C’era anche un altro modo di veicolare messaggi di natura politica attraverso le figure degli atleti del proprio schieramento

[…] Nonostante la forza politica della sinistra socialcomunista, e l’esistenza di una rete di associazionismo sportivo ad essa collaterale (quella organizzata intorno all’UISP – Unione Italiana Sport Popolare, fondata nel 1948), <2 mancava in quel periodo in Italia un grande campione di orientamento comunista: i ripetuti tentativi da parte del PCI di accostare il nome di Coppi a quello del Partito non andarono a buon fine. Altrettanto si poteva dire per il PSI. Di conseguenza, sui periodici della sinistra non veniva esaltato un singolo campionissimo, bensì piuttosto una molteplicità di figure di atleti “democratici” (il termine usato per alludere a campioni di simpatie comuniste), non solo italiani, e spesso di quelli sovietici. In questo articolo cercherò di individuare i tratti caratteristici attribuiti dalla stampa filocomunista a questi campioni, basandomi sullo spoglio sistematico di due diverse riviste: la prima rivista ufficiale dell’UISP, «Sport Popolare», e il settimanale «Toscana Nuova», organo regionale del PCI toscano. Studiare la stampa locale mi sembra particolarmente importante, visto che il circuito delle gare dell’UISP, e in particolare di quelle di ciclismo, era regionale. A vincere e ad affermarsi nell’UISP non erano i grandi campioni, bensì delle “giovani promesse” molto popolari nei paesi e nelle province da cui provenivano e in cui gareggiavano. A fianco delle piccole glorie dell’UISP sui giornali del PCI venivano poi ritratti alcuni dei più importanti alfieri dello sport socialista, “in primis sovietici. Alle due tipologie di atleta corrispondevano due diverse modalità di
rappresentazione, come cercherò di dimostrare meglio più avanti. Tuttavia, un elemento accomunava gli uni e gli altri: l’essere atleti maschi”.
[…] Superata la prima fase di ostilità ideologica, quando i vari movimenti socialcomunisti europei iniziarono ad interessarsi attivamente allo sport, finirono per accogliere, almeno in parte, questa impostazione. In particolare, diffusa era la convinzione che i giovani maschi potessero acquisire, grazie all’attività fisica, un maggior autocontrollo. <6 Negli articoli sugli atleti di sinistra, la caratterizzazione di genere è rintracciabile in due prospettive differenti, per quanto tra loro strettamente interrelate. Un primo modo di presentare i campioni “democratici” era quello di parlare direttamente della loro preparazione sportiva, concentrandosi in particolar modo sulle metodologie di allenamento. A questo approccio si legavano considerazioni di carattere non soltanto morale, ma spesso anche scientifico e ideologico. L’atleta, e specialmente il suo corpo, diventavano una metafora di valori politici e sociali. La sociologia di Pierre Bourdieu ha sottolineato come si crei un rapporto molto stretto tra il modo in cui uno sportivo modella il proprio corpo e l’insieme dei suoi valori etici ed estetici. <7 Questa osservazione si può estendere anche alla maniera in cui i giornalisti filocomunisti cercavano di presentare il corpo degli sportivi. D’altra parte, c’era anche un altro modo di veicolare messaggi di natura politica attraverso le figure degli atleti del proprio schieramento. Si trattava, piuttosto che concentrarsi strettamente sull’attività fisica svolta dal campione, di allargare lo sguardo alla sua vita extrasportiva (famiglia, lavoro, impegno politico), cercando di rintracciarvi il più possibile attestazioni di moralità.
In questo modo lo sportivo da un lato diventava una dimostrazione vivente dell’integrità morale del proprio gruppo di appartenenza, dall’altro andava a costituire un modello di comportamento per i maschi più giovani. Nella maggior parte degli articoli che ho analizzato, i due aspetti sportivo ed extrasportivo tendevano a intrecciarsi.
Tuttavia, sussistevano delle differenze sostanziali tra le due diverse figure degli atleti dell’UISP e di quelli di paesi socialisti. Nel descrivere gli sportivi legati all’UISP se ne sottolineavano soprattutto le doti umane, si dava molto spazio alla dimensione privata, spesso si indulgeva alla retorica dei buoni sentimenti.
