registrati tempestivamente con l’obiettivo di creare contro-trasmissioni in grado di smentirli e di fornire soprattutto agli ascoltatori istriani la versione dei fatti proposta dalle autorità italiane. La radio divenne in breve così non solo una fonte di informazione attiva sul fronte della comunicazione dei fatti intercorsi sul territorio, ma anche un organo di propaganda a tutti gli effetti, rivolto a far percepire alla popolazione istriana la vicinanza del governo italiano, impegnato nel tentare di risolvere positivamente la sua sorte in ambito internazionale, e cercando di rinvigorire l’umore dei gruppi filo-italiani, segnalati generalmente dalle informative fiduciarie come fortemente provati dagli eventi ma di fatto ben predisposti a coltivare uno spirito di azione e di iniziativa contro i poteri popolari jugoslavi. <76
“Radio Venezia Giulia” divenne così, anche grazie alla capacità di coordinamento politico datole dalla Missione, un vero e proprio strumento di politica estera, così come lo ha definito Spazzali nel suo lavoro, in grado di agire sul piano internazionale attraverso la denuncia delle mancanze della classe dirigente jugoslava, e su quello territoriale con l’intento di depotenziare l’azione propagandista dei poteri popolari, minandone alla base i meccanismi di consenso.
L’azione della Radio sarebbe continuata anche oltre il 1946, sopravvivendo di fatto anche al ritiro della Missione di Giusti del Giardino disposta dal MAE nel mese di novembre. Sulle motivazioni della fine della Missione, si avrà modo di tornare più avanti, così come sulle nuove modalità che interessarono la continuazione delle attività da parte dell’emittente clandestina. In questa sede è opportuno ragionare sugli scopi che fecero da sfondo al lavoro di Giusti del Giardino, che chiariscono il diverso rapporto stabilito sul territorio attraverso la raccolta delle informazioni dai vari organi governativi italiani. Il sistema informativo adottato dal MAE e, come si vedrà, dalla PCM era articolato sulla necessità di formare rapporti consolidati con il quadro politico locale e con gli attori che lo costituivano, individuando canali di intervento capaci di rafforzare l’attività governativa attraverso il raggiungimento di una perfetta assonanza di intenti con le forze politiche che si muovevano in quella delicata periferia. Proprio l’accentramento del controllo sulle direttive politiche dei partiti e delle realtà associative locali sarà il cuore dell’azione svolta dalla Presidenza nel corso di tutto il secondo dopoguerra, nel tentativo di ristabilire il prestigio e l’influenza della propria azione nei territori congelati diplomaticamente nel TLT.
73 Per approfondimenti sulla missione e sulle complesse vicende dell’emittente clandestina vedere R. Spazzali, Radio Venezia Giulia, cit.
74 Nato a Padova il 19 marzo del 1903, intraprese la carriera diplomatica nel 1933, ricevendo come primo incarico quello di vice-console, che mantenne fino al 1935 quando, scoppiata la guerra d’Etiopia, decise di arruolarsi volontario nell’Esercito. Nel 1936 venne inviato a Pechino in qualità di segretario dell’ambasciata, e due anni dopo a San Sebastiano in Spagna, dove rimase fino al 1942, anno in cui venne nominato segretario della rappresentanza diplomatica italiana nella Grecia occupata. Non aderì alla RSI e partecipò alla guerra di Liberazione aderendo alle formazioni Giustizia e Libertà.
75 Ivi, p. 38.
76 Per un’analisi sull’importanza rivestita dalla radio nella propaganda dedicata al confine orientale vedere Gorazd Bajc, Radio slovena di Trieste e radio Capodistria. Modelli di propaganda a confronto, in «Dopoguerra di confine = Povojni cas ob meji», cit., pp. 247-253 e Guido Botteri, Radio Trieste 1945-1957, in «Dopoguerra di confine = Povojni cas ob meji», cit., pp. 263-268.
Irene Bolzon, Fedeli alla Linea. Il CLN dell’Istria, il governo italiano e la Zona B del TLT tra assistenza, informative e propaganda. 1946-1966, Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Udine, Anno Accademico 2013-2014
Nei giorni successivi si sarebbero rincorse notizie confuse, spesso contrastanti, sulla possibile soluzione della controversia su Trieste <443. Sulla questione sarebbe tornato anche Palmiro Togliatti durante la visita alla nuova sede della Federazione del PCI di Porta Garibaldi a Milano, che rivolgendosi ai dirigenti della sezione milanese del partito, in riferimento alla situazione internazionale e alle zone di influenza in cui l’Europa sarebbe stata divisa, secondo le indiscrezioni di diverse testate estere, auspicò che l’Italia potesse diventare un paese libero e indipendente, capace di darsi una nuova costituzione, un nuovo statuto e una nuova struttura economica, politica e sociale. Interrogato dagli astanti in merito alla questione di Trieste Togliatti avrebbe confermato le sue precedenti dichiarazioni, lanciate proprio dalle colonne de “L’Unità”:
“Noi vogliamo che la nuova direzione politica dell’Italia eviti di dare anche solo l’impressione che possa rinascere in Italia una corrente nazionalistica analoga a quella che sorse nel dopoguerra e che sfociò nel movimento fascista. Mettendoci sotto questa visuale noi consideriamo anche il problema della città di Trieste e il suo futuro destino. Noi sappiamo che Trieste è una città prevalentemente italiana e affermiamo questa italianità senza nessuna esitazione in quanto siamo noi stessi italiani e sentiamo il dovere di solidarietà e di difesa della italianità ovunque debba essere difesa. Ma in pari tempo noi prendiamo posizione nel modo più aperto e vivace contro ogni tentativo di far rinascere col pretesto della difesa dell’italianità di Trieste un movimento nazionalista di tipo prefascista o di tipo fascista. Noi vogliamo che il problema della difesa dell’italianità di Trieste venga affrontato e risolto in collaborazione con la nuova Jugoslavia democratica, nazione libera nazione nuova, che si è rinnovata attraverso la lotta partigiana, come si è rinnovata la nostra Italia”. <444
Da questo momento in poi il giornale avrebbe dedicato alla situazione triestina solamente degli accenni di carattere generale, in brevi articoli che non avrebbero più avuto i toni accesi della prima ora, e in cui i lettori sarebbero stati informati dei passi che il governo inglese, quello americano e quello jugoslavo stavano compiendo per giungere a un accordo per la Venezia Giulia.
