Un salesiano tra gli Internati Militari Italiani

Don Luigi Pasa – Fonte: Archivio di Stato di Pordenone

A Rimini, nel Sacello dei Caduti, dal 27 agosto 1977 sono affidate alla nuda terra, come richiesto espressamente nel testamento, le spoglie di Luigi Francesco Pasa, nato ad Agordo il 17 marzo 1899 da una famiglia di Sedico.
Già combattente nella Grande Guerra tra i ‘ragazzi del ‘99’, e poi legionario con D’Annunzio a Fiume, fu ordinato sacerdote salesiano il 7 luglio 1929. Animato dal desiderio di nuove esperienze quale educatore fra i militari, divenne cappellano nella Regia Aeronautica in servizio dal 1938 al 1943 nell’Aeroporto ‘Pagliano e Gori di Aviano.
Dopo la violenta reazione dei tedeschi dopo l’annuncio dell’armistizio dell’8 settembre 1943, per non abbandonare i suoi 4 mila avieri, subì la deportazione nei lager del terzo Reich, dove rimase internato per oltre due anni.
[…] Dal 1948 al 1949 si trasferì a Buenos Aires per aiutare gli emigrati italiani. Dedicò poi gli ultimi anni della sua vita a divulgare il sacrificio dei militari italiani internati che definiva ‘resistenti attivi’.
Alessandro Ferioli, docente di lettere all’istituto tecnico paritario ‘Giacomo Leopardi” di Bologna, ha dedicato alla figura e all’opera di don Pasa, classificato fra gli ‘eroi invisibili dei lager, il saggio «Quel buon compagno di prigionia: l’opera di don Luigi Francesco Pasa per gli internati militari italiani nei lager del terzo Reich» con cui, utilizzando le testimonianze di reduci e varie relazioni ufficiali messe a disposizione dall’Ordinariato militare ha dato dignità storica all’opera del salesiano bellunese. Opera legata alle vicende degli oltre 700 mila Imi, gli Internati militari italiani.
Il rifiuto a collaborare con i nazisti espresso dalla maggioranza degli internati fu un autentico atto di resistenza attiva al nazifascismo, che ha grande rilevanza morale anche oggi. E’ in questo contesto che svolse la sua opera il salesiano Francesco Luigi Pasa che il 4 ottobre lasciò il campo di Sandbostel per il campo-fortezza di Deblin (Stalag 307) a Varsavia e quindi per l’Oflager 333 di Benjaminowo. Il 12 ottobre i nuovi arrivati vennero immatricolati e don Pasa da quel giorno divenne il numero 4765.
Attorno a lui si raccolsero ben presto diversi ex allievi salesiani e si giunse alla costituzione di una piccola comunità nel nome di Don Bosco con gli ex-allievi che si incontravano con regolarità organizzando conferenze sugli argomenti più disparati. In tali occasioni don Pasa svolgeva la sua opera di assistenza morale agli internati e al tempo stesso conduceva la sua opera di apostolato.
Don Pasa visitava tutte le baracche, intrattenendosi con i soldati e rincuorandoli uno per uno; redigeva procure; ma dovette anche celebrare, a partire dal febbraio 1944, le prime funzioni funebri.
Il 12 marzo 1944, dopo cinque mesi di permanenza a Benjaminowo, assieme ad altri duemila ufficiali don Pasa fu caricato sui soliti carri-bestiame e trasferito di nuovo a Sandbostel all’Oflag X B.
Qui don Pasa svolse un’opera di resistenza attiva intensissima tra l’altro tenendo giornalmente informati, mentre celebrava la messa, i suoi compagni di sventura.
Redazione, Era bellunese l’eroe invisibile dei lager, Corriere delle Alpi, 27 agosto 2004

[…] Al Pagliano e Gori, dunque, l’8 settembre 1943 giunse l’ordine da parte del comando della 2a Squadra Aerea di trasferire tutti gli apparecchi con i relativi equipaggi verso l’Italia meridionale. L’ordine non poté però essere eseguito, dal momento che gli aerei non avevano autonomia sufficiente per un viaggio senza scali, e tutti gli aeroporti presso i quali si sarebbe potuto fare rifornimento di carburante erano già caduti in mano tedesca. Il giorno 11 successivo, mentre gli avieri richiamati e trattenuti alle armi venivano mandati sbrigativamente in congedo e i servizi tecnici cominciavano ad operare per rendere inutilizzabili gli aerei (senza tuttavia decidersi se smontarne qualche pezzo o addirittura distruggerli), per incarico del Colonnello Altan, comandante dell’aeroporto, don Luigi Pasa si recava a Padova per tentare di ristabilire un contatto con il Comando superiore, scoprendo però che il generale Felice Porro era già stato fatto prigioniero. Dopo un’intera giornata trascorsa nel vano tentativo di ricevere ordini precisi ed eseguibili, il giorno 12, all’incirca verso le 12.20, mentre il personale era a mensa, si videro due aerei Junker 52 sorvolare minacciosamente l’aeroporto, che venne subito dopo catturato da truppe tedesche.
Oltre ad aver fatto scappare dall’Aeroporto quanti prigionieri poté, Don Pasa in quella circostanza compì due atti di valore (primi di una lunga serie) che gli sarebbero potuti costare la vita: innanzitutto mise in salvo la Bandiera nazionale che garriva sul pennone dell’aeroporto, nascondendola in un luogo sicuro, per riconsegnarla all’autorità militare di Udine il 1° marzo 1947; poi, sempre per conto del colonnello Altan, andò a recuperare i valori ancora giacenti nella cassaforte del Comando, con evidentissimo rischio personale (stante l’interesse che i tedeschi nutrivano per il denaro), compiendo ben due “incursioni” condotte quasi sotto gli occhi delle sentinelle, per prelevare prima il denaro liquido e successivamente gli assegni, i libretti di banca e i vaglia: il contante fu distribuito per ordine del comandante alle famiglie degli ufficiali e dei sottufficiali, nonché agli avieri più bisognosi, mentre i titoli furono dati in consegna al direttore del Collegio Don Bosco, che lo conservò sino al ritorno di don Pasa, così che i titoli e le regolari ricevute del denaro erogato poterono essere restituite alfine il giorno 6 marzo 1946 al comando della 2a Zona Aerea Territoriale di Padova <22.