I ritratti dei campioni sovietici, invece, erano molto più caratterizzati in senso politico e ideologico. Non solo: era anche più approfondito il discorso medico, scientifico e fisiologico, soprattutto relativamente alla metodologia di preparazione. In sintesi, mentre gli atleti dell’UISP venivano per lo più rappresentati come dei “bravi ragazzi”, i campioni sovietici finivano quasi sempre per essere dipinti come individui del tutto eccezionali (e vincenti), sia dal punto di vista fisico che morale.
Credo che questo atteggiamento vada messo in relazione con la tendenza della stampa legata al PCI dei primi anni Cinquanta a dipingere l’Unione Sovietica in una prospettiva che Michael Schipperges ha definito “altamente idilliaca, idealizzata e – in qualche maniera – mitica”. <8 Sulle pagine dei giornali della sinistra si sottolineavano di continuo l’eccezionalità (positiva) del regime sovietico e gli straordinari successi da esso conseguiti in ogni campo.
Questo valeva anche per lo sport, dando un grande rilievo alle vittorie ottenute da squadre e atleti sovietici in occasione delle principali competizioni internazionali, come le Olimpiadi. <9 Le vittorie venivano presentate come il frutto della nuova impostazione adottata dai regimi socialisti, anche a livello di politica sportiva. La stessa figura dell’atleta socialista veniva proposta come diversa e innovativa, mettendola direttamente in correlazione con la visione antropologica dell’uomo sovietico come “uomo nuovo”: uomo maschio, chiaramente.
Il caso dei ciclisti usciti dalle file dell’UISP era un po’ differente. Si trattava di personaggi molto conosciuti a livello locale, ma non di primo piano a livello nazionale, anche perché il circuito delle gare dell’UISP era separato da quello dell’Unione Velocipedistica Italiana (UVI), la federazione ciclistica ufficiale. Nel descrivere questi atleti, quindi, se ne esaltavano non tanto le doti agonistiche, quanto piuttosto la moralità in un senso più ampio: una moralità che era messa implicitamente in correlazione con l’identità politica. Studiando la morale comunista dell’epoca, Sandro Bellassai ha rilevato come all’interno del PCI fosse molto sentita la necessità di una legittimazione etica del Partito e dei militanti, a causa della virulenza degli attacchi cattolici contro l’ateismo marxista. Questa legittimazione veniva cercata non tanto proponendo una morale alternativa a quella cattolica, bensì piuttosto adeguandosi sostanzialmente alla mentalità popolare, al senso comune, in contrapposizione semmai con una non ben definita morale borghese. <10 Da qui derivava anche la caratterizzazione che veniva data sui giornali della sinistra ai campioncini dell’UISP: l’aspetto ideologico era abbastanza marginale, mentre predominavano toni che definirei da “libro Cuore”.
Anche in questo caso, come vedremo, si trattava di atleti non solo di sinistra, ma anche maschi.
[…] La parzialità del genere maschile ha così teso a universalizzarsi, e di conseguenza a scomparire a un primo sguardo. <11 Questo vale anche per il modo in cui venivano rappresentati sulla stampa gli atleti dell’UISP. Mentre delle poche atlete donne si sottolineava sempre l’appartenenza di genere, degli atleti uomini non si evidenziava mai il fatto che fossero maschi, perché era ritenuto naturale. Ciò non significa che le rappresentazioni che se ne davano non si caratterizzassero per essere rappresentazioni di figure mascoline e molto spesso anche virili, intendendo per virilità la concezione egemone e normativa dell’essere uomini. <12
La connotazione di genere nei profili degli atleti filocomunisti l’ho quindi rintracciata indirettamente, nelle pieghe del discorso giornalistico.
[NOTE]
2 Sulla UISP cfr. B. Di Monte, S. Giuntini, I. Maiorella, Di sport, raccontiamo un’altra storia: Sessant’anni di sport sociale in Italia attraverso la storia dell’UISP, Molfetta, La Meridiana, 2008; L. Goretti, Sport popolare italiano e Arbeitersport tedesco occidentale (1945–1950), in «Passato e presente», Vol. 27 (2009), n. 78, pp. 65–88; L. Martini, Nascita di un movimento: I primi anni dell’UISP, Roma, Seam, 1998.