Sul numero del 10 giugno 1945 sarebbe stata data la notizia sul raggiunto accordo fra il governo jugoslavo, l’Inghilterra e gli Stati Uniti sulla questione di Trieste, che stabiliva una linea di demarcazione tracciata dalla zona sud di Trieste verso Nord, passando per Gorizia fino alla frontiera austriaca nella regione di Villach. Il giornale riportava la nota lanciata dall’ agenzia “Reuter” secondo cui alla notizia dell’accordo circa 10.000 triestini avrebbero affollato la grande piazza di fronte al municipio plaudendo ai vari discorsi contro il fascismo ed inneggiando, al grido di “ Viva i nostri alleati antifascisti” e “Viva Stalin, viva Tito”. <445
Nello stesso giorno, sull’edizione piemontese del giornale, sarebbero stati dati maggiori dettagli sulla sistemazione provvisoria della Venezia Giulia in seguito all’accordo firmato a Belgrado, in cui al sesto punto veniva disposto il rimpatrio di tutti i residenti della zona che siano stati arrestati deportati dal governo jugoslavo, ad eccezione di coloro che avevano nazionalità jugoslava nel 1939, e la restituzione di tutti i beni confiscati o asportati. <446
Il 12 giugno, in un lungo editoriale, “L’Unità” commentava l’accordo raggiunto per Trieste tra il maresciallo Tito e il maresciallo Alexander, auspicando che questo mettesse fine, in maniera radicale, alle campagne di allarme e provocazione che erano state condotte dai giornali, in particolar modo da quelli romani. Si auspicava quindi che, sulla base di questo episodio, il pubblico intelligente capisse che esistevano elementi “irresponsabili e provocatori i quali cercano, irritando i nervi degli italiani con notizie false e campagne allarmistiche di prendersi giuoco di loro e di peggiorare la posizione internazionale del nostro paese.” <447
Non veniva nascosta l’insoddisfazione per l’accordo raggiunto, dal quale lo Stato italiano e il suo governo erano formalmente assenti:
“Noi paghiamo in questo modo la impostazione errata data alla questione di Trieste da quella parte dei dirigenti dell’opinione pubblica che non pose questa questione e non la trattò partendo da una chiara visione degli interessi del paese, ma unicamente si gettò su di essa a scopo di agitazione nazionalistica e per una speculazione di politica interna. Tutti sanno che noi abbiamo sempre sostenuto la necessità di trattare la questione di Trieste e delle frontiere orientali direttamente con gli organismi dirigenti e con gli uomini della nuova Jugoslavia democratica. La trattativa diretta qualunque avesse potuto esserne il risultato, era prima di tutto un’affermazione di autonomia politica del nostro paese. Nessuna trattativa diretta, però era possibile nell’ambiente artificialmente creato a Roma con le campagne nazionalistiche tessute di menzogne che oggi a poco a poco si vanno smascherando. Non era possibile che il governo italiano trattasse con un governo che la stampa italiana insultata chiamandolo “hitleriano”. Non era possibile parlare con Tito quando nessuno (diciamo nessuno!) dei dirigenti politici italiani aveva sentito il dovere almeno di esprimere partito la riconoscenza del popolo per il tributo di sangue pagato dai suoi uomini per cacciare da Trieste i tedeschi e invece si rispolverava, proprio nel momento in cui Trieste veniva finalmente liberata dal giogo tedesco il grido di dolore di un re il quale si preparava a fare una guerra”. <448
Per il Partito Comunista era stato “lo sciocco e gretto nazionalismo” a giocare ancora una volta contro gli interessi della Nazione, e si era persa l’occasione di affermare l’autonomia italiana conducendo un amichevole conversazione con la nuova Jugoslavia. L’obiettivo fondamentale della politica estera italiana doveva essere quindi, da questo momento in poi, quello di far riacquisire al Paese piena libertà e indipendenza nel campo interno e in quella organizzazione internazionale di sicurezza nella quale si desiderava ardentemente essere ammessi. Un obiettivo che doveva essere aggiunto in accordo con i grandi paesi alleati tenendo conto della realtà della situazione nazionale e dando prova di saper risolvere, con calma e attraverso liberi accordi tra gli interessati, le questioni particolari che riguardavano il Paese, come ad esempio la questione di Trieste.
443 Le proposte jugoslave offrono la possibilità di un accordo, “L’Unità”, Anno XXII, n.120, 24 Maggio 1945, L’VIII armata nella Venezia Giulia, “L’Unità”, Anno XXII, n.119, 23 Maggio 1945, La controversia in via di soluzione sulla base di concessioni reciproche, “L’Unità”, Anno XXII, n.121, 25 Maggio 1945, p.1, Continuano le trattative tra gli alleati e il Maresciallo Tito, “L’Unità”, Anno XXII, n.122, 26 Maggio 1945, p.1, L’atteggiamento jugoslavo nei confronti dell’occupazione alleata, “L’Unità”, Anno XXII, n.123, 27 Maggio 1945, p.1, Tito esclude che la Jugoslavia voglia svolgere azioni unilaterali, “L’Unità”, Anno XXII, n.124, 29 Maggio 1945, p.1, Calma assoluta a Trieste, “L’Unità”, Anno XXII, n.126, 31 Maggio 1945, p.1, La questione potrà essere risolta amichevolmente dichiara alla stampa il gen. Clark, “L’Unità”, Anno XXII, n.127, 1 Giugno 1945, p.1, La vita religiosa a Trieste continua indisturbata, “L’Unità”, Anno XXII, n.128, 2 Giugno 1945, p.1,
444 Togliatti parla ai quadri comunisti di Milano, “L’Unità”, Anno XXII, n.120, 24 Maggio 1945, p.1
445 L’accordo per Trieste è stato firmato, “L’Unità”, Anno XXII, n.135, 10 Giugno 1945, p.1
446 La sistemazione provvisoria della Venezia Giulia, “L’Unità”, Ed. Piemontese, Anno XXII, n. 49, 10 Giugno 1945, p.1
447 L’accordo per Trieste, “L’Unità”, Anno XXII, n.136, 12 Giugno 1945, p.1
448 Ivi, “L’Unità”, Anno XXII, n. 136, 12 Giugno 1945, p.1
Margherita Sulas, Il confine orientale italiano tra contesto internazionale e lotta politica: 1943-1953, Tesi di Dottorato, Università di Cagliari, 2013
Dopo preso il controllo militare della città, l’Armata jugoslava affidò l’amministrazione cittadina, come da accordi interalleati, al CEAIS (Comitato Esecutivo Antifascista Italo-Sloveno) e che comprendeva 11 membri, 8 italiani e 3 sloveni. Di esso facevano parte, tra gli altri: Umberto Zoratti, presidente, democratico indipendente; Giuseppe Gustincich, comunista e Franc Stoka, dell’Osvobodilna Fronta-Fronte di Liberazione, vicepresidenti; Fulvio Forti, democratico indipendente e Rudi Ursic, dell’OF, segretari.
