La prima staffetta partigiana d’Italia, Ondina Peteani, deportata ad Auschwitz con il numero 81672 ci ha lasciati ai primi dell’anno. Era nata a Trieste 77 anni fa. Entrò diciottenne nel movimento di Liberazione. Arrestata due volte, riuscì ad eludere la sorveglianza con rocambolesche fughe, ma l’11 febbraio del ’44 fu ripresa a Vermegliano (Ronchi dei Legionari) e segregata nel comando delle SS di piazza Oberdan da dove venne trasferita al carcere del Coroneo e quindi deportata dapprima ad Auschwitz, a fine marzo, e successivamente a Rawensbruck. Nell’ottobre dello stesso anno Ondina fu trasferita in una fabbrica di produzione bellica presso Berlino. A metà aprile del ’45, nel corso di una marcia forzata di 5 giorni che doveva riportarla a Rawensbruck, riuscì a fuggire dalla colonna di prigionieri, rientrando in Italia nel luglio. Aveva 20 anni. Come racconta chi l’ha conosciuta, la permanenza nel campo di concentramento ha rovinato la sua esistenza minando il suo fisico e il suo spirito tanto da farle dire spesso: «Non so cosa sia il sogno. Dal 1944 so benissimo cosa sia un incubo». Questa terribile esperienza non le impedì comunque di impegnarsi nella vita civile e sociale. Esercitò la professione di ostetrica […]
Redazione, Ondina Peteani prima staffetta partigiana, Patria Indipendente, 11 maggio 2003
Soltanto nell’aprile 1943 Lizzero riuscì ad informare i dirigenti del Partito Comunista della avvenuta costituzione della “Garibaldi”. Non senza qualche discussione giunse il consenso politico alla “Garibaldi”. Frattanto nella zona di Clap iniziarono i rastrellamenti per snidare i partigiani. Karis e i suoi non si sentivano al sicuro e così presero la decisione di spostarsi a Ronchi dei Legionari. Si era nel giugno del 1943 ed il distaccamento comandato da Mario Karis era composto fra gli altri da Giovanni Fiori, da Antonio Dettori e da Brunetto Parri.
L’arrivo inaspettato della “Garibaldi” suscitò sconcerto nel responsabile del PCI Vincenzo Marcon. Così si decise di prendere contatto con il gruppo che si era accampato in un bosco vicino a Monfalcone, incaricata di fare da staffetta fu Ondina Peteani.
Così Giovanni Fiori ricorda l’incontro: “Dopo qualche giorno venne la compagna Ondina Peteani “Natalia”, prima staffetta del movimento partigiano italiano, ci informava che il funzionario del Partito Comunista Italiano della zona Trieste-Monfalcone, certo “Davilla” (il suo vero nome, credo, Marcon Vincenzo) non trovava giustificazione della nostra presenza e ci considerava dei disertori. Da notare che ognuno di noi, come ogni volta, aveva una lettera e che il Karis le consegnò ai compagni del Partito Comunista di Udine. Quindi la compagna “Natalia”, dopo aver pernottato con noi nel bosco ripartì per Monfalcone”. Il gruppetto attese quattro giorni nel bosco ma, non avendo più notizie, decise autonomamente di raggiungere Ronchi dei Legionari. Qui si nascosero nella casa dei Fontanot (unici sicuramente affidabili) e di qui si spostarono a Trieste nella casa di Darko Pezza in via Seismit Doda.
Di fronte al fatto compiuto occorreva rifornire gli uomini e di mantenere i contatti. Occorrevano staffette, Ondina Peteani venne incaricata del compito. Finalmente Ondina è stata “rapita” e può “andare in montagna”. La realtà della guerra e i suoi pericoli non tardarono a togliere a tutta l’impresa il velo romantico che l’adolescenza vi aveva ricamato.
Redazione, Ondina Peteani, prima staffetta partigiana d’Italia, ANPI Bagno a Ripoli (FI)
[…] Ondina Peteani iniziò il suo impegno antifascista da giovanissima.
