Nel dicembre 1926 Mussolini telegrafò al Comune di Varese annunciando la sua decisione di elevare il circondario ad ente provincia, scindendo così il legame con il dipartimento del Lario risalente all’epoca napoleonica. Una scelta che rifletteva la centralità di un’area periferica ma limitrofa ad una regione culturalmente e linguisticamente affine come il Canton Ticino, culla – evidenziavano i locali maggiorenti fascisti dell’epoca – di una “malvagia minoranza di fuorusciti e rinnegati, sempre pronti a prestare man forte ad ogni aperto o oculato tentativo straniero ai danni della Patria” (Lodi; Maniglio 1987, 123). L’affermazione era certamente viziata dal ricordo della precedente esperienza risorgimentale, anche se la riesumazione della vecchia parola “fuorusciti” – come già evidenziato da Garosci (1953) – confermava una distanza amplificata da più vaste macchinazioni, che il nascente Stato totalitario avrebbe cercato di arginare tra difficoltà organizzative e locali abusi di potere. Si trattava di collusioni evidenti soprattutto nella zona compresa tra il lago Maggiore e l’alto Lario, dove i buoni collegamenti con l’alta Italia e la Svizzera meridionale ne avrebbero accentuato il valore, riconosciuto in particolare nell’ultimo tragico biennio di guerra.
In realtà già dal 1926 emerse prepotente il problema di ridefinire quei fragili equilibri regionali indeboliti dalle manovre cospirative di quell’anno, nonché dai successivi espatri per esempio di quadri intermedi e dirigenti socialisti quali Treves, Saragat, Zannerini e Nenni, accolti e soccorsi in Ticino dal fondatore di “Libera Stampa”, Guglielmo Canevascini (Cerutti 1986, 173). Ancora pochi numeri in quel periodo, ma sufficienti ad avviare con le loro macchinazioni e attività pubblicistiche dall’estero, un processo normativo che avrebbe svelato la nuova concezione strategica del fascismo. Le leggi di PS varate nel 1926 anticiparono infatti la ridefinizione di un’amministrazione periferica che, riorganizzata attorno al “Testo Unico della legge comunale e provinciale” del 1934, avrebbe fatto perno sulle nuove province come strumento di controllo per un regime ancora in fase di consolidamento. Non è un caso se tra i diciassette nuovi capoluoghi di provincia, istituiti con la parallela abolizione di settantacinque sottoprefetture, figurassero oltre a Varese altre cinque località di confine, tra cui le città di Savona e Aosta: la prima investita del controllo sulle vie di fuga in direzione della Francia – come aveva dimostrato il caso di Turati – la seconda invece elevata a contrafforte del Vallese e strumento di repressione dei locali particolarismi, stemperati in questo caso con le aggregazioni dei circondari eporediese e canavesano (Riccarand 1978, 153).
L’istituzione dei nuovi enti fu accompagnata pertanto da una riorganizzazione amministrativa che avrebbe comportato non solo un’espansione dell’apparato poliziesco, a partire dalla creazione di una Divisione polizia di frontiera e trasporti, ma una più profonda ristrutturazione dei servizi nelle quindici province di frontiera. Raggruppate in cinque zone con sede nelle prefetture di Genova, Torino, Como, Bolzano e Trieste, ciascun settore sarebbe stato affidato ad un funzionario di PS responsabile dei servizi a cui si sarebbero rivolti i prefetti delle singole province (Canali 2004, 107). I collegamenti e gli scambi tra l’antifascismo interno e i centri esteri sollecitarono così nuovi strumenti di contrasto a un’emigrazione politica che, ancora limitata numericamente, iniziava a guardare con crescente interesse alla vicina e neutrale Confederazione. Se nel 1929 la Svizzera accoglieva infatti soltanto trentadue fuorusciti, di cui tredici a Ginevra e appena nove in Ticino (Cerutti 1986, 178), la sua funzione di transito verso la Francia aveva rafforzato agli occhi del fascismo l’importanza di quelle provincie adiacenti ai tre cantoni meridionali di Vallese, Ticino e Grigioni.