Il CLN decise di non collaborare alla gestione della città e di non entrare nel CEAIS, ma non solo: durante il periodo dell’occupazione jugoslava riprende l’attività clandestina <105. Secondo Michele Midena <106, la prima riunione del nuovo CLN ebbe luogo mercoledì 9 maggio in via della Zonta: viene eletto presidente Furlani, vicepresidente è Fonda, come capo del CVL e gli altri membri sono: Bartoli per la DC 107 (in sostituzione di don Marzari, n.d.a.), Ferluga (Carlo) per il Partito d’Azione e Marega (Giacomo) per il PLI; Midena, formalmente senza partito, viene eletto segretario.
Ma già il 3 maggio 45 venne diffuso clandestinamente un manifesto che invitava a lottare contro il costituendo CEAIS e diceva, tra le altre cose: “Per far ammutolire il nazionalismo slavo, basta ricordare i nomi di soltanto alcuni nostri martiri, veri pionieri del progressismo e della libertà, già membri del CLN, quali Gabriele Foschiatti, Pisoni, Reti, Maovaz, Sartori, Spagnul Pesenti, Luigi Frausin ecc., che non si sono certo sacrificati per la riduzione in schiavitù straniera del popolo triestino, ma per un’Italia democratica e libera fino agli estremi limiti etnici”. Il manifesto proseguiva dichiarando che era colpa dell’esercito jugoslavo se si erano verificati dei combattimenti in città; evidentemente il CLN contava su un accordo incruento coi nazifascisti, magari in funzione anticomunista ed antislava e riciclando i vecchi papaveri del regime come il podestà Pagnini. Il manifesto proseguiva con queste parole: “Le gravi offese ricevute dal popolo triestino dal nazionalismo jugoslavo vi siano di incitamento a togliervi ogni illusione sul decantato progressismo degli occupatori ed a guardare il pericolo che ci incombe”, e, dulcis in fundo, concludeva: “Viva Trieste veramente democratica! Viva la civiltà italiana!”.
I nuclei di maggior rilievo, leggiamo <108 erano quello costituito da Antonio Fonda Savio con sede in una ditta commerciale di piazza Dalmazia; quello diretto da Redento Romano formato da elementi provenienti dalla Brigata Venezia Giulia; nonché quello organizzato da Ernesto Carra; inoltre nella casa di Tristano Illersberg fino dai primissimi giorni di maggio venivano stampati in ciclostile manifestini ed il periodico L’Osservatorio del CLN; nel negozio Radio Romanelli di via Muratti si stampava invece La nostra vigilia <109. Una base organizzativa preminente, inoltre, era la casa della signora Giulia Montico al primo piano di via Foscolo 18.
Inoltre nella base di via Foscolo proveniente da Fiume si presentava Adam Angelo superstite delle carceri austriache e fasciste e reduce di Dachau per ragguagliare, ricevere disposizioni e ripartire a Fiume dove arrestato spariva assieme alla moglie e alla figlia. In via Foscolo confluirono anche altri fuggiaschi da Fiume, che discutevano e stendevano relazioni e memoriali destinati ai comandi angloamericani al governo italiano ed in certi casi particolari all’ammiraglio Ellery Stone della Commissione alleata a Roma, come la Situazione della città a seguito dell’occupazione jugoslava, avvenimenti a Fiume del 3 maggio eccetera.
Verranno anche costituiti i Nuclei di Azione Patriottica (NAP), con funzioni di sabotaggio morale degli Italiani collaboranti con le attività jugoslave, cioè quelli che ricoprivano cariche negli organi politici ed amministrativi e dei quali la stampa clandestina del CLN, per mezzo di giornaletti e manifestini redatti in ciclostile, soleva denunciarne i nomi additandoli al giudizio dei Triestini <110 ed un servizio di informazioni rivelatosi molto utile per i preziosi risultati ottenuti e che (…) provvede all’installazione, nella prima decade di giugno, di una radiotrasmittente in una casa (…); infine un organismo (…) incaricato dell’apprestamento e della distribuzione di tricolori (…) e della preparazione ed organizzazione di manifestazioni popolari italiane (a proposito di queste manifestazioni vi rimandiamo al successivo capitolo dedicato alla manifestazione del 5 maggio), ed ancora è rivendicato dal CLN (nella persona di Oliviero Bari) l’attentato (fallito) del 4 maggio, destinato a far saltare il cavo aereo di Radio Trieste.
L’attività dei NAP, dice Maserati, non si limitò soltanto alla denuncia pubblica dei casi di collaborazionismo (parola pesante da usare in questo caso, secondo noi), ma si accinse anche ad effettuare delle iniziative concrete; tale attività culminò col ratto di Zoratti (25 maggio) e dell’ing. Forti (30 maggio), che furono prelevati e trasportati a Udine <111 in automobile, forzando lo sbarramento dell’Isonzo. Già gravissima di per sé, questa azione, assume particolare gravità se si tiene conto di una testimonianza dell’ing. Forti che asserì di essere stato sollecitato ad andare a Udine dal CLN che mal vedeva la collaborazione di italiani con il CEAIS. Le azioni del Nucleo ebbero l’effetto di screditare il CEAIS e soprattutto di seminare il panico tra gli Italiani collaboranti, i quali tentarono poi di svincolarsi dalle cariche affrettandosi ad inviare, sotto pressione del nucleo, lettere di dimissioni al CEAIS (…), conclude Maserati.
Il 7 maggio membri del CLN escono clandestinamente da Trieste per prendere contatti a Venezia con organizzazioni politiche italiane; da Venezia vanno poi a Roma, ospiti del Governo e sono ricevuti dal presidente del consiglio, Bonomi; il 16 maggio parlano con l’ammiraglio Stone (capo della Missione Militare alleata in Italia) e sollecitano le ambasciate estere in Roma affinché la Venezia Giulia venga occupata dalle truppe anglo-americane e nello stesso giorno uno della delegazione parla da Radio Roma sul problema giuliano. Vengono poi ricevuti anche dal Pontefice nella Biblioteca Vaticana e si recano in seguito anche a Milano dove espongono la grave situazione politica e militare determinatasi a Trieste e nella Venezia Giulia in seguito alloccupazione della regione da parte delle truppe di Tito.
