E precisamente come dannunziano di stretta osservanza, il Martini ebbe una posizione sociale e mondana cospicua, ai suoi bei dì, in Genova

Genova: Via XX Settembre

Il 23 dicembre 1953 sempre «Il Secolo XIX» riporta una breve cronaca del funerale [del giornalista Mario Maria Martini], segnalando la presenza di Leonida Balestreri (presidente dell’Associazione Ligure Giornalisti), il marchese Ardissone, i fratelli Cameli e Virgilio, Mario Capocaccia, Pippo Mongiardino, Giovanni Pala, Valentino Gavi, Tito Rosina, da Milano «l’allievo prediletto Silvio Giovaninetti» e da San Fruttuoso di Camogli «un gruppo di pescatori, condotto da Giovanni Bozzo». Dopo il funerale «l’avv. Virgilio ha voluto esprimere il cordoglio di tutti i vecchi amici e la gratitudine dei genovesi per quanto Mario Maria Martini ha saputo offrire di lustro e di memoria alla nostra città» <22.
Nel gennaio 1954 è scritta l’ultima commemorazione a firma de «Gli Amici Pedanti» (ovvero, in questo caso, Giovanni Ansaldo): “L’ultima volta che lo abbiamo incontrato fu a Genova; l’estate scorsa. Egli era seduto, anzi, diciamo più propriamente, accosciato in una poltroncina di vimini, sotto il portico del Palazzo della Borsa, all’ingresso di un caffè. La pinguedine lo gravava, il caldo lo infastidiva; e tutto l’insieme della sua figura faceva sentire una decadenza fisica precoce, cui si associava – abbiamo ragione di ritenere – un disagio economico che a lui, sempre stato avvezzo ad una vita signorile, doveva pesare. Ma il viso serbava pur sempre la linea nobilissima della giovinezza; lo sguardo era sempre quello d’un tempo, nero e profondo, tra malinconico e sdegnoso; la ciocca dei capelli, ormai tutta grigia, scendeva sempre a metà della fronte; e la voce, oh la voce aveva pure, ancora, quel tono appassionato e caldo, e un po’ cantante, che aveva fatto innamorare di lui, al tempo della sua giovinezza felice, tante donne belle, quand’egli declamava loro i suoi versi d’amore. E la breve conversazione che ne seguì, fu conforme allo stile della sua vita; non toccò, non sfiorò neppure le angustie dei tempi, la precarietà della sua condizione, le cose basse e piccine di tutti i giorni. Fummo noi, che gli accennammo alla possibilità di fargli ottenere qualche collaborazione; e fu egli che acconsentì ad ascoltarci con aria leggermente blasée, come se fosse ancora negli anni delle studiate eleganze. Oh, come lo riconoscemmo indefettibilmente uguale a se stesso in quest’ultimo incontro! Perché la verità è che Mario Maria Martini morto il 21 dicembre a Genova, più assai che essere un poeta di doti eccezionali, ed un autore drammatico di rilievo, fu essenzialmente un tipo letterario, il tipo del «dannunziano», quale, nel decennio immediatamente anteriore alla grande guerra, tutte le città italiane lo ebbero; il tipo del letterato dotato di cultura e di ingegno, che imitava nella sua città il maestro, nelle idee, nello stile, e – sin dove era possibile – nel costume di vita. In certo qual modo lo rappresentava. E precisamente come dannunziano di stretta osservanza, il Martini ebbe una posizione sociale e mondana cospicua, ai suoi bei dì, in Genova; e fu conosciuto per tutta l’Italia. Egli era nato a Genova, da famiglia civile, nel 1885. E, giovanissimo, dotato di un volto apollineo, di una ornata cultura e di uno spirito amante di tutto ciò che era bellezza, e finezza, anzi, raffinatezza, si aprì presto una strada nel giornalismo e nella società. Diventò critico teatrale del «Caffaro», l’antico giornale fondato dal Barrili, e che pure nel solo titolo, derivato da quello di un cronista medioevale, testimoniava una tradizione di gusto e di cultura; e le sue tre m fatidiche, con cui siglava i suoi resoconti, attirarono per anni l’attenzione di molte belle donne; le quali leggevano, un po’ perché erano curiose di conoscere l’opinione del critico, un po’ perché sapevano che quei tre m erano iniziali del nome di quel giovane pallido bruno, che portava lo smoking e il monocolo così bene, ed aveva entratura nelle case più strette e gelose dell’aristocrazia genovese, ed era un po’ il princeps juventutis delle nuove leve mondane. Ad un certo punto, alle critiche si aggiunsero i lavori teatrali, quali “Gli emigrati” e “L’ultimo Doge”. E allora le premières di questi lavori subito divennero, a Genova avvenimenti mondani; e le belle donne si ritrovano tutte come ad un appuntamento a vedere, di più, a sperare nel successo del loro autore, del giovine pallido e bruno, che «rendeva» tanto bene l’ideale del poeta, come vagamente ondeggiava e fluttuava nelle loro fantasie… Poi venne la guerra del 1915. Il Martini che aveva conclamato la necessità dell’intervento e che era stato accanto a d’Annunzio nelle giornate genovesi del maggio, la combatté come ufficiale di fanteria, e la chiuse a Fiume, nella segreteria politica della Reggenza. Gli parve, certo, allora, che gli ideali politici della sua giovinezza fossero per adempiersi, e fossero arrivati i giorni in cui l’Italia doveva essere governata dai poeti… Fu governato invece da Mussolini. E il Martini aderì al fascismo e fu fascista con un sentimento di cui ora sarebbe offesa per lui negare il fervore. Ma nel fascismo si trovò e non si trovò. Quella venatura fortemente aristocratica di opinioni e di gusti, ch’era in lui lo confinò, per necessità, in una posizione un po’ al margine. Pubblicò per anni una decorsa rivista: «Le Opere e i Giorni», che ebbe sempre un tono più nazionalista che fascista. Ed egli fu, nel regime, poco più che un letterato che si andava a cercare per qualche commemorazione di impegno; non più. Soltanto quando il regime fu per cadere ebbe un valido aiuto per la costituzione dell’Istituto per la Storia di Genova. Ma l’impresa editoriale, che egli avviò con onore, fu travolta dalla guerra del 1940. Gli ultimi anni di sua vita furono malinconici. La catastrofe del paese aveva colpito a morte gli ideali estetici e politici in cui aveva creduto. Egli ebbe fastidi gravi, che sopportò con noncuranza. Fu uno dei pochi italiani che, una volta passata la bufera, non parlassero più delle loro prigioni, e non si atteggiavano a martiri. Si accontentò di sedere ad un tavolino di caffè di via XX Settembre e di attendervi la morte. Lo confessiamo, ora che siamo alla fine del suo cenno biografico: quel giorno che lo vedemmo, ce ne parve già segnato, e consapevole d’esserne segnato” <23.