6 Sull’antisportismo dei socialisti italiani a inizio Novecento si veda L. Rossi, Giovinetti pallidi della rivoluzione, in «Lancillotto e Nausica», n. 3 (1986), pp. 50-55. Sulla graduale accettazione del modello normativo di mascolinità borghese da parte dei socialisti, anche per quello che riguardava l’attività fisica, si veda lo studio del caso austriaco in. G. L. Mosse, L’immagine, cit., pp 163-165.
7 Cfr. P. Bourdieu, Sport e classe sociale, in A. Traversi, G. Triani (a cura di), Sociologia dello sport, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1995, (ed. or. 1978), pp. 72-73.
8 M. Schipperges, Il mito sovietico nella stampa comunista, in P. P. D’Attorre (a cura di), Nemici per la pelle. Sogno americano e mito sovietico nell’Italia contemporanea, Milano, Franco Angeli, 1991, p. 509.
9 Sull’importanza propagandistica delle vittorie olimpiche si vedano A. Aledda, Sport. Storia politica e sociale, Roma, Società Stampa Sportiva, 2002, pp. 294-296, e S. Pivato, L’era dello sport, Firenze, Giunti-Casterman, 1994.
10 Cfr. S. Bellassai, La morale comunista. Pubblico e privato nella rappresentazione del Pci (1947-1956), Roma, Carocci, 2000, pp. 135-138. Per uno studio dettagliato su origini, caratteri e trasformazioni della moralità comunista nel secondo dopoguerra, si veda Ivi, pp. 115-200.
11 Cfr. M. Vaudagna, Gli studi sul maschile: scopi, metodi e prospettive storiografiche, in S. Bellassai, M. Malatesta, Genere e mascolinità. Uno sguardo storico, Roma, Bulzoni, 2000, pp. 14-16; si veda anche S. Bellassai, La mascolinità contemporanea, cit., pp. 29-32.
12 Sul concetto di virilità, sul suo significato e sui suoi limiti negli studi storici si veda J. Tosh, Come dovrebbero affrontare la mascolinità gli storici? in S. Piccone Stella, C. Saraceno, Genere. La costruzione sociale del femminile e del maschile, Bologna, Il Mulino, 1996, pp. 69-73.
Leo Goretti, “Sacrifici, sacrifici, e ancora sacrifici”. Sport, ideologia e virilità sulla stampa comunista (1945-1956) in (a cura di) Marco Fincardi, Lo sport e il movimento operaio e socialista, L’Almanacco, Istituto per la Storia del Movimento Operaio e Socialista «P. Marani», n. 59 – giugno 2012 http://www.almanaccoreggiano.it/

In questo delicato periodo di ricostruzione, accanto alla politica accentratrice del Coni emersero sulla scena sportiva nazionale alcune realtà associative che si dedicarono ugualmente allo sport, ma che spesso sorsero come attività collaterali a quelle dei partiti, come la Commissione Sportiva nazionale del Fronte della Gioventù (Di Monte, 2002, 116-117), o il Centro Sportivo Italiano (Csi) oppure il Centro Sportivo Libertas e, soprattutto all’inizio, divennero uno strumento di proselitismo.
La prima fu la Giac (Gioventù Italiana di Azione Cattolica), che proprio in virtù del rischio di un possibile avvento del comunismo, ripristinò quelle organizzazioni che erano state vietate dal fascismo <7. Così, su questa scia nel gennaio 1944 mons. Evasio Colli, direttore generale dell’Azione Cattolica, approvò la richiesta di Luigi Gedda di costituire un nuovo organismo specializzato per l’attività sportiva, il Centro Sportivo Italiano, nuova organizzazione che voleva avere un’impostazione più aperta rispetto alla vecchia Federazione delle Associazioni Sportive cattoliche Italiane (Fasci). Dopo una prima bozza dello statuto e del regolamento, questi entrarono in vigore a tutti gli effetti nel 1946, come diremo più diffusamente in seguito.