[…] È interessante rilevare poi che i primi a parlare dei presunti eccidi avvenuti presso la foiba di Basovizza, sono stati i membri del CLN, e che il linguaggio da essi usato è lo stesso che verrà utilizzato negli anni successivi dalla propaganda nazional-fascista. Il 14/6/45 il CLN invia una denuncia alle autorità angloamericane nella quale leggiamo: “Nelle giornate del 2-3-4- e 5 maggio numerose centinaia di cittadini vennero trasportati al cosiddetto POZZO DELLA MINIERA, in località prossima a BASOVIZZA e fatti precipitare nellabisso profondo circa 240 m. Su questi disgraziati vennero in seguito lanciate le salme di circa 120 soldati tedeschi uccisi nei combattimenti dei giorni precedenti e le carogne putrefatte di alcuni cavalli”. Il 29/7/45 apparve su Risorgimento Liberale (organo nazionale del partito Liberale) questa notizia: “Grande e penosa impressione ha destato in tutta l’America la notizia, proveniente da Basovizza presso Trieste, circa il massacro di oltre 400 persone da parte dei partigiani di Tito, le cui salme sono state scoperte dalle autorità alleate nelle cave di quella zona. Particolare rilievo viene dato al fatto che ivi compresi si trovano otto cadaveri di soldati neozelandesi e si temono di conseguenza complicazioni internazionali”. Due giorni dopo apparve sul medesimo giornale una Smentita alleata sul pozzo di cadaveri a Trieste. Ecco il testo: ”Il Comando generale dell’Ottava Armata britannica ha ufficialmente smentito oggi le notizie pubblicate dalla stampa italiana secondo cui 400 o 600 cadaveri (si pubblica la smentita, ma si fanno lievitare i morti, n.d.a.) sarebbero stati rinvenuti in una profonda miniera della zona di Trieste. Alcuni ufficiali dell’Ottava Armata hanno precisato inoltre che non si hanno indicazioni circa i cadaveri degli italiani ma per quanto riguarda l’asserita presenza di cadaveri di soldati neozelandesi essa viene senz’altro negata”.
105 Questa e le citazioni seguenti sono tratte da L’occupazione jugoslava di Trieste, cit.
106 Vittorio Furlani sarà successivamente direttore del quotidiano La Voce Libera.
107 Ling, Gianni Bartoli, che era stato dirigente della TELVE, divenne negli anni 50 sindaco di Trieste. Rappresentante degli esuli istriani (nonostante egli stesso non fosse esule, essendosi trasferito a Trieste già prima dell’inizio della guerra, fu soprannominato Gianni lagrima perché durante i suoi discorsi si metteva a piangere ogni qualvolta affrontava l’argomento delle terre perdute d’Istria e Dalmazia. Nel 1961 pubblicò il Martirologio delle genti adriatiche, primo elenco sistematico di infoibati (più precisamente di militari e civili caduti in guerra o uccisi dai partigiani tra il 1941 ed il 1947 nelle più svariate circostanze).
108 Archivio IRSMLT, n. 2225.
109 È interessante rilevare che, mentre nel documento che citiamo viene rivendicata la stampa di questo foglio, il numero dell’Osservatorio del CLN datato 20/5/45 scrive che per evitare equivoci si comunica che il foglio Nostra Vigilia, apparso giorni or sono come organo del CLN Giuliano, è iniziativa di ignoti solitari nazionalisti. Dunque anche all’interno di questo CLN si trovavano due anime contrapposte, oppure la Nostra vigilia era stata una provocazione di per se stessa?
110 Scrive sempre Maserati: Quanto ai cosiddetti -italiani democratici- che collaboravano con le autorità jugoslave e specialmente quelli che ricoprivano cariche negli organi politici ed amministrativi, la stampa clandestina del CLN, per mezzo di giornaletti e manifestini redatti in ciclostile, soleva denunciarne i nomi additandoli al giudizio dei Triestini.
111 Sarebbe interessante sapere dove esattamente furono condotti nella città di Udine i rapiti, visto che ad Udine si trovavano, tra gli altri, il comando della Osoppo, la sede del Governo Militare Alleato per la Venezia Giulia, l’arcivescovo collaborazionista coi nazisti Nogara e via di seguito.
Claudia Cernigoi, Luci e ombre del CLN di Trieste, dossier de “La Nuova Alabarda e la Coda del Diavolo”, 16 marzo 2012
“Il 2 marzo 1945 partii da Milano per raccogliere in un rapido viaggio in Istria, la documentazione dalla quale risultasse evidente che gli italiani non erano stati infoibati in quanto fascisti, ma in quanto italiani. Per poter viaggiare in Istria, che era zona di operazione, mi presentai al comandante Borghese (…) gli dissi la mia intenzione di portare la documentazione al Sud (…) personalmente mi fornì documenti italiani e tedeschi per viaggiare in Istria (…) volevo portare la documentazione al governo Bonomi e speravo di poter concorrere ad anticipare uno sbarco italo-anglo-americano in questa terra” [Maria Pasquinelli].
Il tenente di vascello della Decima Sergio Nesi conferma questi dati in un suo testo: “Maria Pasquinelli aveva avuto numerosi contatti con il Comando della Decima Mas, portando un’imponente documentazione sulle atrocità slave e sulle foibe, documentazione che veniva raccolta dall’efficientissimo Servizio informazioni della Decima attraverso i suoi agenti sparsi un po’ dovunque”. Ed aggiunge: “Effettivamente, la donna era un’agente del Servizio informazioni della Decima e gran parte della documentazione sulle foibe la si deve a lei”. Nesi quindi conferma Maria Pasquinelli come agente della Decima, ma limita il suo lavoro alle indagini sulle “foibe”, non parlando dell’attività da lei svolta in Friuli e che abbiamo ricostruito nel paragrafo precedente.
[…] Dalla stampa apprendiamo che il 25/11/45 Pasquinelli giunse a Trieste per lavorare al Provveditorato agli Studi della città e prese alloggio, il 16 dicembre successivo, in una stanza d’affitto in via Manzoni 4, dove, dichiarò la sua padrona di casa, dava a volte ripetizioni a studenti ma faceva vita ritirata ed a volte si assentava per diversi giorni, senza lasciare detto dove andasse, tranne ogni tanto quando diceva alla portinaia che andava a trovare il fratello ricoverato a Udine per tubercolosi.
