Maria Zambrano, attenta interprete del suo tempo e del pensiero femminile in cerca della risposta alla fatica che il vivere comporta

Maria Zambrano <11 è stata scrittrice e filosofa, mujer filosofo come amava dire. La sua vita è segnata dalla malattia, dalla guerra civile e dall’esilio.
Nel 1939, dopo la guerra civile e la vittoria del franchismo, fu costretta ad abbandonare la Spagna e tornò in patria ormai ottantenne.
La ricerca di un linguaggio in grado di esprimere la ricchezza della vita, la vivencia, nella sua dimensione partecipata e condivisa ne fa l’attenta interprete del suo tempo e del pensiero femminile in cerca della risposta alla fatica che il vivere comporta.
Non le bastano le parole per decir, dire, fissare una definizione, desidera che la parola non oggettivizzi, ma sappia esprimere, exprimir.
A tutti i suoi scritti la Zambrano affida la ricerca di una diversa modalità espressiva della ragione. L’impianto concettuale del discorso filosofico costringe in schemi rigidi la realtà ed impedisce di scoprire il senso profondo della condizione umana.
Nelle contingenze che di volta in volta ci colpiscono e destabilizzano troviamo i germi di una nuova nascita e solo ri-nascendo continuamente accettiamo la verità della vita che intravediamo nel passaggio dall’oscuro alla luce, dalla pienezza chiusa dell’interiorità alla trasparenza aperta della luce, nella discontinuità del nuovo inizio. Non basta conoscere è necessario accettare la verità che solo nella sua dimensione vissuta consente al mondo di diventare orizzonte, dove la nostra vita intrecciandosi con quella degli altri entra a far parte della realtà.
Quasi con un tono di voce particolare, la Zambrano si misura nello sforzo di andare oltre il dire, di tendere al limite, tra rigore filosofico e suggestione poetica, nello sforzo di superare la linea del confine tracciato dal taglio di chi usa l’astrazione concettuale che, precisando, esclude da sé la vitalità del sentire e impoverisce realtà. Il richiamo insistente alla riflessione sulla parola è la nota su cui tutta la scrittura della Zambrano si tende, perché ogni definizione non perda il rapporto che ha con la vita e l’intelligenza resti legata al corpo.
La ragione non abdica a se stessa, non si rimpicciolisce neppure, ma assume il profilo di uno stato aurorale, si adegua alla delicatezza del poeta, non insegue l’autorità del concetto, fa attenzione alle dimensioni embrionali, al dettaglio, a ciò che sfugge, rifiuta la categorizzazione che annulla le differenze e nega le ombre.
Scrive la Zambrano “Nascita della ragione poetica, giunta a me quasi alla cieca, nella penombra dell’essere e del non essere, del sapere e del non sapere, del luogo in cui si nasce e si disnasce, che è il più appropriato, il più proprio al pensiero filosofico. Quanto più consegnato, tanto più vivente, quanto più passivo, quanto più ardente, quanto più all’apparenza abbandonato, tanto più attivo” <12. Tale sentire si incarna in una profondità intima dell’essere, che è fisico e spirituale, nei corpi che crescono e deperiscono, nelle creature, non nelle figure del pieno né dell’elevato, ma bisognose di cure, segnate da una cavità, un vuoto, sotterraneo e oscuro. Nascere è una ferita nell’essere, una separazione sofferta, che la ragione può sanare se perde la sua astrattezza e si alimenta alla fonte della creatività poetica, da cui attinge un linguaggio vivo, alimentato da immagini e di metafore.
Solo la ragione poetica riesce a dar voce all’esperire la soglia, il limite che crea una discontinuità fondamentale tra presenza e assenza, oscuro e luce, passività e attività.
La ragione, che si riveste dell’abito dell’aurora, non dimentica di essere generato dalla notte, di provenire da un luogo privo di luce che precede ogni vita.