Nel 1944 fu dedicata un’associazione anche alle donne cattoliche, denominata Fari, Federazione Attività Ricreative Italiane, dove, oltre al canto corale, alla filodrammatica e alle escursioni turistiche, fu dedicato uno spazio anche all’attività fisica. I numeri erano nettamente inferiori rispetto all’associazione gemella maschile, d’altronde grandi erano ancora le remore psicologiche che bloccavano le donne impedendo loro di frequentare i campi sportivi, soprattutto nel mondo cattolico, e che le vedevano relegate ad attività secondarie, e soprattutto lontane da quelle che riguardassero la loro corporeità (Fabrizio, 1977, 135) <8.
Anche le Associazioni Cristiani Lavoratori Italiani (Acli), costituite nell’agosto del 1944, avevano tra le varie attività formative e di azione sociale anche quella sportiva che s’ispirava al modello dopolavoristico–ricreativo (Fabrizio, 1977, 139).
Non distante, come orientamento di pensiero, fu il Centro Sportivo Libertas sorto su iniziativa del democristiano Enrico Giammei, che nel settembre 1944 cominciò dando avvio ad un modesto torneo calcistico. L’importanza storica di questa organizzazione risiede nel fatto che un partito politico, per la prima volta, promuoveva un organismo collaterale in grado di soddisfare dei bisogni sociali ritenuti fino allora secondari (Fabrizio, 1977, 140).
La società si stava dunque arricchendo di nuove espressioni e di nuovi organismi che si dedicarono allo sport, ma rispetto alla rapida ripresa dello sport cattolico, più lenta e travagliata, fu la crescita delle organizzazione sportive della sinistra a causa di una tradizione più povera nel campo delle attività ricreative.
Le Associazioni Sportive Socialiste (Assi), sorte a Mantova nel 1948 all’indomani della liberazione in alcune roccaforti del partito socialista, a Milano, Genova, Savona, Bologna, Firenze, Reggio Emilia erano istituzioni spontaneistiche, chiuse, che fungevano da reclutamento. L’attività sportiva, pertanto diventò strumento di conquista e di avvicinamento dei giovani al partito (Fabrizio, 1977, 159). In particolare c’era la volontà di stringere una stretta collaborazione con le diverse componenti dell’associazionismo sportivo popolare, in particolare con la Uisp.
La Unione Italiana Sport Popolare, l’Uisp <9 appunto, uscì allo scoperto solo nel 1948, con due iniziative interessanti, a Roma e a Bologna. Nella capitale si svolse un convegno sullo sport popolare, in cui si affermò che lo sport non doveva essere un fatto privato ma un evento sociale.
«lo sport […] non è solo un problema di miglioramento fisico individuale o di prestigio cittadino e regionale o nazionale, ma è soprattutto un problema sociale, e come tale va collocato nel contesto più ampio delle lotte intraprese dai giovani e dai lavoratori per ottenere concrete riforme sociali ed economiche» (Fabrizio, 1977, 155).
A Bologna invece vennero organizzate le piccole Olimpiadi, con forme elementari di attività sportiva che, proponendo delle attività più semplici aveva l’obiettivo di reclutare un maggior numero di persone, normalmente esitanti. La Uisp, rispetto all’associazionismo cattolico dovette affrontare diverse problematicità a causa della forte diffidenza da parte del Coni. Infatti le difficoltà si materializzarono nella mancanza dei campi e dei finanziamenti e l’unione cominciò ad intensificare l’impegno promozionale per riuscire ad incrinare quella forte indifferenza da parte delle organizzazioni ufficiali. Mancò però, alla Uisp, la capacità di proporsi come alternativa reale al modello allora in voga, e la sua logica, almeno inizialmente, ruotò anch’essa attorno alla logica dell’efficienza, del risultato, della selezione degli elementi di spicco.
«Grava[va] sull’evoluzione del movimento sportivo democratico una concezione del ruolo delle organizzazioni di massa «prevalentemente fondata sul collateralismo» che frusta[va] i tentativi di sviluppo autonomo, blocca[va] l’elaborazione di indirizzi originali, tende[va] a fare dell’UISP e più ancora, come vedremo, dell’Assi, degli argomenti meramente strumentali, incapaci di assolvere le loro funzioni precipue di mezzi associativi» (Fabrizio, 1977, 158).
Il collateralismo rappresentò quindi per la stessa organizzazione un freno nei confronti di qualsiasi iniziativa creativa e originale nei confronti dello sport.