Nel gennaio 1946 chiese a Mirabella, uno dei proprietari del quotidiano triestino (collegato al CLN giuliano) La Voce Libera, di diffondere in tutta Italia un articolo sulla questione giuliana, e poi “ottenne anche dei finanziamenti dalla Dc e dal Partito d’Azione ed entrò in contatto con vari studenti ed esuli istriani. A partire dal giugno 1946 – quando i ministri degli Esteri delle varie nazioni iniziarono a riunirsi a Parigi in preparazione della Conferenza di Pace – la Pasquinelli prese ad accarezzare l’idea di assassinare un alto ufficiale alleato a Pola, in segno di protesta. Ma il progetto fu rinviato, fino a quando la decisione di consegnare Pola alla Jugoslavia non divenne irrevocabile. I suoi viaggi a Pola iniziarono nel luglio 1946. Qui lavorò per il Comitato per l’Esodo fino al 12 gennaio 1947. La data dell’omicidio fu decisa l’8 febbraio. […] Considerazioni generali: la donna è sincera, determinata e senza scrupoli”.
Strategia della tensione in Istria
Nel biennio 1946-1947, vari rapporti dell’intelligence alleata parlano di “elementi del separatismo siciliano” nella Venezia Giulia e a Trieste. Presenze decisamente sospette, vista la lontananza geografica con la grande isola mediterranea. Nel giugno 1946, il controspionaggio del SIM segnala la presenza nel capoluogo giuliano di “due militanti dell’Esercito volontario per l’indipendenza della Sicilia (EVIS), provenienti da Catania: Tullio di Mauro, nato a Trieste nel 1923, ed Enzo Finocchiaro, nato a Catania nel 1925”. I due sono in possesso di speciali documenti di identità che certificano la loro appartenenza all’EVIS, firmati da un certo “colonnello Spina”.
Nell’estate del 1947, Londra scrive di uno Spina “comandante del Terzo corpo volontari della libertà (3° CVL) nella Venezia Giulia”. Si fa il nome dell’Unione monarchica italiana (UMI), un partito che, secondo lo spionaggio italiano, finanzia le attività terroristiche della banda Giuliano, dell’EVIS e di altre formazioni separatiste in Sicilia, Calabria e Basilicata tra il 1945 e il 1947. Il collegamento tra Salvatore Giuliano e l’UMI, a Roma, viene garantito dal neofascista catanese Franco Garase, alias “lo zoppo”, da Caterina Bianca, ex agente dei servizi segreti della RSI, e da Silvestro Cannamela, ex milite dei commandos della Decima Mas al Sud.
Turcinovich dedica un capitolo del libro-intervista a Maria Pasquinelli ai “verbali delle riunioni del CLN” istriano a Pola nel 1946, pubblicati a cura di Pasquale De Simone (che dovrebbe avere fatto parte di questo CLN) dall’ANVGD di Gorizia nel 1990.
In sostanza il CLN di Pola chiedeva un “plebiscito che assicurasse alle popolazioni della Venezia Giulia di decidere del proprio destino), ma, afferma De Simone, “neanche i parlamentari amici come De Berti” vollero “occuparsi della faccenda”. Nel periodo erano in corso le consultazioni diplomatiche per la stipula del Trattato di pace che doveva definire i confini d’Italia, non solo il confine orientale, ma anche i territori da cedere alla Francia ed i confini dell’Alto Adige e le colonie.
Nel maggio 1946 le riunioni verbalizzate da De Simone mostrano un dibattito piuttosto agguerrito, a cominciare dalle parole di tale Coslovi (“nessuna causa si vince senza sangue, dobbiamo agire, abbiamo della gente disposta a tutto, un moto di popolo può risolvere”), per proseguire con quelle di un tale Laganà (anche questo indicato senza il nome di battesimo): “bisogna far sì che in Italia si rendano conto della nostra situazione e di quella che verrebbe a crearsi nell’Istria nel caso di una cessione alla Jugoslavia. Le mozioni a questo scopo servono a poco; bisogna creare disordine o fare in genere qualcosa di forte”.
Ed infine un certo Rusich: “La popolazione si sentirebbe rincuorata da una dimostrazione. Chi non è disposto a dare la vita perché qui non vengano gli slavi? Io sono disposto a darla (…) siamo dalla parte del diritto, per questo diritto dobbiamo lottare senza paura di dover spargere del sangue, anzi proprio dal sangue sorgerà per noi un maggior diritto”.
A questi propositi di creare una vera e propria strategia della tensione si mostrarono contrari altri membri del CLN, Porcari, Massimo Manzin, De Luca e Villa. Ed ancora va citata la dichiarazione di Leonardo Benussi: “noi partigiani italiani dobbiamo cancellare un marchio (…) d’aver combattuto con Tito (…) per salvare l’Italia nell’Istria e siamo disposti a combattere contro Tito per affermare la nostra italianità”.
Ma qui si interrompe l’analisi dei verbali del CLN pubblicata da Turcinovich e non siamo in grado di sapere quale linea sia alla fine passata. Però bisogna aggiungere la testimonianza di Mario Merni, dell’Associazione Partigiani Italiani di Pola, che a proposito di Pasquinelli dichiarò: “Veniva spesso a rincuorarci, garantiva il suo aiuto e ci parlava di un colpo di stato caldo”.
La strage di Vergarolla
Turcinovich aveva introdotto i verbali del CLN con queste valutazioni: “alcuni momenti del dibattito all’interno del CLN che è giusto percorrere perché spiegano l’atmosfera di quel 1946 a Pola, e forse sono una chiave di lettura della strage di Vergarolla ed anche del gesto estremo di Maria Pasquinelli che si sentiva coinvolta in quelle giornate di convulsa ricerca di una soluzione più di quanto potesse sospettare chi l’aveva incontrata e conosciuta”.
La strage di Vergarolla, dunque, che provocò 87 morti e decine di feriti tra i partecipanti ad una festa popolare. Che ne dice Maria Pasquinelli?
“Ricorda Vergarolla? Certo che ricorda, posa la fronte sul palmo della mano: ci dovevo essere anch’io, ci andavo spesso, ma scelsi una spiaggia diversa proprio in quel giorno, fu terribile”.