Durante queste giornate gli ufficiali e gli avieri discussero se rimanere in servizio o darsi alla macchia, propendendo alfine per la prima soluzione, nella convinzione che gli Alleati sarebbero sbarcati presto, e che avrebbero pertanto avuto bisogno di sostegno per il controllo dell’aeroporto. I tedeschi invece nel frattempo già stavano approntando nascostamente la partenza verso i lager. Gli ufficiali nazisti individuarono subito in don Pasa un possibile elemento di resistenza, e il giorno 15 gli proibirono di celebrare la messa, evidentemente ritenendo che la celebrazione liturgica potesse nuocere ai loro piani; e tuttavia sempre confidavano di poter fare del salesiano un loro collaboratore, così da concedergli di celebrare la domenica 19. Proprio nel corso di quella giornata don Pasa, mentre attendeva alle sue occupazioni in Collegio, fu avvertito che i militari italiani erano già alla stazione, pronti per essere caricati sui carri-bestiame e avviati alla volta dell’ignoto. Egli, che non era stato catturato, né convocato, né aveva alcun obbligo, non perse tuttavia tempo e si recò immediatamente alla stazione, deciso ad accompagnare i suoi avieri ovunque essi fossero stati condotti e qualunque fosse stata la loro sorte, come un buon pastore risoluto a non perdere di vista le sue pecore e a non abbandonarle nel momento del pericolo: «Il bene che facevo a seguirli – scrive il salesiano – lo compresi quando giunsi in stazione. Essi erano là, avviliti, abbattuti, ad attendere la partenza: m’accolsero con una esplosione di sollievo, di gioia; una esplosione tale ch’io la serbo nella mia mente come un ricordo sacro e insieme santo» <23.
Ad accompagnare don Pasa c’era anche un altro salesiano, Don Ceriotti, assieme ai ragazzi dell’Oratorio Don Bosco, che portarono ai militari in partenza pane, vino e polenta.
La tradotta comprendeva non soltanto gli avieri del Pagliano e Gori ma anche molti altri soldati: una lunga teoria di carri-bestiame stipati sino all’inverosimile di uomini ignari del luogo a cui sarebbero stati destinati e della eventuale occupazione che sarebbe stata data loro. Dopo diversi giorni, durante i quali ai soldati non era stato procurato né da bere né da mangiare, il convoglio giunse a Bremerwörde, a ovest di Amburgo: lì i prigionieri furono fatti scendere e messi in marcia verso quella che sarebbe stata la loro prima destinazione: lo Stalag X B di Sandbostel, nella regione militare di Amburgo.
Qui don Pasa e i suoi compagni presero contatto con quella realtà del lager, straniante e angosciante, che abbiamo cercato di descrivere poc’anzi. Subito il salesiano venne avvicinato da un funzionario italiano che lo esortava alla collaborazione coi tedeschi: si trattava di una tra le tante profferte che il sacerdote, al pari dei personaggi più autorevoli tra gli internati, dovette ricevere, e ad essa egli oppose un netto rifiuto. L’accoglienza tributata a don Pasa dai soldati è significativa dell’importanza all’interno del lager di un sacerdote, e della funzione non soltanto di assistenza spirituale ma anche di sostegno morale che i militari gli riconoscevano: «Il trattamento di quell’emissario mi fu subito ricompensato abbondantemente, dall’accoglienza dei 20.000 soldati nostri che già affollavano il campo. Come un amico, anzi come un fratello, come un padre mi ricevettero. L’effusione del loro saluto fu grande. Passai in mezzo ad essi con la soddisfazione che deve provare un generale dopo una riuscitissima parata. “Finalmente ci sarà chi ci sostiene…”» <24.
Don Luigi si applicò dunque subito nel tentativo di celebrare la S. Messa, servendosi di una valigetta-altarino fornitagli da un cappellano francese assieme a vino e ostie, ma si scontrò con un perentorio divieto dei tedeschi, i quali almeno per il momento non consentivano pratiche religiose: è questo un altro indizio della diffidenza dei nazisti nei confronti del clero e della religione, e della cura particolare che le autorità germaniche dovevano porre alla presenza dei sacerdoti nell’ordinaria gestione della massa degli internati, nella consapevolezza (come già ho anticipato) che in un contesto totalitario il prete costituisce per sua natura un elemento di “ribellione”, e che per attuare tale “rivolta” al sacerdote non occorre altro che sfoderare le proprie armi, ovvero la Bibbia e la liturgia. A don Pasa venne permesso di celebrare soltanto il 26 settembre, giorno in cui disse ben quattro messe, senza tuttavia riuscire ad accontentare tutti i militari desiderosi di ricevere i sacramenti: «Il cappellano veniva ricercato – ricorda – si voleva la Messa, si voleva la confessione, la comunione; e i tedeschi non consentivano subito di celebrare» <25.
Per quanto riguarda il beneficio morale che la messa apportava agli internati, narra a tal proposito un ufficiale ex-IMI nel proprio memoriale: «…Andavo ad ascoltare la messa di don Pasa e facevo la Comunione. Un momento di intimo raccoglimento irripetibile! Sì, perché quando non ti distraggono le frivolezze della vita, quando ti senti solo, allora la fede, la fiducia e l’abbandono in Dio raggiungono momenti di profonda intensità e ti danno, nella sofferenza, forza, coraggio e speranza» <26.
Il 28 settembre gli ufficiali furono separati dai soldati, per essere avviati in un campo loro riservato: don Pasa in ragione del suo rango fu aggregato agli ufficiali, nonostante avesse chiesto di rimanere con la truppa a causa del maggiore bisogno di conforto di cui questa necessitava rispetto agli ufficiali, generalmente più maturi per età e per cultura: ancora una volta da parte dei tedeschi si riteneva che i soldati, che sarebbero stati adibiti subito al lavoro obbligatorio, si sarebbero dimostrati più malleabili se fossero stati privati dell’assistenza di un loro cappellano <27.
Il 4 ottobre assieme agli ufficiali don Pasa lasciò il campo di Sandbostel. Caricati sui soliti carri-bestiame, giunsero il 7 al campo-fortezza di Deblin (Stalag 307), a sud-est di Varsavia. Lì don Pasa, pur non potendo celebrare la messa, ma intendendo dare comunque una risposta alla richiesta di conforto religioso da parte dei commilitoni, soprattutto in occasione della solennità della Madonna del Rosario, decise di recitare il Rosario: per essere visto da tutti, condusse i fedeli nella preghiera stando sulla porta di un vagone, in posizione quindi un po’ sopraelevata.
Anche a Deblin, luogo di transito per gli ufficiali, don Pasa e i suoi compagni erano però destinati a rimanere pochi giorni, nell’attesa di venire trasferiti in un altro lager meno affollato. Furono quindi rimessi in viaggio alla volta dell’Oflager 333 di Benjaminowo, situato a pochi chilometri più a nord di Varsavia, dove stavano confluendo gran parte degli ufficiali disarmati e catturati in Grecia e nei Balcani.