[…] Dal punto di vista degli interessi particolari del Cantone – scriveva Severin – non è quindi da sconsigliare un maggior assorbimento di nostri connazionali nella compagine svizzero-italiana; vale a dire – per quanto la cosa possa sembrare inopportuna e contraria ai principi nazionali fascisti – che l’ottenimento della cittadinanza svizzera potrebbe essere consentito in più larga misura […]. Il problema etnico del Canton Ticino è dunque risolvibile nel quadro della costituzione elvetica stessa. Il fatto che gli italiani vedono di buon animo e si studiano di far comprendere l’urgenza di tale soluzione non deve far credere a presunte ingerenze. In più d’una occasione il Governo Fascista ha dato prove inequivocabili di amicizia, di comprensione e più d’una volta ha dimostrato che l’indipendenza elvetica è almeno utile per l’equilibrio e la pace europea, quanto quella austriaca <19.
Benché la tesi non sollevasse questioni apertamente irredentiste, provocò tuttavia dei malumori sfociati nell’espulsione di Severin dalla Confederazione. Un atto inviso al neoministro d’Italia a Berna, Attilio Tamaro, non tanto per quelle improbabili accuse di indebita ingerenza negli affari cantonali, quanto per la mancata difesa di un’italianità che Mussolini avrebbe garantito portando al Gottardo le frontiere del Regno. Il tentativo di riaffermare il controllo su quel cantone, dove persistevano anche infiltrazioni di matrice nazionalsocialista, avrebbe tuttavia compromesso la condizione degli italiani residenti, paragonata dal diplomatico a quella delle “popolazioni rurali austriacanti del Friuli e del Trentino prima della guerra di redenzione” <20. Il problema delle incessanti e arbitrarie espulsioni di molti italiani dal piccolo Stato investì anche il consigliere federale Motta che, nonostante i toni elogiativi riservati al capo del fascismo dopo l’incontro di Monaco, richiamò i suoi concittadini ad un maggiore rispetto verso il potente vicino. Anche l’appello alla moderazione rivolto a certa carta stampata, verso la quale lo statista airolese avrebbe comunque assicurato di mettere “nel difenderla tutto l’ardore della mia convinzione” <21, cadde nel vuoto di fronte ad una popolazione in buona parte avversa al fascismo. “I più – evidenziava l’ambasciatore Tamaro – soffrono di tutti i morbi della democrazia e della psicosi della frontiera, sono quindi decisamente ostili alla nostra politica […]. Vogliono in grande maggioranza essere italiani e lo dicono in tutti i toni, ma ciò significa per loro, specie in questi tempi, unicamente parlare italiano” <22.
Di fatto le autorità svizzere e ticinesi si piegarono a quell’ingombrante vicino che, nonostante la sua vaga politica di penetrazione culturale, poteva comunque garantire un adeguato argine alle minacciose infiltrazioni del Reich tra gli ambienti estremisti elvetici. Così le critiche sollevate da qualche foglio locale, o gli sporadici dileggi ai militari italiani, talvolta “circondati da un’atmosfera di avversione e apostrofati con parole ingiuriose”23, continuarono a disturbare un clima intralciato anche dalle posizioni tutt’altro che accomodanti di alcuni consiglieri ticinesi.
Il Tarchini – così scriveva a Palazzo Chigi nel 1940 il ministro Tamaro – è un vecchio e incorreggibile antifascista che non lascia occasione per far sentire questo suo veleno. L’Antognini, l’anno scorso, in seguito a un preteso incidente di frontiera, sollevò la stampa ticinese contro l’Italia, dichiarò pubblicamente che non sarebbe più andato nel nostro Paese e si comportò indegnamente, sotto ogni riguardo, verso di noi. Il Canevascini, socialista, è in rubrica per respingimento. Il Lepori tempo fa doveva essere messo nella stessa rubrica e non so perché la misura sia stata poi trasformata in sorveglianza <24.