La precocità della sua militanza è spiegabile solamente comprendendo il contesto in cui visse. Nata il 26 aprile del 1925 a Trieste, trascorse la sua giovinezza a Ronchi, dove la sua vita si intrecciò con quella di una delle famiglie più note dell’antifascismo, non solo locale, che fu la famiglia Fontanot.
Nerina Fontanot, figlia di Gisella, unica sopravvissuta del ramo francese della famiglia che vide i suoi due fratelli ed un cugino morire ed essere celebrati come eroi della resistenza in Francia, ha raccolto per anni le memorie della sua famiglia. Nel racconto delle donne di casa emerge il radicamento e l’intensità del sentimento antifascista che animava quella generazione e che fu proprio anche di Ondina Peteani.
Dai racconti dei Fontanot emerge con forza l’importanza della comunità di paese nella formazione dello spirito antifascista e l’essenzialità delle reti di amicizia e di parentela che potevano supportare il rischio dell’impegno politico e della detenzione di alcuni membri, ma compare, con altrettanta evidenza, l’importanza per la loro formazione dell’esperienza dell’emigrazione e degli spostamenti non solo in Europa: da Vienna, alla Bulgaria, all’Africa, agli Stati Uniti, alla Francia, a contatto con diverse esperienze politiche e situazioni sociali.
Non va inoltre dimenticato il ruolo che giocò la grande fabbrica, il Cantiere Navale, nell’apprendistato politico di una nuova generazione di antifascisti, che spesso si formavano alla scuola dei “maestri”, i capi operai che, con il mestiere, trasmettevano ai ragazzi anche i primi rudimenti di una formazione politica.
Nella casa dei Fontanot di Ronchi, quando Vinicio tornò con la sua famiglia dalla Bulgaria nel 1935, vivevano ben 18 persone tra consanguinei e parenti acquisiti grazie ai matrimoni, persone tutte attive e note nell’ambiente antifascista triestino e monfalconese.
Attraverso le parole di quei protagonisti possiamo ricostruire con precisione il clima e l’attività politica di quegli anni, in particolare l’inizio precoce dei collegamenti con il movimento sloveno, rafforzatosi nel 1941 a causa della condanna a morte di Tomasic e per l’invasione della Jugoslavia. Così racconta Velia Fontanot, nipote di Vinicio. Nel monfalconese i rapporti con il movimento partigiano sloveno furono intensi, data anche la condizione di isolamento in cui si trovò la città, che aveva perso i contatti con Trieste e con il resto d’Italia a causa della repressione e dei numerosi arresti.
Ondina fu staffetta di Mario Karis, combattente nelle formazioni partigiane slovene e poi comandante del Distaccamento Garibaldi, e con lui scampò in maniera fortunosa e rocambolesca all’irruzione dei Carabinieri nella casa dove erano nascosti e dove invece vennero catturati i partigiani Fiori, Pezza e Dettori. Si tratta di vicende ancora non chiarite definitivamente, di contrasti tra Karis e Davilla, di sospetti che divisero i comunisti a proposito dell’ondata di arresti tra la fine di dicembre ‘43 e il ‘44 e che si inserivano in un quadro di repressione feroce del movimento partigiano. Le perquisizioni, l’eliminazione fisica, la tortura sotto la quale molti parlarono, fanno da sfondo alla vita rischiosa di questa ragazzina , che , scampata per un pelo alla sparatoria in cui perse la vita Alma Vivoda e rimase ferita Pierina Chinchio, venne infine arrestata una prima volta ai primi di luglio del 1943 a Ronchi, insieme a numerosi membri della famiglia Fontanot.