Quel giorno, il 18/8/46 a Vergarolla il circolo canottieri Pietas Julia di Pola aveva organizzato una festa sportiva popolare che prevedeva, oltre alle gare di canottaggio anche chioschi gastronomici, ed intrattenimenti. Ed anche l’esule Marina Rangan dichiarò che proprio quel giorno suo padre si impuntò per non andare a Vergarolla: “remava mio padre perché aveva deciso che si andava a fare il bagno proprio lì e non a Vergarolla con il barcone pieno di gente, come avrebbe voluto mia madre. Normalmente lui l’accontentava sempre, per il quieto vivere, invece quella volta si impuntò, forse per un provvidenziale sesto senso”.
Curiose queste forme di telepatia preammonitrice, considerando anche che “l’annuncio della riunione”, come scrive Lino Vivoda “venne pubblicato per parecchi giorni sul quotidiano locale italiano (…) come un implicito appello per la partecipazione in massa”, perché “ormai qualsiasi occasione di pubblica riunione era diventata per la cittadinanza motivo di corale dimostrazione d’italianità”. Ciononostante la patriota Pasquinelli proprio quel giorno disertò la spiaggia di Vergarolla, spiaggia sulla quale “giacevano accatastate ventotto mine marittime, residuato di guerra, prive di detonatori ma non vuotate dell’esplosivo in esse contenuto. Nottetempo quel deposito di morte fu riattivato da emissari criminali, giunti da fuori città, con l’inserimento di detonatori collegati ad un congegno per il comando a distanza dello scoppio”. E le mine scoppiarono, provocando una strage.
Nei fatti, nel corso della bonifica del porto, sulla spiaggia erano state ammassate le mine (di fabbricazione tedesca e francese, contenenti tritolo) che erano state raccolte e disinnescate da artificieri provenienti dal Comando Marina di Venezia comandati dal capitano Raiola che dichiarò successivamente che i lavori di disinnesco e controllo erano stati condotti da tre squadre, e che “era materialmente possibile che avvenisse l’esplosione delle mine, perché il tritolo (…) sarebbe esploso solo con l’innesco di un detonatore”.
E questo detonatore sarebbe stato collegato ad un congegno per il comando a distanza, del quale avrebbe denunciato la presenza, in una cava vicino alla spiaggia, il futuro esule e poeta Giuseppe Bepi Nider, già ufficiale dell’esercito italiano ed all’epoca nell’Associazione partigiani di Pola, che si era recato in sopralluogo subito dopo l’esplosione assieme ad un maggiore inglese della FSS.
Del problema dell’innesco ha parlato anche il generale Antonio Usmiani, perché le modalità di innesco di questo tipo di mine erano conosciute solo da coloro che le avevano in uso: militari francesi ed inglesi e della Decima Mas. Eliminando i francesi (che non erano presenti), sospendendo il giudizio sugli inglesi (che amministrando la zona potevano e non potevano avere interesse a creare una tensione di questo tipo), va ricordato che un anno prima, il 26/9/45, il Comando Marina Alleato di Venezia aveva assunto per il proprio Centro esperienze 18 ex membri della Decima Mas del gruppo Gamma (gli uomini rana specializzati nel piazzare mine marittime sotto le navi nemiche), tra i quali lo stesso comandante Eugenio Wolk, per affidare loro il compito di bonificare il porto di Venezia. Ed Usmiani avrebbe anche fatto cenno ad un “ufficiale della Decima passato ai partigiani” nella zona di Pola.
Ci furono naturalmente varie inchieste, che però non approdarono a nulla. Negli anni, pur in assenza di prove od indizi, la responsabilità dell’eccidio fu attribuita, dalla propaganda nazionalista italiana (poi assimilata anche dal comune sentire) alla Jugoslavia per mano dell’OZNA (ad esempio lo storico Raoul Pupo scrive che tale strage avrebbe scatenato l’Esodo dall’Istria. E che “le responsabilità” della strage non furono mai chiarite, ma “l’effetto è assolutamente chiaro”, cioè avrebbe terrorizzato la popolazione italiana e sarebbe stata una delle cause scatenanti dell’esodo degli italiani.
A questo proposito viene spesso citata come “prova” un’informativa dei Servizi britannici che riferisce che “uno dei sabotatori” di Vergarolla sarebbe stato “Kovacich Giuseppe, uno specialista in azioni terroristiche nonché responsabile di numerosi delitti”, che “in passato era solito recarsi in macchina da Fiume a Trieste tre volte alla settimana”, che “lavorava per l’OZNA” e che dopo l’attentato di Vergarolla non si è più fatto vedere in città. Tali informazioni sarebbero state fornite “da una fonte attendibile del controspionaggio”. Considerando che non vi sono altri documenti a conferma (il Kovacich non è neppure stato chiaramente identificato), e che un’informativa di norma non costituisce una prova certa, ma solo il rapporto di quanto riferito da qualcuno, non riteniamo ragionevole giungere, come hanno fatto non solo le associazioni irredentiste ma anche moltissimi divulgatori storici, alla conclusione che tale documento chiarisca definitivamente la questione della responsabilità dei morti di Vergarolla.
E del resto, oltre ai dubbi sollevati da Usmiani su chi avesse la possibilità reale di innescare nuovamente le mine ammassate in spiaggia, bisogna considerare che gli Jugoslavi, impegnati all’epoca a Parigi a far valere le proprie ragioni in merito ai crimini commessi durante l’occupazione nazifascista delle loro terre, non avrebbero sicuramente tratto politicamente profitto per avere messo in atto un’azione abietta come una strage di civili. Mentre chi affermò che non era il caso di temere di dovere “spargere del sangue” era stato l’esponente del CLN istriano Rusich, come abbiamo riportato all’inizio di questo paragrafo.
Non solo. Ricordiamo anche che il 9/2/47, il giorno prima dell’attentato operato da Maria Pasquinelli, altri atti terroristici insanguinarono Pola. Due bombe a mano furono lanciate conto la sede dell’UAIS (Unione antifascista italo slava), ferendo quattro persone, una delle quali morì il giorno dopo in ospedale, mentre un altro ordigno esplose nelle vicinanze della redazione de Il Nostro giornale, e la sede della DC fu messa a soqquadro nel corso di un’irruzione “probabilmente ritenuta poco sollecita con i nostri connazionali di quelle terre”. (cont.)