[…] Perciò i tedeschi dovevano cercare di limitare l’attività di assistenza religiosa (cosa che facevano in verità anche con i loro stessi preti cattolici), evitando tuttavia scontri troppo duri, che avrebbero potuto indurre i prigionieri a forme di ribellione aperta, e vanificare così l’opera di convincimento alla collaborazione. Tale situazione costrinse quindi le autorità dei campi ad atteggiamenti ora di relativa tolleranza ora di repressione più o meno brusca, e don Pasa seppe sempre sfruttare abilmente ogni spazio che i tedeschi gli lasciavano. «La nostra attività sacerdotale – ricorda il salesiano – passava tutt’altro che inosservata ai tedeschi. I nostri carcerieri, un po’ lasciavano fare, un po’ angariavano. Per esempio, se io volevo dire due parole a fine Messa, o comunque parlare in pubblico, avevo l’ordine perentorio di presentare all’ufficio di Polizia, almeno una settimana prima, il manoscritto. Ho parlato sempre lo stesso senza… il “nulla osta”» <35.
Ben presto in ogni baracca venne realizzato un altarino per la messa: ufficiali che nella vita civile esercitavano le professioni di architetti e ingegneri, o dipingevano, si misero all’opera producendo addobbi, ornamenti per le immagini sacre, presepi per il primo Natale di prigionia, coltivando così un’attività che serviva anche da passatempo; altrettanto presto cominciarono ad essere celebrate le festività dei santi regionali, che costituivano un mezzo per riannodare un legame con la propria terra. Don Pasa visitava incessantemente tutte le baracche, intrattenendosi con i soldati e rincuorandoli uno per uno; redigeva procure; ma dovette anche celebrare, a partire dal febbraio 1944, le prime funzioni funebri, sia per gli internati deceduti di stenti (le cui tombe raccomandava alla cura dei salesiani locali), sia per i congiunti defunti di cui giungeva talvolta notizia di morte dall’Italia.
Nello svolgimento della propria attività don Pasa poté servirsi anche dell’aiuto fattivo fornito dal clero polacco delle parrocchie più vicine e dai confratelli della Casa Salesiana di Varsavia, che attraverso gli operai abituati a frequentare il campo per lavori di manutenzione facevano giungere anche ostie, vino da messa e materiale liturgico <36. Era stato lo stesso Rettore Maggiore don Pietro Ricaldone, in una sua lettera del 31 gennaio 1944, a suggerirgli di mettersi in contatto con qualche Casa Salesiana vicina, per domandarne la collaborazione, ma anche per potere verificare la situazione in cui si trovavano i confratelli polacchi e riferire ai superiori in Italia delle condizioni di vita in loco <37.
[…] Il 12 marzo 1944, dopo cinque mesi di permanenza a Benjaminowo, assieme ad altri 2.000 ufficiali don Pasa fu caricato sui soliti carri-bestiame che partirono nuovamente alla volta di Sandbostel, dove quindici giorni dopo sarebbero giunti anche i rimanenti militari provenienti da Benjaminowo. All’Oflag X B di Sandbostel i cappellani crebbero progressivamente da un minimo di 11 sino a raggiungere il numero massimo di 55, per un totale di ufficiali che oscillò a seconda dei periodi fra le 4.000 e le 9.000 unità: l’assistenza religiosa dovette perciò essere organizzata e gestita in maniera un po’ più regolare di quanto non fosse stato fatto precedentemente, ed in forma più capillare; inoltre, con non pochi sforzi la cappella del campo venne attrezzata e ornata al punto da risultare somigliante a un tempio <39.
Risale a questo periodo la conoscenza tra don Pasa e il tenente Carlo Maggio, che di lui ci dà una descrizione fisica perfettamente consona al suo carattere di montanaro bonario e determinato, rustico nell’aspetto e saldo nei valori: «Era piuttosto tarchiato, con il viso rotondo, i capelli corti (a spazzola). Indossava la veste talare e portava in testa un basco nero (che probabilmente gli era stato donato da qualche marinaio perché lui era cappellano dell’Aeronautica). Aveva un accento marcatamente veneto» <40.
[…] A Sandbostel la disciplina era particolarmente dura, e si moriva per un nonnulla. La notte fra il 6 e il 7 aprile la fucilata di una sentinella colpì il capitano Antonio Thun von Hohenstein, un nobile boemo divenuto italiano dopo la grande guerra, che nei giorni precedenti aveva più volte rifiutato alcune proposte, particolarmente insistenti, di “optare” per la RSI; benchè ferito grave, i tedeschi tennero a distanza i suoi compagni, impedendo che venisse trasportato in infermeria se non dopo qualche ora, quando però era già troppo tardi. Il giorno precedente il capitano Thun aveva dato a un tedesco il proprio orologio d’oro, in cambio probabilmente della promessa di un po’ di pane; quella notte aveva combinato un appuntamento col soldato per ricevere il dovuto <44.
Anziano del Campo era il tenente di vascello Giuseppe Brignole (1906-1992), medaglia d’oro al valore militare, il quale dovette imporsi per ottenere dal capitano tedesco von Pinckel il consenso alla celebrazione del funerale, al quale poterono partecipare soltanto trenta ufficiali, guardati a vista dai tedeschi; don Pasa riuscì a fare scattare da un civile tedesco alcune foto della cerimonia, riuscendo poi, con evidente rischio personale, a fare pervenire un rullino alla famiglia dell’ucciso.
[…] In questo contesto don Pasa svolse un’opera di resistenza attiva intensissima; basti pensare al sistema da lui escogitato per informare gli internati delle notizie sull’andamento della guerra che alcuni ufficiali captavano di nascosto da una radio clandestina, e che don Pasa stesso riferì ai giornalisti Lucini e Crescimbeni: «Don Pasa giornalmente teneva informati, mentre si celebrava la messa, i suoi compagni di sventura. Il sistema era molto semplice: “Nel nome del Padre del Figlio e dello Spirito Santo, radio-scarpa riferisce che gli alleati sono stati bloccati in tal punto, così era in principio, non è vero niente… e nei secoli dei secoli, radio-vera dice che l’offensiva ha successo, così siaaa…”
I tedeschi che frequentavano la chiesa seguivano ossequiosi il rito e non si accorgevano di niente. Anzi, spesso, mentre l’officiante diramava la notizia si raccoglievano in devota preghiera. Don Pasa faceva impazzire il comando germanico. Quando lo cercavano per dargli un “cicchetto” non riuscivano mai a trovarlo; sembrava inghiottito dalla terra» <46.
[…] Il 17 febbraio 1944 don Pasa fece partire di nascosto una lettera per il Papa e una prima lettera per Mons. Cesare Orsenigo (1873-1946), Nunzio Apostolico a Berlino <50, alla quale ne sarebbe seguita una seconda il 1° marzo (entrambe probabilmente non giunsero a destinazione). Successivamente, dal lager di Sandbostel mise in atto un altro tentativo per contattare Mons. Orsenigo, il quale aveva già visitato alcuni campi, ma era stato fortemente ostacolato
e limitato nella prosecuzione della sua opera da parte dell’autorità germanica, affinché non portasse più conforto ai sofferenti, e vani erano stati tutti gli ulteriori passi da lui esperiti <51.