Un anno dopo, in occasione del primo anniversario della morte, lo ricorda Carlo Otto Guglielmino nuovamente nel «Corriere Mercantile» (dove tra l’altro fa ripubblicare l’ultimo articolo di Martini scritto per il medesimo quotidiano): “Mario Maria Martini un anno fa – proprio di questi giorni decembrini – si congedava per sempre da noi. E con quel congedo si chiudeva, con la giornata terrena del poeta, tutta una pagina di vita genovese: quella che racchiude l’epoca accesa e romantica che ha per sfondo, in contrasto, e la vita dei caffè – il «Roma» e il «Gambrinus» – e le piazze gremite a salutare soldati che partivano prima per le sponde libiche, poi per le trincee carsiche. I caffè erano, per i coetanei di Mario Maria Martini, una palestra dove si affinavano le idee: e fu in quegli ambienti che nacquero riviste d’arte, romanzi, commedia, versi belli e, perché no?, anche brutti. Mario Maria Martini emerse, ancora adolescente, in quegli ambienti. Assunto dal «Caffaro» quale redattore teatrale, parlatore affascinante e brillante, signore nato, diventò una delle figure più note della Genova intellettuale ed elegante. I suoi versi venivano declamati nei salotti, le «prime» dei suoi lavori teatrali erano un pretesto, al di là dell’interesse degli appassionati di teatro, per raduni mondani. Ma da questo ambiente brillante, un po’ scettico e un po’ falso, egli seppe strapparsi non appena la Patria levò la sua voce da Quarto, attraverso la voce stessa di un altro Poeta che Martini considerava il suo maestro. E vestì il grigioverde quasi con umiltà, e salì il calvario della lunga prima guerra, fante tra i fanti e di questi anni di duro sacrificio, di valore e di passione, dei quali non menò mai vanto, resta una delle sue più belle poesie dedicate a un soldato del novecento. E a guerra finita riprese la penna per scrivere ancora bellissime cose, ma la posò tosto per indossare di nuovo la sua vecchia divisa scolorita dal sole e dalla pioggia per correre a Fiume dove il suo Maestro lo chiamava. Negli anni del fascismo non speculò sul suo passato di combattente e di nazionalista e pago di scrivere ancora cose belle, cose che resteranno, e di dar vita a una rivista – «Le opere e i giorni» – che aveva progettato a Fiume. Nel tragico dopoguerra sopportò con dignitosa fierezza la prigione, l’ingenerosità di molti che pur in passato aveva creduto amici, e le difficoltà di una vita sempre più esigente, sempre più nemica dei poeti. Negli ultimi tempi, già malato, sostava al Caffè Borsa, dove gli amici e alcuni giovani, quasi a turno, gli tenevano compagnia, sollecitando i suoi ricordi, ascoltando i suoi antichi e i suoi ultimi versi. Era un dicitore di rara efficacia e pareva, ad ascoltarlo, di ascoltare della raffinata musica. E se ne è andato così, con la Poesia ultima compagna, con questi versi che fiorivano nel suo freddo inverno quasi una primavera di continuo rinnovata, quasi un susseguirsi, un esplodere di germogli e di corolle meravigliose. E l’hanno accompagnato nella bara le due cose che aveva più care: il rosario di sua madre e la medaglia che si era guadagnata lassù, vivendo per mesi nel fango e tra i pidocchi, lui Soldato” <24.
[NOTE]
22 I funerali di M.M. Martini, in «Il Secolo XIX», 23 dicembre 1953, p. 4.
23 Gli Amici Pedanti [Giovanni Ansaldo], Mario Maria Martini al principio del secolo fu un fedele adepto delle idealità dannunziane, in “Personaggi di un mese” [rubrica], in «L’Illustrazione italiana», LXXXI, 1, gennaio 1954, p. 13.
24 c.[arlo] o.[tto] g.[uglielmino], Le ultime pagine del Diario inedito di Mario Maria Martini. Ebbe compagna la Poesia sino al giorno del Congedo, in «Corriere Mercantile», 23 dicembre 1954, p. 3
Stefano Giordanelli, Mario Maria Martini, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Genova, 2011