Claudia Cernigoi, Maria Pasquinelli: un’agente nell’Italia liberata (II), Paperblog, 1° agosto 2013
Hanno deciso (in segreto) per Trieste. Ne farebbero una “città libera” <219
Il 13 luglio 1946 Alcide De Gasperi dava avvio al suo secondo Governo, retto da una coalizione tripartita formata da DC, PCI e PSIUP. La scelta di continuare a percorrere un’opzione governativa di unità nazionale veniva dalla necessità di far fronte alla situazione emergenziale del Paese attraverso una politica di compromesso che arginasse il rischio di involuzioni autoritarie <220. Nondimeno alle fratture storiche andavano aggiungendosi nuove divisioni.
Crescente era infatti la tensione fra i maggiori partiti di Governo – coerentemente con il radicalizzarsi dello scontro internazionale Est/Ovest – mentre si faceva incalzante la spinta delle destre, in particolare di monarchici, qualunquisti e neofascisti del nascente Movimento Sociale Italiano <221. E nel vivo confronto tra orientamenti ideologici e strategici antitetici, la questione del confine orientale costituiva un ricorrente pretesto nella polemica interna ai dibattiti fra i partiti <222.
[…] Il 2 luglio fu ufficializzata la proposta di creare il Territorio Libero di Trieste, vale a dire la costituzione in stato libero per dieci anni del territorio compreso fra i fiumi Timavo e Quieto. Si sarebbe trattato di uno stato-cuscinetto neutrale sotto l’egida del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, composto da una Zona A sotto la guida del GMA e una Zona B sotto l’amministrazione militare jugoslava (VUJA), entrambe ridimensionate rispetto alle aree che già dal 1945 dividevano la Venezia Giulia. Un governatore del nuovo stato sarebbe stato nominato dall’ONU sulla base di una proposta concordata tra Italia e Jugoslavia. Definita da Raoul Pupo come l’unica soluzione accettabile che poteva imporsi nel delicato clima di ridefinizione degli equilibri fra Potenze, entro cui – anche a proposito della questione giuliana – andava infiammandosi sempre di più il nodo dei rapporti tra Stati Uniti e Unione Sovietica, la creazione del TLT era necessaria in quel momento per uscire da «un impasse diplomatico che si veniva prolungando oltre misura» <224. Pensato sul modello di Danzica e fissato sulla linea etnica proposta dal ministro francese Bidault, il Territorio Libero
doveva costituire una soluzione transitoria passibile di modificazioni secondo l’evoluzione del quadro locale e internazionale, ma che intanto consentiva di mantenere lo status quo sull’area. Ciò coerentemente con la volontà alleata di conservare un avamposto occidentale in Italia man mano che si chiarificava quella che di lì a pochi mesi si sarebbe rivelata essere una manifesta “politica di contenimento” delle possibili infiltrazioni comuniste dall’est Europa.
Il 12 luglio il Consiglio dei Quattro chiudeva provvisoriamente i lavori, fissando alla fine del mese l’avvio della Conferenza di pace. L’Italia inaugurava l’epoca repubblicana e i lavori della Costituente privata di grossa parte del territorio di confine, annesso alla Jugoslavia, di Trieste e di importanti città costiere dell’Istria, tra cui Pola, Fiume e Zara, a maggioranza italiana. In varie ondate, l’esodo degli italiani dall’Istria avrebbe coinvolto negli anni circa 300.000 persone <225. Proteste sorsero spontanee nella città giuliana e in Istria, ma anche a Roma, a Milano e nel resto d’Italia <226. La stampa nazionale diede avvio a una campagna battente contro l’iniquità delle decisioni e contro la scelta del Governo di perseguire una politica estera attendista e infruttuosa <227. Il Governo, a sua volta, non si trattenne dal manifestare agli Alleati la propria contrarietà ad accettare una soluzione considerata esageratamente punitiva, tanto più a fronte delle promesse di appoggi giunte fino a quel momento da parte americana.
Trieste divenne il simbolo della disuguaglianza italiana nel nuovo ordinamento europeo. La stampa italiana cominciò ad adottare diffusamente il termine diktat.
219 In «Il Popolo», 23 giugno 1946.
220 R. Pupo, La rifondazione della politica estera italiana, cit., p. 137.
221 Cfr. S. Colarizi, Storia dei partiti nell’Italia repubblicana, Laterza, Roma-Bari, 1996, p. 88 e ss.
222 R. Pupo, La rifondazione della politica estera italiana, cit., p. 137.
224 R. Pupo, Fra Italia e Jugoslavia. Saggi sulla questione di Trieste (1945-1954), Del Bianco Editore, Udine, 1989, p. 40.
225 D. D’Amelio, La difesa di Trieste. Strategie e culture politiche delle forze italiane nella battaglia per il confine orientale (1945-1954), in D. D’Amelio, A. Di Michele, G. Mezzalira, cit., p. 384. Cfr. soprattutto in proposito R. Pupo, Il lungo esodo, cit.
226 Si vedano le cronache riportate sui quotidiani dei giorni seguenti l’annuncio della creazione del TLT. Ad es. Milano è coi giuliani e Dice Padre Lombardi: “Trieste italiana è parola d’amore”, «Il Popolo», 11 luglio 1946; L’imponente manifestazione di Milano contro le decisioni di Parigi per Trieste e per la Venezia Giulia (immagine), «Il Corriere della Sera», 11 luglio 1946.
227 S. Lorenzini, L’Italia e il trattato di pace, cit., p. 55.
Vanessa Maggi, La città italianissima. Usi e immagini di Trieste nel dibattito politico del dopoguerra (1945-1954), Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Urbino Carlo Bo, Anno Accademico 2018-2019
Il professor Diego de Henriquez è uno dei personaggi più interessanti e misteriosi della Trieste del dopoguerra. De Henriquez, che era nato a Trieste il 20 febbraio del 1909, aveva passato la propria esistenza a raccogliere armi ed attrezzature militari di ogni tipo (dalle divise ai carri armati) per creare un museo che, proprio esponendo apparecchiature di guerra, fosse invece un monito per la pace. Lo studioso volle dare a questo museo la seguente dicitura, che bene ci introduce nella conoscenza del “personaggio” de Henriquez: “Centro internazionale abolizione guerre e per la fratellanza universale e per l’abolizione del male e della morte dal passato e dal futuro, a mezzo dell’invenzione del tempo quale conseguenza dello svincolamento dallo spazio-tempo”.
Per questo museo fu istituito un consorzio, in forma di Ente di diritto pubblico in forza di un decreto prefettizio, già nel 1969. La durata di questo consorzio era fissata fino al 1984, e negli anni Settanta, il valore della raccolta era stimato in oltre 30 miliardi di lire.
