Una poesia che possa parlare d’altro

L’Introduzione all’antologia curata da Enrico Testa <49 (che raccoglie i principali poeti italiani del secondo Novecento) apre il volume con la descrizione del «trauma» della mutazione, vissuto nel passaggio «tra una civiltà contadina e arcaica e la crescita industriale del boom neocapitalistico»: “In poco tempo l’Italia si trasforma: impetuosa espansione economica, immigrazione interna e abbandono delle campagne, aumento dei redditi e dei consumi, insieme alle politiche del centro-sinistra, ai cambiamenti dei costumi e delle mentalità e agli interventi tesi a un’effettiva scolarizzazione di massa, modificano letteralmente il volto del paese. Se Pasolini parla, a questo proposito, di una mutazione antropologica degli italiani e di un’omologazione che cancella differenze e distinzioni iscrivendole tutte nel «comportamento coatto del potere dei consumi», Calvino si sofferma soprattutto sulla crisi che colpisce i tradizionali parametri d’interpretazione dei fatti culturali. In un articolo del ’76, resoconto di quanto è mutato nel precedente decennio, afferma che «ciò che è avvenuto durante gli Anni Sessanta» è stata «una rivoluzione della mente, una svolta intellettuale», «qualcosa che ha cambiato in profondità molti dei concetti con cui avevamo avuto a che fare»”. <50
Legata sia alla «mutazione antropologica» criticata da Pasolini che alla «svolta intellettuale» individuata da Calvino, la questione del linguaggio è certamente uno dei punti più interessanti di questa serie di cambiamenti. A partire dal Sessanta (grazie soprattutto alla scolarizzazione di massa e ad alcuni fenomeni collaterali, come l’avvento della televisione) l’italiano si impone gradualmente come lingua di comunicazione, da lingua esclusivamente della cultura qual era. <51 Dall’utilizzo di un linguaggio unico, valido in tutti i contesti comunicativi, vacilla di conseguenza anche la «secolare separazione di lingua della poesia e lingua della prosa», e al tempo stesso si apre definitivamente alla poesia il mondo senza confini del linguaggio parlato. Attraverso una sorta di osmosi, come la lingua della poesia (l’italiano) era approdata nella quotidianità, così le forme del parlato iniziano ad entrare sempre più tra i versi.
Moltissimi sono gli esempi che si potrebbero addurre. Dall’avanguardistico caso de La ragazza Carla (1960), dove Pagliarani «contamina registri differenti e ripropone sulla pagina un repertorio vastissimo di costrutti del parlato, inteso come un’organica realtà da cui nulla va estromesso» <52, all’ermetico Luzi, fino a questo momento ben lungi dal ricorrere al registro parlato, ma che ne Il magma (1963) fa uso di «una discorsività quasi prosastica (con termini alla moda e parole del quotidiano) ritenuta necessaria a pedinare la “chiacchiera” del mondo e il frantumarsi delle esperienze di chi lo abita». <53 È pur vero che la presenza del linguaggio parlato in poesia aveva già, in singoli autori, segnato alcuni momenti del secolo; la novità sta nella portata generale che assume ora il fenomeno. <54
La poesia perde così la propria aura di trascendenza, e il millenario status di separatezza formale e tematica. Da un lato, infatti, subentra l’inevitabile influenza che un linguaggio antilirico esercita sulla scelta dei contenuti, che non potranno più abbracciare l’astrattezza e le rarefazioni tipiche della tradizione lirica. Ma sono soprattutto gli autori, posti di fronte alle contraddizioni del boom italiano, ad avvertire la necessità di una poesia che possa parlare d’altro, che non sia più solo un ripiegamento del soggetto su se stesso.
Diverse, per la verità, sono le reazioni dei poeti e degli intellettuali italiani di fronte al fenomeno dello ‘sliricamento’ della poesia. Montale in Satura (1971) prende atto della crisi della lirica e procede ad un’autodissoluzione ironica della propria esperienza di poeta. La neoavanguardia del Gruppo 63, per contro, mira ad «accelerare (per straniamento, contaminazione e montaggio) la dissoluzione del discorso lirico», ai fini di muovere una critica al codice letterario. <55 Ma vi è anche chi sceglie di andare oltre la mera dissoluzione del discorso poetico, cercando volontariamente una poesia nuova, non più lirica ma “narrativa”, ibridata alla prosa – nelle forme del racconto, del dramma, del saggio.
È questo il caso dei poeti della cosiddetta “terza generazione”. Oltre alle caratteristiche stilistico-linguistiche sin qui tratteggiate (adozione del registro del parlato, ibridazioni con la prosa), la loro poesia predilige tematiche di ordine perlopiù storico-documentaristico, riguardanti la civiltà dei consumi, il lavoro, l’industrializzazione, la condizione umana nell’era della mutazione. Da tutto ciò, puntualmente, emerge il grande trauma dell’esplosione economica italiana.