[…] La corrispondenza tra don Pasa e Mons. Orsenigo durò poi ininterrottamente sino al 23 febbraio 1945, data dell’ultima lettera scritta dal Nunzio Apostolico; dopodiché le vicende negative della guerra impedirono ogni ulteriore contatto sino alla liberazione. All’invito rivoltogli da don Pasa affinché visitasse il campo, Mons. Orsenigo rispose il 30 giugno 1944 che, pur desiderandolo ardentemente, non disponeva tuttavia di carburante a sufficienza, neppure se si fosse servito del treno: valeva a dire che l’impedimento era dettato non tanto dalle difficoltà logistiche quanto piuttosto dalla polizia <53.
[…] Scrive don Pasa nella sua Relazione al Nunzio che più volte il direttore dell’ospedale, tenente colonnello Giuseppe Germano, e il direttore dell’infermeria, maggiore Enzo Paroma, gli rivelarono concordemente che se molte vite si erano potute salvare e molti degenti avevano riacquistato la salute, ciò si doveva unicamente ai medicinali di primissima qualità inviati dal Nunzio <55.
[…] Nel corso del gennaio 1945 l’autorità tedesca decise che anche gli ufficiali – ad eccezione dei generali, dei medici e dei cappellani – sarebbero stati avviati al lavoro obbligatorio. In forza di ciò buona parte degli ufficiali internati a Sandbostel furono inviati all’Oflag 83 di Wietzendorf (a sud di Amburgo), un migliaio venne trasferito a Fallingbostel (a nord di Hannover) e circa cinquecento ad Amburgo; gli inabili al lavoro erano invece destinati al campo di Fullen, in Olanda, dove avrebbero trovato quasi tutti la morte. Don Pasa fu tra gli ultimi a lasciare Sandbostel: partito la mattina del 26 marzo, dopo due giorni di viaggio in carri-bestiame giunse a Wietzendorf. Qui si ritrovò con altri salesiani: don Giacomo Manente (che rivestiva la carica di cappellano capo), don Mario Romani, don Vincenzo Craviotto, don Michele Obermitto, don Ettore Gamalero e don Vittorio Lorenzatti. Soprattutto, però, fece la conoscenza con l’Anziano del campo, il tenente colonnello dei Bersaglieri Pietro Testa (1906-1964), ufficiale di Stato Maggiore, che fu una delle più belle figure di comandante nella resistenza dietro i reticolati.
[…] Il 13 aprile 1945, alle ore 7, il tenente Millini, aiutante maggiore in seconda del Campo, comunicava al tenente colonnello Testa che i tedeschi se n’erano andati: erano rimasti in servizio al lager soltanto due ufficiali tra i più anziani (e meno fanatici) con pochi soldati, scelti tra i meno efficienti fisicamente <64.
Il comando del campo venne assunto dal colonnello francese Duluc, il più elevato in grado tra tutti gli ufficiali presenti, mentre Testa continuava ad avere la responsabilità del settore italiano. Il 16 aprile 1945 alle ore 11 il colonnello Testa vide dalla finestra del proprio ufficio, ad un chilometro di distanza, un carro armato seguito a breve distanza da altri tre. Nel pomeriggio, alle 17.31 precise, il cancello del campo si apriva per fare entrare una berlina nera, dalla quale scendevano uomini in uniforme color kaki: tra questi c’era il maggiore inglese Cooley, “liberatore” del lager, che si recava subito ad incontrare l’ufficiale tedesco rimasto per ricevere le consegne; dopo un’ora e mezza ripartiva, promettendo di farsi rivedere il giorno successivo.
L’indomani ritornarono invece i tedeschi – ed erano degli SS –, che prendevano possesso del paese fermando e mettendo agli arresti due ufficiali francesi: la condizione per la loro restituzione era che venissero liberati i tedeschi fatti prigionieri dagli internati, per parte loro del resto poco lieti di finire nelle mani degli SS, con i quali v’erano stati forti attriti. Il pomeriggio del 21 il colonnello Duluc fu chiamato a conferire con il colonnello tedesco, il quale gli propose una “tregua d’armi” per l’indomani, per consentire agli ex-prigionieri di attraversare le linee alla volta di Bergen, a nord di Hannover, ove era stanziato il comando inglese. Il giorno successivo si svolse, pur tra mille difficoltà connesse allo stato di salute precario degli uomini, il trasferimento a piedi nella zona inglese.
[…] Nel campo di Belsen erano confluiti anche circa 400 internati provenienti da Dora-Mittelbau, il lager nelle cui gallerie sotterranee erano stati trasferiti gli impianti industriali atti alla costruzione delle V-1 e delle V-2 dopo i bombardamenti a Peenemünde. Quando i deportati furono trasferiti a Wietzendorf <66, dopo la liberazione del campo, don Pasa parlò con loro a lungo, e fu tra i primi a raccogliere una vasta documentazione sul funzionamento di quello che fu forse il più tremendo lager del terzo Reich, e sulle condizioni generali di vita e di lavoro di uomini che avevano visto e subito orrori tali da risultare difficilmente comprensibili anche a chi aveva conosciuto dall’interno il concetrazionario nazista, se non fosse stato per le loro condizioni fisiche che purtroppo suffragavano ottimamente le loro testimonianze.
Fu proprio grazie alla relazione redatta dal salesiano che si poté prendere una conoscenza preliminare, per quanto sommaria, del campo di Dora, a dispetto di quanti fra gli ufficiali di Wietzendorf ritenevano per ignoranza che dal campo di Dora provenissero soltanto criminali comuni <67.
La situazione a Wietzendorf era quanto mai difficile, dal momento che nel campo – a parte la riacquistata libertà – continuavano logicamente a mancare tutti quei servizi di cui gli internati erano stati privati per 20 mesi. Inoltre l’impazienza di fare ritorno in patria, unita al parziale recupero della salute e a una certa difficoltà di comunicare con i britannici (sempre indecisi se considerare gli italiani come vittime o come cooperatori dei nazisti) produceva un certo surriscaldamento degli animi degli ufficiali, esacerbati anche dalla difficile convivenza con i 3.000 militari fatti affluire a Wietzendorf dopo la liberazione dei campi vicini. Fu in queste circostanze che don Pasa, sollecitato anche da altri ufficiali, si offrì spontaneamente per un viaggio in Italia, al fine – come ricorda il colonnello Testa – «di tentare il contatto diretto con il Governo Italiano ed in genere con la Patria» <68. Si trattava di un’impresa rischiosa, a causa della pericolosità del viaggio, e che avrebbe potuto con molte probabilità rivelarsi infruttuosa; l’energico Don Pasa insomma, per usare ancora le parole del colonnello Testa, «partiva allo sbaraglio», ma tuttavia con il fermo proponimento di attivare le autorità ecclesiastiche, dalle quali confidava di ricevere risposte convenienti. Si trattava di una sorta di “seconda missione” ad integrazione e completamento della prima già compiuta durante i venti mesi di prigionia, ma che dava (al contrario della precedente) ampio spazio allo spirito di iniziativa e all’inventiva personale di don Luigi.