Così Ribella Fontanot ricorda quell’arresto: “Pochi giorni prima che venissero ad arrestarci, avevamo fatto il lancio dei manifestini a Vermegliano e a Ronchi, io, la zia Nina, mia cugina Vilma e Ondina Peteani Questo lancio durò tutta la notte. Ci hanno arrestato in casa il 3 luglio, di mattina. Eravamo tutti a letto, spogliati. Non ci hanno dato neanche il tempo per vestirci. Mi sono infilata un trench per uscire. Ci hanno portati a Monfalcone dove siamo rimasti diverse ore. Ma non c’eravamo soltanto noi. Hanno portato via tre corriere di arrestati, tutta Vermegliano!”
Accanto alla paura della detenzione e della tortura, un altro dramma coinvolse Ondina. Della spiata che portò in carcere tutta Vermegliano, venne accusata proprio lei. Fu sua madre che rivelò ad un gruppo della GAP venuto a casa sua per conoscere i fatti che a fare la spia era stata l’altra figlia, Santina, che aveva una relazione con un SS. Santina venne eliminata, e questa tragedia famigliare che aveva spinto una madre a sacrificare una figlia per salvarne un’altra non venne mai dimenticata.
E’ questo un esempio dei drammi che questi giovani dovettero affrontare e che segnarono l’intera loro esistenza.
Uscita dal carcere il 10 settembre Ondina partecipò alla battaglia di Gorizia e fu una delle pochissime donne di quella straordinaria impresa. Fu attiva poi nel Battaglione Triestino con incarichi di collegamento ed informazione e venne incaricata di una delle imprese epiche della lotta di liberazione in quei territori che fu la cattura e l’uccisione di Valter Gherlaschi, detto Blechi, il partigiano divenuto spia dei tedeschi , che fece arrestare decine e decine di antifascisti, girando per i paesi, aspettando l’uscita degli operai dal Cantiere e indicando gli oppositori ai tedeschi. Eliminarlo era fondamentale, ma nello stesso tempo estremamente pericoloso per la protezione e gli appoggi di cui godeva la spia.
Ricorda Giaccuzzo: “Ondina era in gamba e per questo fu scelta per far parte del gruppo che doveva smascherare Blechi. Si trattava di cinque compagni che dovevano essere persone sveglie, intelligenti e furbe, che dovevano individuarlo ed eliminarlo. Non potevamo e non volevamo commettere errori, col rischio di perdere l’appoggio della popolazione, che era già terrorizzata dai continui arresti che la delazione di Blechi stava provocando. Ci sentivamo un po’ in colpa di aver affidato proprio a lei, che era così giovane, una missione tanto pericolosa. Ma con attenzione e spirito di osservazione, riuscì ad individuare la spia.
Blechi venne ucciso da un gruppo partigiano il 2 febbraio del 1944″.
Ma ormai Ondina era segnalata, ricercata, braccata e correva seri pericoli.
Così nel novembre del 1944, mentre si dava da fare per raccogliere vettovaglie , indumenti, medicine per i partigiani, mancò all’appuntamento con Riccardo Giaccuzzo che ricorda così l’episodio: “ Quando il battaglione era stanziato a Temenizza, ogni sera si andava in pattuglia fino a Monfalcone per rifornirsi soprattutto di viveri, perché si era in pieno inverno e bisognava assolutamente distribuire del cibo a quelli che erano in montagna e che già pativano molti stenti. Per questo erano necessarie persone conosciute, perché si andava nelle case, da alcuni bottegai e presso famiglie di cui sapevamo di poterci fidare e che si incaricavano di raccogliere vettovaglie, indumenti e generi vari per i partigiani. Di queste spedizioni facevano parte oltre a me, con funzioni di comandante, anche la Ondina e altri compagni bene conosciuti nella zona. L’appuntamento per il ritorno era sempre al solito posto, sulla strada che da Selz porta a Doberdò. Una sera, alla metà di febbraio, dopo il solito giro, aspetto…ma Ondina non arriva. Vengo a sapere in seguito che era stata circondata dai fascisti per la delazione dei suoi vicini di casa”.
Fu dunque rinchiusa nel carcere del Coroneo, a disposizione delle SS che avrebbero potuto utilizzarla come ostaggio per le rappresaglie che i tedeschi mettevano in atto in risposta alle azioni di guerriglia partigiane.