Gli inviti ad evitare contumelie e volgari insinuazioni contro le forze armate italiane ebbero l’effetto di circoscrivere quelle diffamazioni tra i circoli antifascisti ticinesi, senza però modificare i sentimenti di un’opinione pubblica influenzata dall’evoluzione politica internazionale e dai bollettini di guerra. Gli uffici consolari d’Italia a Lugano segnalavano infatti che “il silenzio è sì aumentato, ma lo stato d’animo è sempre lo stesso e l’atteggiamento dei ticinesi è più che mai pronto a manifestare alla prima occasione favorevole la profonda e radicata mentalità antitaliana, a mala pena compressa” <25. Le autorità fasciste, ormai ridotto lo spazio di manovra, si limitavano ora a registrare quanto accadeva al di là del confine. Nel dicembre 1940 le crescenti difficoltà sui campi greci e africani obbligarono Mussolini ad abbandonare l’idea di una possibile guerra parallela, e le vaghe mire espansionistiche in direzione della Svizzera cessarono definitivamente. L’abbandono di un’attiva politica estera, e la completa subordinazione ai disegni di dominazione hitleriana, obbligarono così il duce a farsi garante dell’integrità elvetica, nel vano tentativo di affrancarsi dalla schiacciante oppressione alleata. Nell’ottobre 1940 il Ministero dell’Interno fu messo al corrente della vasta simpatia che godeva l’Inghilterra anche tra gli svizzeri d’oltre Gottardo, lungi dal nascondere i propri timori per le conseguenze di un’eventuale vittoria tedesca.
La Germania è estremamente mal vista. Si teme che essa vincendo la guerra – così riferiva un anonimo fiduciario – vorrebbe, nella migliore delle ipotesi, interferire nella politica interna ed economica svizzera, se non addirittura ridurre la Svizzera, come la Slovacchia, ad una specie di protettorato tedesco. Questa prospettiva non può certo sorridere ad un popolo che, come quello svizzero, è stato sempre gelosissimo della propria indipendenza. Nei riguardi del nostro Paese non mi pare che vi siano prevenzioni speciali, anche a causa della molto maggior misura che l’Italia ha saputo sempre conservare nelle sue relazioni con le altre Nazioni. Il fatto però di essere alleati della Germania non ci attira certamente le generali simpatie <26.
Un’alleanza che finì per marginalizzarne anche il ruolo arbitrale tra Germania e Svizzera, lasciando scivolare quest’ultima sotto ricatto tedesco. Qualche giorno prima della capitolazione francese il Terzo Reich decretò l’embargo sulle esportazioni di carbone verso la Confederazione, obbligando così il Paese ad estenuanti trattative con gli Alleati – e in particolare gli Stati Uniti – per tutelare una neutralità già da tempo compromessa. Almeno fino al 1942-’43 la Germania riuscì a trasferire oltre Reno ghisa, carbone e materie tessili, mentre le produzioni nella meccanica di precisione prendevano la strada del Reich, attento ad evitare pericolosi strappi politici che avrebbero spostato la precaria neutralità del piccolo Stato sul versante alleato (Kuder 2002, 107) […]
[NOTE]
19 Archivio di Stato del Canton Ticino, PP 1892-1969, sc. 86. Dante Severin, Il problema etnico del Canton Ticino, pp. 6-7.
20 Archivio Ministero degli Affari Esteri, AP 1931-1945, Svizzera, sc. 18. Legazione d’Italia al Ministero degli Affari Esteri, 19 agosto 1938.
21 Archivio Ministero degli Affari Esteri, AP 1931-1945, Svizzera, sc. 20. Appunto del Ministero degli Affari Esteri, 22 dicembre 1938.
22 Archivio Ministero degli Affari Esteri, AP 1931-1945, Svizzera, sc. 20. Legazione d’Italia al Ministero degli Affari Esteri, 10 febbraio 1939.
23 Documenti Diplomatici Svizzeri, vol. 13, n. 316. Tamaro al capo del Dipartimento Politico, Pilez-Golaz, 22 giugno 1940.
24 Archivio Ministero degli Affari Esteri, AP 1931-1945, Svizzera, sc. 22. Legazione d’Italia a Berna al Ministero degli Affari Esteri, 9 agosto 1940.
25 Archivio Ministero degli Affari Esteri, AP 1931-1945, Svizzera, sc. 22. Consolato generale d’Italia a Lugano al Ministero degli Affari Esteri, 7 dicembre 1940.
26 Archivio Centrale dello Stato, PP. Materia, sc. 247. Lettera fiduciaria, 21 ottobre 1940.
Francesco Scomazzon, Governare al confine: il fascismo alla frontiera elvetica (1925-1945), in “Storia e Futuro”, n. 30, novembre 2012