La Missione Pontificia
Il 12 maggio <69 dunque il Salesiano decollava con un aereo da Celle alla volta di Bruxelles e poi di Roma, portando con sé in due valigione alcuni documenti redatti dal colonnello Testa (una memoria, una relazione per il Ministero italiano della Guerra e una lettera per il Pontefice), l’elenco dei prigionieri e moltissime lettere e messaggi di militari per le famiglie in patria (circa 8.000); ciascuno nell’affidargli la propria lettera gli aveva descritto il proprio paese, con la strada per raggiungere la sua casa, gli aveva raffigurato i caratteri della sua famiglia, gli aveva affidato insomma tutti i propri affetti e le proprie speranze.
[…] Per comprendere appieno l’importanza dell’opera di informazione compiuta da don Pasa in quei giorni, talvolta in maniera anche un po’ frenetica e caotica, occorre tenere presente che allora ancora poco o nulla si sapeva sia delle vicende dei nostri soldati internati sia, più in generale, degli orrori del concentrazionario hitleriano; né bisogna dimenticare che certa parte degli italiani dubitava seriamente che gli ex-IMI avessero compiuto il proprio dovere di soldati e di cittadini: espressione di questi stati d’animo furono talune dichiarazioni dell’allora presidente della Consulta, Conte Sforza, che ancora per un certo tempo considerò gli IMI collaborazionisti dei tedeschi, e del ministro Gasparotto, il quale sosteneva l’esigenza di sottoporli a opera di rieducazione dopo il rimpatrio <73.
[…] Il sottotenente di vascello di complemento Enzo Colantoni, nel suo diario annotava alla data del 17 luglio il ritorno del cappellano dall’Italia, e la prima serata trascorsa attorno a lui per ascoltare il suo racconto
[…] Mentre dal campo di Wietzendorf cominciavano i rimpatri degli ufficiali e dei soldati ammalati, grazie agli autocarri giunti dall’Italia, don Pasa proseguiva il suo itinerario attraverso i vari lager, sempre portando con sé la posta che si era fatto affidare in Italia: visitando taluni campi anche più volte, fu a Münster, a Soltau, a Lunemburg, a Bassen, a Gross Heseppe (ai confini dell’Olanda), a Versen, a Fullen (il famigerato campo che ospitava oltre mille tubercolotici), a Mattemberg, a Belsen, a Bad-Rehburg, a Brema, a Oldenburg.
La sua opera consisteva nell’organizzare i rimpatri (che, stante l’esiguo numero di camion disponibili, dovevano essere regolati con molto raziocinio, dando ovviamente la precedenza ai malati più gravi); nel coordinare l’assegnazione di viveri e vestiario giunti dall’Italia; nel distribuire la posta (e il bene che faceva con questo gesto non è neppure lontanamente immaginabile da parte di chi non ha conosciuto il distacco dalla famiglia attraverso venti mesi di lager!); nell’officiare la messa, cresimare, celebrare funerali e messe solenni in suffragio dei defunti, trattare questioni relative ai matrimoni. In soli dieci giorni egli percorse 4.000 chilometri, visitò trenta campi e diversi ospedali, venne in contatto con 60.000 internati; il 3 settembre era a Roma dal Papa per informarlo di quanto fatto nel corso di questo suo primo viaggio in missione pontificia.
A questo primo viaggio in Germania ne seguirono altri tre, sempre con la Missione Pontificia: don Luigi andava alla ricerca degli italiani non ancora partiti, soprattutto quelli ricoverati negli ospedali e nei sanatori; s’imbatteva in gruppi di cattolici (prevalentemente lituani e polacchi) che gli affidavano documenti da fare pervenire in Vaticano; visitava prigionieri di altre nazionalità (russi e ungheresi provenienti dai campi di sterminio e ancora privi di assistenza); incontrava prelati che gli consegnavano missive per la Santa Sede.

[note]

22 Per questi avvenimenti cf: Scheda discriminatoria dell’Ordinariato Militare per l’Italia, sottoscritta da don Luigi Pasa il 10 dicembre 1945; Deposizione di don Luigi Pasa al Centro Affluenza e Riordinamento di Padova della Regia Aeronautica in data 8 marzo 1946; Relazione dell’Ordinario Militare sull’attività svolta dal cappellano militare don Luigi Pasa durante la prigionia in Germania in data 11 giugno 1955 (tutti i documenti citati sono conservati presso l’Archivio Storico dell’Ordinariato Militare per l’Italia, fasc. don Luigi Pasa). Verso l’Ordinariato Militare per l’Italia, nella persona soprattutto del Segretario Generale Padre Giorgio Valentini, sono sommamente debitore per la disponibilità e per la grande fiducia personale accordatami nel mettermi a disposizione tale materiale.
23 Luigi PASA, Tappe di un calvario, Napoli, Tip. Cafieri, 1969, p. 28. Il diario di don Pasa fu una delle prime e più autorevoli opere sull’internamento dei militari italiani e sui lager nazisti in generale, e costituisce ancora oggi un documento di grande interesse. Carmine Lops lo definì, al pari con la relazione-saggio del tenente colonnello Testa, «la più importante fonte di storia della Resistenza Italiana in Germania», rammaricandosi che in Italia non fosse tuttavia ancora abbastanza noto (LOPS, Albori…, Vol. II, p. 577, nota 1). La prima stesura fu approntata nel corso del 1946 nel Collegio Don Bosco di Pordenone, e don Luigi chiese al confratello don Gustavo Resi di rivederla e sistemarla; alla prima edizione, stampata a Vicenza per i tipi dell’Editore Trilli nel 1947, fecero seguito altre edizioni di volta in volta ampliate: 2a ed., Napoli, Tip. Cafieri, 1954 (con pref. di Giuseppe Lazzati); 3a ed., Napoli, Tip. Cafieri, 1966 (con pref. di Giulio Andreotti); 4a ed., Napoli, Tip. Cafieri, 1969. Con il ricavato delle vendite don Luigi fece costruire il Tempio di S. Giuseppe Operaio in memoria dei Martiri del filo spinato, inaugurato a Napoli il 27 gennaio 1962. Don Pasa scrisse i nuclei salienti del suo memoriale già durante la prigionia, limitandosi poi, dopo la liberazione, a dare a tali appunti una veste organica, sistemando opportunamente materiali e documentazione; mi testimonia a tal proposito don Resi che don Pasa volle confrontare e controllare tutto e con tutti gli interessati in maniera minuziosa, proprio affinché nulla della narrazione risultasse meno proprio e meno vero, e che egli si attendeva dal suo libro un “successo” in termini di autorevolezza del racconto storico (testimonianza di don Gustavo Resi in data 28 ottobre 2002).