Ricorda Ondina: “Alla fine di maggio ero nell’elenco di quelle che dovevano essere deportate. Non sembri strano se dico che ne fui contenta, ma durante la mia detenzione erano accaduti parecchi fatti preoccupanti: il peggiore era stato il prelievo di alcune detenute e la loro impiccagione per rappresaglia in via Ghega. Qualcuno già sapeva che qualcosa stava succedendo in Risiera. L’interprete mi disse “Vada via contenta, qui stanno accadendo davvero cose molto brutte. Meglio via, lontano da qui, che in Risiera”.
Così Ondina partì per Auschwitz all’alba del 31 maggio 1944, dal binario del silos, dove passavano le merci, relativamente tranquilla.
La fine della guerra e il ritorno alla normalità non ricondussero Ondina alla pace. […]
Redazione, Ondina Peteani, Dominae
«È bello vivere liberi» sono le ultime parole scritte da Ondina Peteani, l’epitaffio di una vita passata dalla parte dei giusti. Ha solo quattordici anni quando viene mandata a lavorare in un cantiere a Monfalcone: per la ragazzina l’incontro con compagni più grandi è l’inizio della formazione politica e quasi subito l’impegno nelle file della Resistenza. Il pericolo e la passione civile, l’entusiasmo della giovinezza e la forza delle idee: questa è la vita di Ondina nei territori orientali dove la repressione tedesca si fa molto dura dopo l’8 settembre. Nel 1944 viene arrestata e deportata nel Lager di Auschwitz: un’esperienza che la segnerà per sempre. Nel suo racconto non fa sconti, non c’è retorica nelle sue parole, ma solo la cruda, tragica realtà della ferocia umana. Ha guardato nel baratro e il ricordo la tormenterà per sempre, indelebile come il numero tatuato sul suo braccio. Nel dopoguerra, nonostante le ferite del corpo e dell’anima lasciate dal Lager, continua il suo impegno civile e politico. La sua è la storia emblematica di una generazione di donne che la guerra, paradossalmente, ha reso libere, ma che per quella libertà hanno pagato un prezzo elevatissimo“. Questo è un passaggio importante del libro “Ondina Peteani. La lotta partigiana, la deportazione ad Auschwitz, l’impegno sociale: una vita per la libertà” di Anna Di Gianantonio e Gianni Peteani.
E proprio alla figura di Ondina Peteani, la prima staffetta partigiana d’Italia, è dedicato il convegno che domani, giovedì 7 maggio, con inizio alle ore 16, si terrà a Roma presso l’Anrp (Associazione nazionale reduci dalla prigionia) in via Labicana 15/a.
All’evento, realizzato in occasione del 70° anniversario della Liberazione e coordinato da Lauro Rossi, interverranno Georges de Canino, Anna Di Gianantonio, Franca Pisani, Simona Lunadei. Sarà presente anche il figlio di Ondina, Gianni Peteani […]
Roberto Toffolutti, «E’ bello vivere liberi»: un convegno dedicato a Ondina Peteani, la prima staffetta partigiana d’Italia, Trieste news, 6 maggio 2015
Luogo di affetti e di giochi e di rapido apprendistato alla clandestinità, la casa diventa anche il luogo di incontro delle giovani antifasciste locali. Alma Vivoda frequenta la casa dei Fontanot e insegna alle giovani ragazze i rudimenti del socialismo, ma soprattutto le regole della lotta clandestina. Uno degli insegnamenti è l’ideale dell’uguaglianza tra uomo e donna. Le donne – come racconterà Ondina Peteani – devono saper fare tutto come gli uomini, dall’avvitare una lampadina ad imbracciare un mitra. Ed è questa passione per l’uguaglianza che sarà la molla per l’azione e l’impegno durante la Resistenza.