Da ricordare inoltre l’Enal, Ente Nazionale Assistenza Lavoratori, che era un’istituzione subentrata all’Opera Nazionale Dopolavoro e che permise alla maggioranza dei lavoratori di accedere ad una pratica sportiva e ricreativa che andasse oltre quella proposta dal dopolavoro, e che si caratterizzò per la ricerca di un’educazione al senso civico da parte dei lavoratori. Mentre l’Ente Gioventù Italiana, la ex GIL, non esercitò alcun ruolo attivo se non quello di gestione degli immobili già di proprietà della stessa, poiché la ginnastica fu riportata sollecitamente in seno alla scuola e dunque del Ministero della Pubblica Istruzione.
Mentre per il mondo universitario venne istituito il Cusi, Centro Universitario Sportivo Italiano, prima a Padova nel marzo del 1946, poi a Roma due mesi più tardi; quest’istituzione fu il risultato di un compromesso tra le istanze riformatrici e le tendenze restauratrici.
É lecito domandarsi se questo eterogeneo associazionismo sportivo, che agiva sulla scena politica dell’immediato dopoguerra, aveva una matrice comune. Intanto questi organismi vengono chiamati Enti di propaganda sportiva, poi, come già accennato, furono organismi collaterali, che permisero alle istituzioni promotrici di allargare e approfondire la partecipazione. Essi erano controllati dai partiti politici con una sovrapposizione di appartenenza, il militante partecipava cioè tanto alla vita del partito che a quella dell’organizzazione sportiva. Ma questo rapporto strumentale impedì alle varie associazioni di esercitare in modo autonomo ed esclusivo la propria funzione precipua, impedendo loro quindi di approfondire un discorso qualitativo a livello di proposta sportiva.
[NOTE]
7 Ricordiamo tra esse l’Associazione Scoutistica Cattolica Italiana, il Centro Cattolico cinematografico, il Centro Radiofonico, il Centro Cattolico Teatrale, la Gioventù Italiana Operaia Cristiana, la Gioventù Studentesca.
8 Valida, per una corretta ricostruzione delle vicende storiche del movimento sportivo cattolico e per la ricca documentazione iconografica, è anche l’opera curata nel 2006 da Alberto Greganti, divisa in tre volumi e pubblicata in occasione del centenario del movimento sportivo italiano. Per approfondire invece le tematiche sullo sport femminile, sono utili i testi di Teja (1995; 2004).
9 Nata nel 1947 su iniziativa di Gennaro Stazio. Sul tema del rapporto tra la Uisp e lo sport sociale e sulla storia di questa associazione, si vedano specificatamente Martini, 1998; Di Monte, 2002; Di Monte, Giuntini & Maiorella, 2008.
Maria Mercedes Palandri, Lo sport cattolico italiano, dalla fine del II guerra mondiale alle Olimpiadi del Sessanta in El Futuro del Pasado, 6, 2015

<Il PCI di Togliatti è un partito di massa – che in pochi anni supererà i due milioni di iscritti – e un partito leninista e i due termini non sono in contraddizione tra loro. Caratteri originari del “Partito Nuovo”, che costituisco i tratti identitari perduranti della forma organizzativa comunista sono la forza del mito dell’URSS, l’eredità del PNF, il rapporto con la tradizione organizzativa e la penetrazione territoriale socialista. Per un partito ancora sostanzialmente privo di incentivi materiali da offrire ai propri quadri, gli incentivi simbolici assumono la doppia funzione insostituibile di ricompensa dello zelo del militante e di controllo delle zone di incertezza alla base del partito. Il carattere mitico della simbologia comunista conferisce alla “lealtà” al partito il profilo di fede>. <9
Era questa la base più solida del comunismo italiano, su cui costruire quel “Partito Nuovo” che Togliatti riprendeva dal modello sovietico ed anche da una attenta riflessione sull’esperienza fascista. Il PCI doveva divenire quindi l’organismo politico della classe operaia, composto da un apparato di professionisti e militanti organizzati in uffici dalle competenze e mansioni politiche ed amministrative, diffuso capillarmente a livello territoriale <10, presente nei limiti del possibile sui luoghi di lavoro, e saldamente a capo di una vasta rete di enti ed associazioni, organi funzionali alla politicizzazione di qualsivoglia attività sociale <11: semplicemente, uno Stato in fieri, lo «strumento per legittimare a livello di massa l’assunzione dello Stato liberal-democratico» <12.
