Non mancavano le critiche dalla parte di quel mondo cattolico che vedeva la fabbrica come minaccia della morale cattolica

Castefranco Veneto (TV). Fonte Wikipedia

La ricostruzione postbellica può essere definita come la fase d’impianto delle premesse sociali ed economiche della tipicizzazione economica del Nordest italiano.
Non è questa la sede per analizzare le complesse vicende della lotta partigiana e della fine del nazifascismo; certo è che anche il nostro territorio risentì dello scontro fra le due grandi correnti politiche dell’epoca: quella democratico-cattolica e quella socialista-comunista.
Ci pare inconfutabile che la resistenza nella Castellana [n.d.r.: anche Strada statale 245] fu opera delle forze cattoliche, in particolare del partito cristiano-sociale che allora si identificava in Corradino Cappellotto, organizzatore delle leghe bianche negli anni precedenti la guerra <1.
Il movimento partigiano nella Castellana però convogliava forze cattoliche di diversa estrazione politica. I partigiani che controllavano le zone nord della Castellana (Loria, Bessica, Ramon e Riese Pio X), al comando del prof. Primo Visentin, da tutti conosciuto come Masaccio, erano sotto l’influenza del partito cristiano-sociale. La zona sud della Castellana (Castello di Godego, Castelfranco, Sant’Andrea oltre Muson), era sotto il controllo dei partigiani Domenico e Gino Sartor, futuri appartenenti alla Democrazia Cristiana. Per Domenico Sartor la fine del conflitto segnerà l’inizio di un intenso periodo politico che lo vedrà onorevole della Democrazia Cristiana e “mente politica della Castellana”. La storia con Masaccio sarà meno riconoscente: morirà il 29 Aprile del 1945 ucciso per errore da uno della sua brigata: la Martiri del Grappa. La resistenza nel Veneto in ogni modo fu caratterizzata dall’assenza di un’identità politica tra i partigiani, logica conseguenza della scarsa coscienza politica della popolazione veneta.
La liberazione della Castellana risente perciò di un diffuso moderatismo politico e militare anche se non ci furono risparmiati morti e rastrellamenti assieme all’indubbio eroismo di molti, un nome per tutti, quello di Primo Visentin.
L’avv. Domenico Sartor, superata la fase della lotta partigiana, si fece portavoce nel ceto rurale del pensiero sociale della chiesa che in quegli anni con l’Associazione cristiana dei lavoratori italiani (ACLI) auspicava un impegno dei cattolici nella ricostruzione della società <2.
Negli anni successivi al conflitto nella Castellana vi fu una sorta di trasformismo politico; lo stesso Sartor era coadiuvato nella sua opera da ex fascisti. L’onorevole era dell’idea che bisognava accettare chi aveva cambiato opinione in merito al fascismo ammettendo l’errore delle scelte passate, e si era convertito alla politica della Democrazia Cristiana. Anche il fratello Gino ebbe un ruolo politico a Castelfranco e dintorni; essi per decenni furono le principali figure della vita politica locale <3.
Molti anni di guerra avevano lasciato i contadini allo stremo: mancavano i viveri, le case e il lavoro. All’appello da parte delle autorità di consegnare il raccolto e il bestiame all’ammasso comunale, i contadini rifiutarono preferendo la vendita dei loro beni al mercato nero cosa che consentiva facili guadagni e dava loro la possibilità di risollevarsi più velocemente dall’indigenza, nonché riacquistare dignità nei confronti della “città” <4.
Già nella primavera del 1946 la situazione politica del comune di Castelfranco Veneto, riferimento economico di tutta la Castellana, era ben delineata ed aveva assunto una linea moderata con la Democrazia Cristiana votata dal 63% degli elettori e l’elezione a sindaco di Gino Sartor, al quale si alternerà negli anni il fratello Domenico <5.
I primi passi verso una politica di rilancio economico del territorio si hanno già nel 1947 con la vendita, al prezzo agevolato di lire 7.000.000, dell’ex Casa del Fascio alle Manifatture Scardassi.