La «scuola di comunismo» di Alma Vivoda insegna alle ragazze anche le principali regole della clandestinità, molto utili quando tutte loro saranno arrestate nel luglio del 1943 a Ronchi <16. Ribella, figlia di Armido Fontanot e Lisa Pisac, nata nel 1922, racconta così il loro arresto e la messa a frutto delle regole apprese da Alma: “Quando ci hanno arrestato a Ronchi avevamo fatto il lancio dei manifestini a Vermegliano: a Ronchi i fascisti toglievano i manifestini da una parte e noi li mettevamo dall’altra. Per tutta la notte abbiamo fatto questo grande lancio: io, Nina, Ondina Peteani e Vilma. Gli uomini con zio Licio erano verso il cavalcavia dove si erano nascosti e i fascisti vicini sputavano dall’alto. Poi ci hanno arrestato in casa, il 3 luglio del 1943, di mattina, alle quattro, tutti spogliati; papà e mamma in una camera, io e mio marito in un’altra, non ci hanno dato neanche il tempo di vestirci, io sono rimasta in camicia da notte. Per andare via ho solo infilato un vestito sopra la camicia e un trench, ci hanno portato a Monfalcone dove siamo rimaste diverse ore… ma non c’eravamo solo noi. Hanno portato via tre corriere di arrestati… tutta Vermegliano, prima hanno incominciato a caricare noi. Quando siamo venute fuori, papà era seduto sui gradini, ammanettato, con il trench, io mi sono avvicinata e mi sono seduta vicino a lui e lui mi ha detto «Ribella, ho una carta molto compromettente per i compagni dell’Arsenale». Papà ha fatto finta di avere male di testa. Si è preso la testa fra le mani, due poliziotti stavano lì di fronte a noi ad aspettare, eravamo in tanti, tutta Vermegliano, tutti quelli del nostro gruppo su quelle scale. Papà ha appoggiato la sua testa sulle mie ginocchia e io piano piano ho preso la carta da dove mi ha detto. Era carta finissima che usavamo, sopra c’erano dei nomi, piano piano ho acceso una sigaretta a papà, l’ho accesa anche per me … poi ho chiesto di andare al gabinetto e papà mi ha detto: «Dillo a loro, ti porteranno». Allora sono andata in gabinetto con l’idea di strappare la carta e tirare l’acqua. Ma siccome era un po’ di tempo che io e Nina andavamo a Trieste a prendere lezioni da Maria Santalesa (Alma Vivoda) che ci insegnava la regole della cospirazione … non ho buttato la carta in gabinetto, per paura che galleggiassero dei pezzettini e a mio padre dissi che non avevo fatto niente, che avevo paura e seduta vicino a lui sui gradini, riuscii a nascondere la carta nelle mutandine. Da Monfalcone a Trieste avevo sempre questo pallone di carta … ma a Trieste, durante l’interrogatorio e la visita in prigione, la zia Ivanka ha vomitato addosso ai celerini, ci hanno fatto scendere tutti, ci hanno messo vicino all’acqua, mentre la lavavo ho buttato via la carta in acqua, nessuno si è accoro di niente”.
Quanta paura, quanta preoccupazione <17!
La convivenza con la violenza e con l’uso delle armi è, dunque, quotidiana ed il passaggio all’uso di esse non così difficile o traumatico.
[NOTE]
15 Archivio Fontanot, cit.
16 Ondina Peteani parla della «scuola di comunismo» di A. Vivoda, nome di battaglia di Maria Santalesa. La sua testimonianza in A. Di Gianantonio, G. Peteani, Ondina Peteani. La lotta partigiana, la deportazione ad Auschwitz, l’impegno
sociale: una vita per la libertà, Mursia, Milano 2011.
17 Archivio Fontanot, cit.
Anna Di Gianantonio, «Femminile irritante». L’esperienza femminile nella Resistenza tra racconto privato e discorso storiografico in (a cura di Diego D’Amelio e Patrick Karlsen) «QUALESTORIA» – Rivista di storia contemporanea – 2. Collaborazionismi, guerre civili e resistenze, Anno XLIII, N.ro 2, Dicembre 2015, Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli Venezia Giulia