Al contempo però Togliatti guardava al proprio Partito privilegiando un orizzonte più ampio rispetto alla rigidità strutturale del modello bolscevico e che discendeva dal carattere popolare e nazionale della lotta di Liberazione.
[NOTE]
9 De Angelis, I comunisti e il partito, p. 42.
10 Il «centralismo democratico» ed il controllo del centro sulle sezioni locali assumeva allora nuova importanza data l’estrema eterogeneità della realtà territoriale della base sociale del Partito Nuovo, dal rigido classismo dellearee del triangolo industriale al municipalismo delle aree appenniniche e padane, fino alle deboli e multiformi strutture del meridione e delle aree rurali più arretrate: Gualtieri, L’Italia dal 1943 al 1992, p. 39.
11 L’elenco di tali strutture para-partito annoverava tra l’altro a livello associativo la Federazione Giovanile Comunista Italiana (FGCI), sorta sulle ceneri del Fronte della Gioventù; i Partigiani della Pace, l’organizzazione più legata al Cominform; l’UDI, associazione femminile egemonizzata dal PCI; senza contare il primato acquisito in seno alla CGIL in ambito sindacale, mentre i socialisti perdevano anche il controllo della Lega delle Cooperative dopo il XXI Congresso del ’47 sempre in favore del PCI. Inoltre il Partito poteva contare su una vasta rete di società sportive, l’UISP (Unione italiana sportiva popolare), e di circoli ricreativi, le celebri Case del Popolo, che ancora negli anni Sessanta, nonostante la crisi organizzativa, si articolavano rispettivamente in 1.300 e 3.000 sedi sul tutto il territorio nazionale, per quanto concentrate nell’area padana ed appenninica (Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi, p. 394).
12 De Angelis, I comunisti e il partito, p. 103.
Massimo Sgaravato, La Primavera di Praga prima dell’invasione sovietica: la stampa comunista italiana, Tesi di laurea, Università degli Studi di Padova, 2012

Si apre qui uno dei capitoli più interessanti del «Pioniere» e soprattutto del colloquio della direttrice con i suoi giovanissimi corrispondenti, quello che investe il rapporto con bambine e adolescenti. Nell’API erano emerse varie difficoltà a raccogliere le bambine, nonostante l’opzione a favore dell’organizzazione separata per sesso <124, indotta anche dalla volontà di non dare esca alle accuse di parte clericale, e il calco di alcune attività tradizionalmente femminili <125; già un’organizzazione di massa centrata sui giochi, lo sport e le attività all’aria aperta si presentava, infatti, per le bambine, come una novità dirompente, spesso all’origine di perplessità e timori nelle famiglie <126.
Il «Pioniere», diretto da sempre sia a bambini che a bambine, a differenza del «Vittorioso» <127, rappresentò, grazie al contributo dei suoi redattori e col laboratori, ma specialmente della sua direttrice, uno spazio per rielaborare il rapporto delle lettrici con l’associazione e con il giornale stesso come strumento di comunicazione con il suo pubblico – confrontandosi con la sua struttura, le sue scelte e con la varietà di temi da esso proposti -, ma anche un luogo dove proporre e alimentare il dibattito in vista di una ridefinizione della cultura di genere e dei rapporti tra i sessi che interessavano il mondo degli adolescenti. In parte vi provvidero direttamente le pagine sportive, spartite in modo significativo, e tutt’altro che folcloristico, tra attività, gare e record femminili e maschili <128, in linea con le direttive comuniste di svincolare le ragazze dal rapporto quasi esclusivo o privilegiato con l’ambiente domestico
e di avvicinarle stimolando in loro la socializzazione e l’aggregazione nella costruzione dell’attività sportiva di massa <129.
Il «Pioniere» riservava spazio alle iniziative dell’UISP <130, che contribuirono a far nascere nelle ragazze il senso di solidarietà di gruppo, facilitando così la rottura dei pregiudizi comunemente diffusi sullo sport femminile, la sua affermazione come attività sia ludica che agonistica e, più in generale, il modificarsi dell’immagine della donna <131.