L’amministrazione Sartor è un susseguirsi di delibere per la concessione di agevolazioni all’insediamento di nuove unità produttive. Ciò non frena l’aumento del fenomeno migratorio che nel decennio 1950-60 registra circa 3.000 partenze <6. La popolazione nel mandamento di Castelfranco erano in continuo aumento e la situazione economica non permetteva l’assorbimento dell’eccesso di manodopera.
Tra le numerose iniziative di Sartor una in particolare interessa il nostro lavoro perché sarà il centro propulsivo del rilancio cooperativistico nella Castellana e permetterà alla Cassa Rurale di Vedelago di ritornare punto di riferimento del movimento cooperativo: l’Istituto Autonomo Statale per l’Agricoltura <8. Questo diverrà per Sartor un centro sperimentale dei suoi progetti di sviluppo economico per la Castellana. Il fine era quello di controllare il passaggio da un mondo rurale a quello industriale evitando gli strappi sociali di una veloce modernizzazione. Il progetto dell’Istituto del quale Sartor era anche Commissario Governativo si ispirava al modello francese delle “maisons familliales d’apprentissage rural” che prevedeva la partecipazione della famiglia ai programmi di studio dei ragazzi, con la partecipazione degli insegnanti nelle aziende dei loro studenti, per avere un rapporto diretto tra scuola e famiglia. Tutte iniziative intese a favorire la modernizzazione dell’agricoltura con l’aiuto delle cooperative fondate da Sartor stesso. La scuola aveva lo scopo di formare i dirigenti delle cooperative agricole; nel 1963 ne fonda ben 180, ma per gestire il complesso intreccio d’attività fondate dall’onorevole, nel 1959 viene istituito il CECAT, Centro per l’Educazione e per la Cooperazione Trevigiana <9. Nonostante gli sforzi di Sartor per evitare contrasti interni alla famiglia colonica divisa tra operai salariati e contadini, non mancavano le critiche dalla parte di quel mondo cattolico che vedeva la fabbrica come minaccia della morale cattolica. Non tutto il mondo cattolico era preoccupato dal corso degli avvenimenti, molti parroci riconoscevano nell’opera di Sartor il giusto comportamento adottabile di fronte all’inevitabile modernizzazione. Uno di questi era don Mattara, vicino a Sartor e interessato al rilancio economico di Vedelago e della Cassa che in quegli anni subiva il ritardo economico del Veneto rispetto al resto d’Italia. Gli innumerevoli sforzi di Sartor per creare un tessuto industriale nella Castellana basato su finanziamenti a pioggia e su salari modesti entra in crisi a fine degli anni ’60, precisamente nell’autunno caldo del ’69, che impone aumenti salariali spiazzando le industrie della Castellana che fondavano la loro competitività sul basso costo della manodopera più che sull’innovazione tecnologica.
Particolarmente grave per l’economia del mandamento di Castelfranco è la crisi che investe le aziende della famiglia Tamaro nelle quali Sartor è presente come amministratore, nonché presidente della capogruppo. E’ proprio lo stesso Sartor che, in seguito ad un deficit di due miliardi e mezzo si vede costretto a chiedere la gestione controllata dell’azienda che al tempo occupava più di 2000 operai nei quattro stabilimenti posseduti. La vicenda Tamaro è stata un duro colpo per Sartor, per l’economia Castellana, per i suoi dipendenti e per l’indotto che è venuto a mancare. E’ l’inizio del declino del movimento che Sartor aveva creato anche se molte delle sue iniziative, di matrice cooperativistica, ancor oggi sono attive e competitive nell’economia del terzo millennio.
[NOTE]
1 L. Urettini, Storia di Castelfranco, Il Poligrafo, Padova 1992, p. 184.
2 Ibidem, p. 193.
3 Ibidem, p. 199.
4 Ibidem, p. 200.
5 Ibidem, p. 202.
6 Ibidem, p. 210.
7 Ibidem, cit., p. 235.
8 Ibidem, p. 210.
9 Ibidem, p. 216.
Paolo Bernardi, Vedelago. Dalla Cassa Rurale di Prestiti di San Martino alla Banca di Credito Cooperativo Trevigiano, Università degli Studi di Verona, Anno Accademico 1999-2000