Le immagini che la scrittrice predilige rimandano ad un linguaggio personale, lontano dalla tradizione filosofica maschile: “Lo sguardo che emerge dalla notte – anche quando è la notte della storia, ha una disponibilità pura e intera – senza ombra di avidità,” sa evitare “la tirannia del concetto, che con l’esca della conoscenza soggioga la libertà” <13.
Il principio è nel buio che va colorandosi lentamente dei riflessi di luce e la verità nasce dalle viscere, dal fondo della terra: “solo quando lo sguardo e il visibile si aprono all’unisono si produce un’Aurora” <14.
La realtà si manifesta nel chiaroscuro che sfuma i contorni, scorre e si piega sulle asperità e le conche, dà spessore e profondità ai corpi, non li appiattisce levigandoli con l’uniformità dell’idea che li accomuna, li lascia apparire nel gioco di luci e di ombre. L’Aurora, come ripetono i poemi antichi, ogni volta che rinasce torna ad essere la dea ‘dalle rosee dita’ che scende sulla terra: le dita sfiorano e non afferrano gli oggetti, evitano il possesso che invece la mano esercita. La mano afferra e cattura, chiusa a pugno, nella storia della filosofia <15, è simbolo del concetto stesso.
Al contrario le rosee dita dell’aurora suggeriscono un contatto con il mondo che va illuminandosi, delicato e leggero, rispettoso di ogni essere, attento a quella comprensione che sfugge al pensiero concettuale.
Sono carezze che si posano sulla superficie dei corpi, gesti la cui intensa delicatezza Luce Irigaray analizza attentamente nel suo libro sull’etica della differenza sessuale.
Un dialogo a distanza fra due donne che amano il sapere, filosofe che si misurano con la complessità della conoscenza e la cercano con un contatto vero, compiuto con il gesto della mano e non solo con la metafora della mente.
Non basta la lucidità del pensiero perché il linguaggio crei una rete di significati che solo il movimento della parola può costruire, liberandosi dal dire per provare ad esprimere.
Per affermare Maria Zambrano ricorre ad una negazione <16. “Ma il dire non è esattamente la stessa cosa che l’esprimere” <17, sa qualcosa che non sa, accenna ad una dimensione non catturabile dal dire, dove nasce la profondità del vivere.
Invece, quando prende forma, il discorso logico circoscrive ciò che può essere detto, entra nel gioco delle relazioni e delle procedure astratte, così che la complessità del mondo sembra finalmente dipanarsi nella coerenza della struttura concettuale: invece proprio quello è il momento in cui sfugge l’essenza del vivere.
[NOTE]
11 Maria Zambrano nasce nel 1904 in Spagna, a Vélez-Malaga, un piccolo centro dell’Andalusia, poco noto e poco importante. Frequenta la scuola superiore a Segovia, dove la famiglia si trasferisce: lei e un’amica sono le uniche ragazze. Nel ’21 inizia gli studi di filosofia; è allieva di Ortega y Gasset e diventa professore ausiliario di metafisica all’Università di Madrid. All’avvento del franchismo lascia la Spagna dove torna solo nel 1984, dopo un esilio durato più di quarant’ anni. Nel 1988, è la prima donna insignita del Premio Cervantes; muore a Madrid nel 1991.
12 M. Zambrano, Chiari del bosco, Bruno Mondadori, Milano, 2004, pag. 45, 46
13 Dell’Aurora, op. cit., pag. 41.
14 Ibidem.
15 Nella filosofia stoica la mano chiusa a pugno è l’immagine della comprensione nel senso letterale dell’afferrare.
16 Come lei stessa sottolinea, nella sua autobiografia, il passaggio obbligato che le permette di legittimare la sua passione per la filosofia è quello della negazione ”… allenamento dell’angoscia di fronte alla conoscenza che si nega e al tempo stesso si dà nell’affermazione, nell’essere. Ciò che si afferma dicendo di no.” M. Zambrano, Delirio e destino, Cortina editore, Milano 2000, pag. 192.
Cristina Degan, Le parole delle donne. Modalità del discorso di genere e costituzione dell’identità femminile, Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Milano-Bicocca, Anno Accademico 2009-2010