24 PASA, Tappe…, p. 36.
25 PASA, Tappe…, p. 37.
26 Camillo CAVALLUCCI, Ricordi della prigionia, Budrio, Giorgio Cordone Ed., 1990, pp. 101-102. Dal memoriale di un altro ufficiale ricaviamo un’ulteriore testimonianza sugli effetti della messa e della liturgia nell’animo degli internati (precisando che il celebrante non è identificabile in don Pasa): «Il sacerdote in paramenti bianchi è salito all’altare; è squillato il campanello ad avvertire che la Messa cominciava; tutte le teste si sono scoperte, tutte le mani si sono levate nel segno della Croce. Quasi contemporaneamente si è inteso lontano, verso la città, un brontolio di tuono, tratto tratto punteggiato di scoppi più secchi: erano le batterie antiaeree che aprivano il fuoco. Molti visi si sono alzati, molte menti, distratte dal divino ufficio, si sono rivolte là; e si è levato un sommesso mormorio. Ho riportato gli occhi e la mente all’altare con un subito senso di sollievo, di conforto, come il fanciullo che trova riparo nelle braccia della madre. “Offerio tibi, Domine” le parole eterne scendevano colme di pace nella mia anima dolente, mentre le esplosioni lontane delle bombe aumentavano di fittezza e di intensità. Odio, odio dappertutto sentivo intorno a me: odio nei grovigli spinati che sbarravano l’orizzonte, odio nelle sudicie pareti rossastre delle baracche, odio negli stracci di quei Russi che trainavano curvi il carro del letame, odio nel mormorio dei miei compagni, odio in queste cupe continue esplosioni: un odio pauroso, ne è pieno il mondo. Solo da quell’altare, solo da quel piccolo magro uomo parato di bianco che pronuncia parole infinitamente più grandi di lui, solo da quella povera rozza croce di legno inchiodata alla parete della baracca emana una pace infinita, la pace dell’amore. “Ego sum pastor bonus” le parole cadono lente, è il Vangelo di oggi, la favola di infinito amore del buon pastore. Quante volte l’ho sentita: eppure oggi l’ascolto con nuova attenzione, quasi con meraviglia; e la sento nuova, come non l’avessi mai udita. E tutto nel rito mi pare nuovo: e sento intorno a me, creato da quelle parole, dalle mani oranti del sacerdote, un breve cerchio che si chiude intorno a noi, intorno all’altare, e ci isola, ci difende da questo rombo, da tutto questo odio; un cerchio d’amore, e di bontà, e di speranza. La voce del sacerdote, chinato sul calice, è ora appena un mormorio; eppure vince e copre queste esplosioni che proprio ora, nel silenzio interrotto dal campanello, hanno raggiunto il loro culmine, e fanno tremare la terra e tinnire i vetri. Inginocchiato, ho pianto» (Giuseppe BIRARDI, Terra levis. Note di un prigioniero in Germania, Firenze, Stamperia Editoriale Parenti, 1989, p. 79).
27 Don Pasa racconta nelle sue memorie che in un primo momento riuscì a ottenere dal comando tedesco l’autorizzazione a rimanere con la truppa, in base a una sua scelta precisa, ma che poi al momento del distacco degli ufficiali dai soldati tale concessione venne negata (PASA, Tappe…, p. 39). In una sua Relazione sul servizio religioso prestato nei campi di prigionia, indirizzata in data 8 maggio 1945 a Mons. Orsenigo e all’Ordinario Militare, don Pasa precisava che egli e gli altri cappellani mai smisero di sollecitare, sia presso i comandi tedeschi che presso l’Ambasciata d’Italia, che venisse concesso l’esercizio del ministero in mezzo ai soldati, con risultati ovviamente nulli (AS.OMI, fasc. don Luigi Pasa). La difficoltà di rinunciare all’assistenza spirituale è espressa chiaramente nel memoriale di un ufficiale che peraltro non fu costretto a rinunciarvi: «Guai se ci mancasse quest’assistenza religiosa. Visibilmente essa offre un gran conforto a molti di noi. E questi cappellani sono bravi. Devono sentire attorno a loro il calore della nostra simpatia e della nostra gratitudine» (ODORIZZI, Un seme…, p. 88). Faccio notare che anche in altre esperienze di prigionia nei regimi totalitari, come in URSS, le autorità di polizia tendevano a raggruppare i cappellani militari nei campi per ufficiali, rigettando ogni richiesta da parte loro di potere raggiungere i soldati. Al Campo n. 160 per prigionieri di guerra a Suzdal il 19 maggio 1945, attraverso il loro capogruppo Ten. Capp. Don Enelio Franzoni, i cappellani militari italiani fecero domanda di essere inviati nei vari campi per prestare la loro opera di assistenza religiosa e morale agli altri ufficiali e soprattutto ai soldati; il foglietto ritornò qualche tempo dopo con una sola parola scritta in matita rossa: Otkasat (rifiutare) con la firma del comandante colonnello Krastin. Al ritorno in patria molti soldati si meravigliarono al sapere che c’erano stati anche dei cappellani prigionieri e ancora oggi ritengono che i russi intendessero evitare che i preti influissero negativamente sulla loro propaganda (testimonianza di Mons. Enelio Franzoni, medaglia d’oro al valore militare, pubblicata nel sito web dell’ITC Leopardi di Bologna: <http://itcleopardi.scuolaer.it>).
35 PASA, Tappe…, p. 68. È significativo quanto qualcuno confidava a don Pasa: «I tedeschi hanno paura di voi… Se potessero farvi fuori, lo farebbero volentieri…» (ivi, p. 69). Anche durante la sua successiva permanenza a Sandbostel, la polizia politica esigeva inizialmente che don Pasa presentasse uno schema approssimativo della lettura del Vangelo (ivi, p. 111). Spiega Claudio Sommaruga che «il nazismo tollerò apparentemente la pratica religiosa nei campi degli internati italiani non certo per benevolenza ma per accattivarseli in vista di una sollecitata e contrastata collaborazione. La circolare 172/43 del Partito Nazista, del 15-12-43, firmata da M. Bormann, al paragrafo 10 è esplicita: “Secondo le possibilità converrà concedere agli italiani militari internati di partecipare alle funzioni religiose domenicali nel campo di concentramento o presso l’Arbeitkommando, ma non però nelle chiese tedesche. Frequentare la chiesa è per l’italiano un’abitudine alla quale si è formato e alla quale non può rinunciare”» (SOMMARUGA, Religiosità e resistenza dei militari italiani…, p. 43).
36 Cf Relazione sul servizio religioso…, p. 4.
37 La lettera è menzionata in: Francesco RASTELLO, Don Pietro Ricaldone IV successore di don Bosco, Vol. II, Roma, Editrice SDB, 1976, p. 429.