Altra costante di questa nuova poesia, e ulteriore conseguenza del processo di ‘sliricamento’, è il crollo del mito della piena dicibilità del soggetto. La realtà della mutazione non appare più come qualcosa di saldo, di perfettamente rappresentabile, ma al contrario è avvertita come «sempre più frammentaria, discontinua e pulviscolare» (Calvino) <56. I testi poetici si affollano di personaggi che adombrano l’Io lirico, molto spesso rappresentati da semplici e anonime voci, inserite sotto forma di battute di discorso diretto. Confusi e sfuggenti come fantasmi, umbrae che moltiplicano e straniano il punto di vista testuale. «Figure di un’esperienza dell’alterità» <57 in concorrenza con la voce del soggetto, che sono state unanimemente interpretate come un “ritorno dei morti” – dei dimenticati, del represso <58 – che invade e turba l’esperienza poetica italiana secondo-novecentesca. Dialogismo, plurivocità (tutti espedienti che incentivano la “prosasticità” del testo) sono tra le più vistose caratteristiche di questa nuova poesia “corale”, che sembra intenzionata a farsi ricettacolo delle voci del secolo, ad includere l’intero mondo tra i suoi versi.
49 E. Testa, a cura di, Dopo la lirica. Poeti italiani 1960-2000, Giulio Einaudi Editore, Torino 2005
50 Ivi (Introduzione), p. V
51 Ivi, p. VI
52 Ivi, p. VII
53 Ibid.
54 Ivi, p. VI
55 Cfr. ivi, pp. VIII-IX
56 Ivi, p. XII
57 Ivi, p. XIII
58 Francesco Orlando tratta il tema degli «scarti» in una delle sue più celebri ricerche: Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura. Rovine reliquie rarità robaccia luoghi inabitati e tesori nascosti (Einaudi, Torino 1993). Campionando oltre ottocento testi dalla classicità alla contemporaneità, a partire dalla fine del Settecento (ovvero dalla nascita dell’industrializzazione, della modernità, dell’età delle merci) il critico registra un incremento della presenza dei «rifiuti» in letteratura, ossia di tutto ciò che è brutto, vecchio, inutile. Nella civiltà dei consumi, afferma lo studioso, la letteratura sembra cercare le proprie «contro-verità» in una zona oscura, «tra gli scarti, i rifiuti, le immondizie, le “antimerci”». Orlando riconduce questi fenomeni a un ritorno del superato, sorta di ritorno del represso declinato in chiave storica; meccanismo di risposta dell’arte ad ogni fase di Superamento tecnico-scientifico-economico. Esso motiva il riconoscimento letterario di istanze storiche stigmatizzate o considerate irrazionali: al progresso e alla modernità, infatti, la letteratura pare restituire puntualmente immagini di regresso e involuzione, testimoniando l’ineliminabile coesistenza di istanze razionali ed irrazionali in tutta la storia umana (a tal proposito si consideri anche lo studio orlandiano sulla letteratura del soprannaturale: Statuti del soprannaturale nella narrativa, in F. Moretti, a cura di, Il romanzo, 5 voll., Einaudi, Torino 2001, vol. I, pp. 195-226). Va da sé che nel Novecento, il secolo maggiormente segnato da “traumatici” cambiamenti tecnologici ed economici, anche questi fenomeni letterari si siano verificati con una frequenza e una rilevanza peculiari. Compaiono certamente oggetti desueti e scarti materiali, ma ancor più spesso «rifiuti» antropomorfi, nelle sembianze di morti, dimenticati, brutti, relitti. Ecco allora che nella poesia italiana coeva alla mutazione si fanno largo le voci dei «morti», oppure nella letteratura espressionista e modernista si assiste ad una massiccia invasione dei brutti, com’è stata definita da Debenedetti (G. Debenedetti, L’invasione dei brutti, in Il romanzo del Novecento: quaderni inediti, presentazione di E. Montale, Garzanti, Milano 1998, pp. 440-454). Cfr. S. Brugnolo, D. Colussi, S. Zatti, E. Zinato, La scrittura e il mondo. Teorie letterarie del Novecento, cit., pp. 244-248 e E. Zinato, Letteratura come storiografia? Mappe e figure della mutazione italiana, cit., pp. 85-90.
Beatrice Benà, «Ecco scrivo, cari piccoli». La storiografia poetica di Franco Fortini, 1.1 Lo ‘sliricamento’ della poesia italiana dopo la svolta del Sessanta, Tesi di laurea, Università degli Studi di Padova, anno accademico 2017/2018, pp. 18-21