[NOTE]
124 Cfr. Atti del I Convegno nazionale dei dirigenti dell’Associazione Pionieri cit., pp. 53-54.
125 Nell’API alcune attività erano differenziate per sesso e, per le bambine, vicine ai compiti tradizionalmente assegnati alle donne. Gianni Rodari, lanciando una proposta che non trovò difficoltà ad essere applicata, suggeriva ad esempio la formazione di gruppi di cucitrici e ricamatrici, che avrebbero ricamato bandiere per i reparti ed emblemi e scudetti per i gruppi sportivi e le squadre di calcio, preparato addobbi per le feste dei pionieri, e infine cucito indumenti per ragazzi e anziani bisognosi (Manuale del Pioniere cit., pp. 138-139).
126 Nell’ambito dello scautismo laico, quella del ramo femminile aveva rappresentato non a caso una storia separata; si era trattato comunque di un’esperienza a carattere elitario; cfr. B. Pisa, Crescere per la patria cit., capp. VI-III.
127 Ciò dipendeva dall’alto livello di specializzazione della stampa cattolica e soprattutto dal ruolo assegnato alla distinzione per sesso nei percorsi formativi dall’Azione cattolica (cfr. Istituto di studi e ricerche «Carlo Cattaneo», Ricerche sulla partecipazione politica in Italia, IV, La presenza sociale del PCI e della DC, a cura di A. Manoukian, Bologna, il Mulino, 1968, pp. 345-396; L. Ferrari, Il laicato cattolico fra Otto e Novecento: dalle associazioni devozionali alle organizzazioni militanti di massa, in Storia d’Italia, Annali 9, La Chiesa e il potere politico dal Medioevo all’età contemporanea, a cura di G. Chittolini e G. Miccoli, Torino, Einaudi, 1986, pp. 970-974). Soltanto a partire dalla metà degli anni Cinquanta il «Vittorioso» cominciò a prendere in considerazione, in via del tutto parziale e accessoria, le esigenze e i gusti di un pubblico di ragazzine che potevano vantare diritti di cittadinanza come lettrici solo nel caso di testate di area cattolica assai meno attraenti, come «Vera vita» o «La Vispa Teresa»; cfr. S. Franchini, Per un nuovo pubblico di giovani lettrici cit., pp. 262-269.
128 Le pagine sportive del «Vittorioso» rappresentavano un modello giornalistico assai ambito per la ricchezza delle cronache e l’elevato livello grafico; non però, per il «Pioniere», sotto questo profilo, essendo rigorosamente riservate allo sport maschile. Sull’importanza assunta dal fenomeno sportivo nel secondo dopoguerra si è soffermato più volte, in particolare per quanto riguarda il versante cattolico, Stefano Pivato; per uno sguardo generale cfr. S. Pivato, Lo sport fra agonismo e proposta educativa, in Chiesa e progetto educativo cit., pp. 423-440.
129 Il modello sovietico rappresentava un punto di riferimento essenziale nel caso dello sport femminile; si pensi ad esempio al mito rappresentato dalle pallavoliste dei Paesi dell’Est europeo (per una ricostruzione a carattere locale dello sviluppo della pallavolo femminile all’interno dell’UISP cfr. A. Capanni, G. Palliccia, Dal Dopolavoro agli scudetti. Storia della pallavolo in provincia di Firenze dalle origini al 1980, Provincia di Firenze, Assessorato allo sport, 2002). Ma l’attenzione del «Pioniere» era riservata anche ai grandi sport nazionali, per quanto possibile in una società che tendeva ad escludere le donne da quasi tutti gli sport. Sul ciclismo femminile, considerato ancora un fenomeno esotico, sul quale era facile ironizzare, si segnalano ad esempio ben due articoli dedicati a Alfonsina Strada, rispettivamente di Giulio Crosti (Una donna ciclista, «Pioniere», n. 34, 30 agosto 1953, p. 7) e di Marcello Argilli (Una donna al Giro d’Italia, ivi, n. 29, 17 luglio 1955, p. 14), quest’ultimo presentato nella sezione 5, pp. 120-121.