39 «L’assistenza religiosa all’Oflag X B è stata garantita nella maniera più assoluta e, a poco a poco, la nostra cappella ebbe tutti gli aspetti di una qualsiasi parrocchia» (PASA, Tappe…, p. 111).
40 Lettera del generale di divisione Carlo Maggio in data 26 settembre 2001 (AS.OMI, fasc. don Luigi Pasa). A titolo di curiosità, il “famoso” baschetto nero di don Luigi è custodito oggi nel Museo Nazionale dell’Internamento di Padova.
44 Il tenente Odorizzi seppe dal vicino di letto di Thun che il capitano era uscito dalla baracca portando con sé due orologi e alcune sterline, per cederli ai tedeschi in cambio di un po’ di alimenti per sé e per i compagni. Egli era la persona più indicata, in quanto conosceva bene la lingua, e si era esposto sempre a rischi elevati, sino appunto alla morte (ODORIZZI, Un seme…, pp. 165-166).
46 LUCINI e CRESCIMBENI, Seicentomila italiani…, pp. 267-268. Gli internati chiamavano “radio-scarpa” il notiziario radio dei tedeschi, che nascondeva il reale andamento della guerra, e “radio-vera” quello delle altre nazioni.
50 Sul periodo di Nunziatura a Berlino di Mons. Orsenigo (nato a Olginate il 13 dicembre 1873, Arcivescovo titolare di Tolemaide in Libia dal 23 giugno 1922, morto nell’ospedale di Eichstatt il 1° aprile 1946) ricordo il libro, tratto da una tesi di laurea, di Monica M. BIFFI, Mons. Cesare Orsenigo Nunzio Apostolico in Germania (1930-1946), Milano, NED, 1997, nonché l’intervento di Luigi Candido ROSATI, Monsignor Cesare Orsenigo Nunzio Apostolico in Germania dal 1943 al 1946, «Noi dei lager», n. 4 (ottobre-dicembre 2002), pp. 2-5. La figura di Mons. Orsenigo, al pari di quella del Pontefice Pio XII, è ancora oggetto di discussioni fra gli storici, soprattutto in relazione ai rapporti tra il Vaticano e il nazismo: preciso quindi una volta per tutte che scopo di questo contributo non è quello di offrire un apporto a tale dibattito, che evidentemente è di complessità ben maggiore. Ad ogni modo Mons. Orsenigo si attivò sin dal 9 ottobre 1943 presso il Ministro degli Esteri tedesco per ottenere le seguenti concessioni: di potere celebrare la Messa nei campi, di potere inviare aiuti materiali agli internati, e di potere fungere da tramite per lo scambio di notizie tra gli internati e i famigliari in Patria; l’autorità germanica, dopo ulteriori pressioni del prelato, aderì per mero opportunismo alle prime due richieste (all’inizio del 1944 Mons. Orsenigo ancora attendeva il permesso di visitare un campo), ma mai alla terza (cf Gerhard SCHREIBER, I Militari italiani internati nei campi di concentramento del Terzo Reich 1943-1945, Roma, Ufficio Storico Stato Maggiore Esercito, 1992, pp. 694 sgg.). Per un inquadramento più generale dell’attività caritativa del Vaticano nel periodo trattato, rimando preliminarmente agli Actes et Documents du Saint Siège Relatifs à la Seconde Guerre Mondiale, 11 voll., Città del Vaticano, 1970-1981, ma anche al saggio di Italo GARZIA, Pio XII e l’Italia nella Seconda guerra mondiale, Brescia, Morcelliana, 1988, nonché al contributo dello stesso, “L’opera della Santa Sede in favore dei prigionieri e degli internati”, in AA.VV., I prigionieri e gli internati militari italiani…, pp. 69-80.
51 Per quanto mi consta, le uniche visite che Mons. Orsenigo poté compiere furono le seguenti: Stalag III D Weissensee (27 febbraio 1944), Stalag III C di Alt Drewitz, Stalag III A Luckenwalde (16 aprile 1944), Stalag XI B di Fallingbostel (18 giugno 1944), Oflag 83 di Wietzendorf (18 giugno 1944), Stalag II D di Stargard (16 luglio 1944), Stalag VIII A di Görlitz (30 luglio 1944), Stalag III B di Fürstemberg (21 maggio 1944).
53 Difatti (ma questo don Pasa non poteva saperlo) ai tedeschi non era sfuggito l’effetto benefico che le visite del Nunzio procuravano agli internati, come si evince anche dal resoconto del tenente medico Mauro Piemonte sulla visita compiuta il 16 aprile 1944 presso lo Stalag III A di Luckenwalde: grazie all’intercessione di Mons. Orsenigo presso il comando tedesco, gli internati ebbero biglietti postali e moduli per richiedere alle famiglie la spedizione di pacchi, ottennero per i medici e gli infermieri il permesso di compiere passeggiate fuori dai reticolati, e poterono contattare le sedi svizzere della Pontificia Opera d’Assistenza, dalla quale ricevettero poi medicamenti come estratti epatici e preparati organici di ferro, che costituivano una base terapeutica insostituibile. Inoltre, mentre il Nunzio visitava il campo, il suo segretario don Opilio Rossi (poi cardinale) raccoglieva in infermeria notizie e desideri da trasmettere alle famiglie. Complessivamente, «la visita del Nunzio […] apportò a tutti pace e serenità. […] Le parole del presule e questi benefici risultati sul piano assistenziale aprirono la porta anche a favorevoli reazioni sul piano morale, affettivo, caratteriale e contribuirono a smussare spigoli, eliminare antipatie e disaccordi, rendere più umani e caritatevoli i rapporti tra internati. Tutto sommato la visita di mons. Orsenigo fu largamente positiva sotto ogni riguardo» (cf Mauro PIEMONTE, Medico a Luckenwalde, Brescia, ANEI-Brescia, 1996, pp. 47-53). Anche il tenente colonnello Testa, nel suo memoriale, riferisce di una visita di Mons. Orsenigo all’Oflag 83 di Wietzendorf, il 18 giugno 1944, con somministrazione della comunione a oltre 2.000 militari: «il campo ne ebbe un benefico influsso morale ed in seguito il Nunzio vi si tenne sempre collegato con piccoli soccorsi all’infermeria e con costante cura per informazioni, notizie, ecc.» (TESTA, Wietzendorf, p. 26). Padre Narciso Crosara, cappellano a Küstrin, così ricorda: «C’è nella vita dei deportati di Küstrin un ricordo che il tempo non può cancellare: il ricordo di un uomo che per un istante riuscì a trascinarci, come una forza sovrumana, fuori dal nostro disumano dolore: il nunzio apostolico mons. Cesare Orsenigo. […] Un giorno inopinatamente dilaga nel campo la notizia dell’arrivo del nunzio apostolico e allora i volti incupiti dei deportati si rischiarano: l’anima di ognuno si inonda di soavità e di speranza: tutti corrono verso l’ingresso del lager per vedere il rappresentante del Santo Padre. […] Il nunzio prende subito contatto con le nostre miserie, con i nostri dolori, con le nostre ansie spasmodiche, e profonde nelle anime la sua bontà, la sua dolcezza, la sua pietà ed umiltà come un balsamo benefico, ineffabile. I cuori vibrano all’unisono, si fondono in quella poesia del sentimento che sgorga dal grande dolore e che accomuna maggiormente gli uomini di una stessa stirpe e di una medesima religione. Egli suscita la visione della patria lontana, delle madri e delle spose chiuse nell’attesa e nella preghiera, ma soprattutto rappresenta la fiamma perenne e serena di quella fede cattolica che santifica il dolore umano e che illumina il mondo» (PIASENTI, Lungo inverno…, pp. 387-388 con tagli). Sull’opera incessante della Nunziatura a Berlino nel mantenere i rapporti fra gl’internati e le famiglie dà una testimonianza anche il diario del sottotenente Orlando Lecchini: «29 settembre ’44. Ier l’altro sera è giunto qui un incaricato della Nunziatura Apostolica di Berlino, portando fra l’altro mille scatole di tonno di 125 gr. ciascuna. È stato un precipitoso affollarsi di ufficiali attorno a lui per consegnargli messaggi, ed anch’io ne ho dato uno per il babbo e uno per Iolanda»; mentre il 25 novembre successivo a raccogliere i messaggi da inoltrare attraverso la Nunziatura era lo stesso don Pasa (Orlando LECCHINI, Per non chinare la testa. Un Lunigianese nei lager nazisti, Pontremoli, Ed. Il Corriere Apuano, 1988, pp. 57-58). Il percorso dei messaggi era generalmente il seguente: la Nunziatura inviava alla Segreteria di Stato una lista cumulativa di nominativi di internati che desideravano mandare un saluto ai parenti, e questa trasmetteva i saluti scrivendo direttamente a casa a ciascuna famiglia.