Diego de Henriquez, nella sua lunga vita di collezionista iniziata ancora prima del secondo conflitto mondiale, raccolse anche un’infinità di documenti di argomento storico e trascrisse, in una miriade di quadernetti, le testimonianze che raccoglieva dalle persone con le quali parlava ed anche le scritte murali che lo colpivano, comprese quelle che trovava nei gabinetti pubblici. Questi quadernetti di appunti sono noti come i suoi “diari”: ed in essi ricopiò anche le scritte sui muri della Risiera di San Sabba (scritte che furono cancellate quasi subito dal GMA), che riportavano (così si dice) anche nomi di collaborazionisti triestini. Una parte dello smisurato archivio di de Henriquez bruciò assieme allo studioso nel magazzino di via San Maurizio 13, dove abitava assieme a buona parte della sua collezione, il 2/5/74, in un incendio che fu quasi sicuramente doloso.
Ma le indagini sulla strana morte di un uomo così speciale non furono molto accurate: come vedremo più avanti, ad esempio, l’autopsia fu effettuata appena sette mesi dopo la morte, che fu comunque archiviata come “accidentale”.
[…] Ricordiamo che de Henriquez aveva dato fondo a tutte le sue finanze per portare a termine il suo progetto di raccolta di materiali, e viveva praticamente in miseria nel magazzino attorniato dai suoi “tesori”.
[…] “Persona che si era recata in Comeno mi riferì che da quelle parti la popolazione civile non si mostrerebbe seccata dalla presenza dei militari jugoslavi che sono acquartierati in quella località, anzi quei militari si mostrerebbero buoni e mansueti ed in linea di massima non darebbero alcuna noia a quelle popolazioni”.
Questo scrive, testualmente, de Henriquez, alla pagina 8.098 del diario n. 34, che fu compilato nel 1947 e descrive molto bene l’atmosfera di quell’epoca. Leggiamo così che i soldati tedeschi ancora prigionieri si davano sempre più di frequente alla fuga, tra la disattenzione degli organi di vigilanza, e, se avevano qualche noia, ciò accadeva tutt’al più con la polizia austriaca una volta tornati oltre confine. Qualcuno rimase qui e trovò anche lavoro: un ingegnere della Todt, ad esempio, fu assunto dal Comune e confermò a de Henriquez di non perdere occasione per fare propaganda fascista tra gli operai ed infastidire, per quanto poteva, gli operai comunisti. Erano molti a Trieste a nascondere SS tedesche che avevano lasciato i campi di prigionia.
Anche de Henriquez nascondeva, a casa sua, un tedesco che poi fu fatto espatriare ad opera di una nobildonna molto amica delle SS, la duchessa Barbo, figlia del barone Codelli da Lubiana; i due erano dovuti scappare dalla città per l’azione dei “titini”. La duchessa rimpiangeva molto i tempi di Lubiana sotto i tedeschi.
Si parla anche di una organizzazione segreta che serviva a far rimpatriare clandestinamente i tedeschi fuggiti dai campi di prigionia; venivano accompagnati e nascosti a Malborghetto, dove due sorelle di cui si ignora il nome si occupavano di loro; al momento opportuno essi venivano condotti in Austria.
In alcune località friulane si vedevano militari italiani inquadrati, con i superiori in testa, che cantavano Bandiera rossa e la cosa era spiacevole per alcuni ufficiali. Alla pagina 8.107 il professore parla di una inchiesta jugoslava aperta contro l’UAIS di Pola: a Belgrado erano scontenti perché troppi italiani lasciavano la città nonostante le grosse spese effettuate per la propaganda acché rimanessero; dato, questo, certamente in controtendenza alla “vulgata” ufficiale che parla di “pulizia etnica” nei territori istriani passati alla Jugoslavia. Al Campo del Cacciatore, dove c’erano prigionieri tedeschi, si davano spesso feste, organizzate dai soldati tedeschi, con larga partecipazione di donne triestine e soldati alleati. Qualcuno, sui muri della città, nella scritta CNL trasformava la N in U.
[…] Nel 1947 de Henriquez, che nel maggio 1945 aveva nascosto alcuni ufficiali delle SS, oltre ad Esposito e D’Aquini, ebbe notizia confidenziale che la polizia alleata aveva aperto un fascicolo su di lui per questa sua attività. Preoccupato, si recò allora in questura dall’ispettore Umberto De Giorgi, affinché costui insabbiasse la vicenda. Quel giorno, De Giorgi stava per uscire per andare ad ispezionare delle foibe, e quello che riferisce il professore in proposito, riportato nelle pagine 8.621-8.622, è di un certo interesse.
Erano stati ritrovati i corpi di alcuni bersaglieri di Salò e la cosa rendeva soddisfatto De Giorgi, visto che era imminente il processo contro Maria Pasquinelli <54: dal punto di vista propagandistico la cosa sarebbe certo risultata utile a suo favore. Circa le ispezioni in corso presso le cavità carsiche, De Giorgi confidò all’interlocutore di avere qualche difficoltà a reperire speleologi adeguati. La cosa meravigliò de Henriquez: a Trieste vi erano allora, come vi sono oggi, notoriamente, molti speleologi, conoscitori delle grotte del Carso e tra i migliori d’Italia! Ma De Giorgi precisò: non era l’affidabilità tecnica ad interessargli, ma l’affidabilità “politica”! Inoltre, precisò l’ispettore, le ricerche andavano fatte nella massima segretezza ed assolutamente non alla presenza di giornalisti e testimoni < 55.
Ciò spiega molte cose circa l’uso propagandistico delle foibe che è in corso ancora oggi.
54 Maria Pasquinelli era la fanatica fascista che aveva assassinato l’ufficiale inglese Robin De Winton a Pola per “protesta” contro la firma del trattato di pace che assegnava l’Istria alla Jugoslavia; condannata a morte dal tribunale del GMA, fu poi graziata ed inviata in Italia, dove non ha scontato alcuna pena. Il processo si svolse a Trieste tra marzo ed aprile 1947 (nd.r.).
55 Eppure, quando si trattò di recuperare i 5 corpi dalla foiba di Gropada-Orlek (agosto 1946), l’ispettore condusse con sé addirittura dei cineoperatori che filmarono i recuperi (n.d.r.).
Claudia Cernigoi, Nota storico-biografica introduttiva a I Diari di Diego de Henriquez, sfogliati da Vincenzo Cerceo, diecifebbraio millenovecentoquarantasette, 28 giugno 2013