130 Per qualche cenno generale sull’UISP cfr. Istituto di Studi e ricerche «Carlo Cattaneo», Ricerche sulla partecipazione politica in Italia, IV: La presenza sociale del PCI e della DC cit., pp. 257-272 e F. Fabrizio, Storia dello sport in Italia. Dalle società ginnastiche all’associazionismo di massa, Rimini-Firenze, Guaraldi, 1977, pp. 154-158; 181-186; per uno studio su una delle esperienze più avanzate, quella in area fiorentina, cfr. L. Senatori, Dallo sport popolare allo sport per tutti: le radici storiche. L’esperienza dell’UISP di Firenze, Firenze, Edizioni Polistampa, 2006.
131 Si veda in proposito l’accurata ricerca di L. Goretti, Da figlie di Eva a pallavoliste e pattinatrici. Le donne dello sport popolare a Firenze (1945-1955), in L. Senatori, Dallo sport popolare allo sport per tutti cit. Ringrazio Goretti per avermi permesso di leggere il dattiloscritto del suo saggio in corso di stampa.
Silvia Franchini, Diventare grandi con il Pioniere (1950-1962): politica, progetti di vita e identità di genere nella piccola posta di un giornalino di sinistra, Firenze University Press, 2006

Nel secondo dopoguerra costruire o riattivare case del popolo fu un compito al quale il movimento operaio emiliano si dedicò con grande vigore, scontrandosi con le ordinanze di sfratto e gli interventi polizieschi che miravano ad indebolire la forza organizzativa della sinistra. Nelle aree «rosse» alla galassia socialista delle case di inizio Novecento si sostituì un sistema programmato e sostenuto soprattutto dal Partito comunista. Non si trattava però di un’operazione «calata dall’alto»: il partito aveva un ruolo centrale ma «trovava corrispondenza in una tradizione comunitaria e associativa che ora si univa ad un protagonismo collettivo inedito». <171
Alcune ricerche hanno messo in luce il radicamento territoriale di queste strutture, la configurazione assunta nelle varie zone della regione e all’interno di una stessa provincia, la loro capacità di offrire molteplici occasioni di socialità,cultura, svago e di rappresentare un’alternativa alla rete associativa cattolica. <172
Dopo una prima fase caratterizzata dalla necessità di fare fronte alle difficoltà economiche e logistiche, le case del popolo divennero progressivamente degli spazi «polifunzionali»: «bar del paese, ambiente dove poter liberamente discutere e leggere i quotidiani, edificio ospitante sale da ballo e ambienti adatti al gioco», «biblioteca, cinema improvvisato o palcoscenico per le rappresentazioni delle compagnie teatrali amatoriali», sede di organizzazioni sindacali, collaterali (Anpi, Udi, Pionieri) e di associazioni sportive legate all’Uisp. <173
Un punto di forza di questa esperienza in Emilia-Romagna consisteva nella sua capillare diffusione anche nei centri minori.
[NOTE]
171 Lorenzo Bertucelli, Chiara Lusuardi, Le Case del popolo in provincia di Modena, Carpi, Apm, 2012, p. 17.
172 Luigi Arbizzani, Saveria Bologna, Lidia Testoni, Storie di Case del popolo. Saggi e immagini d’Emilia-Romagna, Casalecchio di Reno, Grafis, 1982; Bertucelli, Lusuardi, Le Case del popolo in provincia di Modena; Di nuovo a Massenzatico. Storie e geografie della cooperazione e delle Case del popolo, a cura di Antonio Canovi, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2012; Andrea Baravelli, Tito Menzani, Una storia popolare. Le Case del popolo del movimento operaio in provincia di Ravenna (1946-1966), Ravenna, Giorgio Rossi Editore, 2014; Tito Menzani, Federico Morgagni, Nel cuore della comunità. Storia delle Case del popolo in Romagna, Milano, Franco Angeli, 2020.
173 Baravelli, Menzani, Una storia popolare, p. 18.
Alberto Molinari, Dalla «battaglia delle idee» alle politiche istituzionali in (a cura di) Carlo De Maria, Storia del PCI in Emilia-Romagna. Welfare, lavoro, cultura, autonomie (1945-1991), Collana “OttocentoDuemila”, Italia-Europa-Mondo, 9, Bologna, Bologna University Press, 2022, qui ripresa da Clionet – Associazione di ricerca storica e promozione culturale