55 Cf Relazione sul servizio religioso…, p. 9.
64 Per questi avvenimenti cfr. soprattutto TESTA, Wietzendorf, pp. 128 sgg.
66 Prima che il campo di Dora venisse raggiunto e liberato l’11 dagli inglesi, i tedeschi avevano provveduto a trasferire i prigionieri nel lager di Belsen, con il proposito di eliminarli attraverso una distribuzione di pane avvelenato; il piano degli SS fu però frustrato dai continui bombardamenti, sino a quando il 15 aprile i prigionieri non videro avvicinarsi i carri armati degli Alleati, che liberarono il campo e successivamente trasferirono i sopravvissuti a Wietzendorf. Altri reclusi partiti da Dora finirono invece in altre località, dove conobbero i modi più atroci per morire (cf Alessandro FERIOLI, Dal lager sotterraneo alla luna, «Rivista Militare», n. 3 (maggio-giugno 2003).
67 La relazione è stata pubblicata nei «Quaderni del Centro Studi sulla deportazione e l’internamento», ANEI, n. 3 (1966).
68 TESTA, Wietzendorf, p. 153. Per quanto riguarda l’attività svolta con la Missione Pontificia nella Germania del Nord è fondamentale la Relazione al Sostituto della Segreteria di Stato Mons. Giovanni Battista Montini, compilata dal tenente cappellano militare prof. don Luigi Pasa in data 30 novembre 1945, e da egli stesso consegnata in copia anche all’Ordinario Militare Mons. Carlo Alberto Ferrero (AS.OMI, fasc. don Luigi Pasa). La scelta di don Pasa come “ambasciatore” degli internati da inviare in Italia è sempre stata spiegata dal salesiano stesso, nelle sue memorie, come un’idea nata tra alcuni ufficiali del campo di Wietzendorf, proposta al tenente colonnello Testa e da lui immediatamente approvata. In effetti, però, il tenente colonnello Testa (che, come è noto, nulla aveva lasciato al caso nell’organizzazione del campo e nell’assegnazione degli incarichi in vista delle più diverse evenienze) aveva inizialmente designato a tale compito il capitano conte Enrico Lulling-Buschetti del Reggimento Savoia Cavalleria, perfetto conoscitore della lingua inglese, che già lo affiancava nei suoi incontri con gli ufficiali britannici in qualità di interprete e godeva di grande credito presso la Brigata inglese (circostanza, quest’ultima, che risulta anche in TESTA, Wietzendorf, p. 148). Il Lulling, che aveva il compito di prendere contatto in Italia specialmente con l’On. Gasparotto, alla vigilia della partenza fu però improvvisamente colpito da polmonite, e costretto a una lunga degenza; e fu allora che don Pasa si offrì con insistenza e caparbietà per prendere il suo posto. Questi avvenimenti, dei quali si tace sia nel memoriale di don Pasa (piuttosto superficiale in merito) sia nella relazione di Testa (che non fornisce alcuna spiegazione in merito), furono raccontati dal conte Lulling stesso nel dopoguerra al tenente Gambari (testimonianza scritta rilasciatami dal dottor Astro Gambari in data 1 ottobre 2002). Soltanto il giorno 25 luglio il Lulling fu inviato da Testa in Italia al seguito del dottor Fulgenzi della CRI (TESTA, Wietzendorf, p. 166).
69 Tale data di partenza si ricava da PASA, Tappe…, p. 182 passim. Secondo il memoriale del tenente colonnello Testa, invece, il salesiano sarebbe partito il giorno 9 (TESTA, Wietzendorf, p. 153); la discordanza è dovuta forse a una svista di Testa circa la data preventivata per la partenza e quella effettiva della partenza dopo che don Pasa ebbe ottenuto dagli inglesi l’autorizzazione al viaggio. Il diario del tenente Enrico Zampetti, normalmente molto attendibile, non lascia comunque dubbi: il giorno 9 egli scriveva una lettera alla madre col proposito di affidarla a don Pasa che sarebbe dovuto partire l’indomani; il giorno 12 (sabato) alle ore 7 registrava la partenza di don Pasa per Roma «con le nostre lettere» (Enrico ZAMPETTI, Dal lager. Lettera a Marisa, Roma, Studium, 1992, pp. 351-352).
73 Per una panoramica sulla questione del “ritorno” degli internati, inteso come impatto con un ambiente che non seppe comprendere il loro sacrificio e i loro problemi, cf AA.VV., Il ritorno dai lager…, pp. 89-99.

Alessandro Ferioli, Quel “buon compagno di prigionia”: l’opera di Don Luigi Francesco Pasa per gli Internati Militari Italiani nei lager del Terzo Reich, Ricerche Storiche Salesiane, Rivista Semestrale di Storia Religiosa e Civile, 42, Anno XXII N. 1, gennaio-giugno 2003