Un rumoroso iniziale silenzio del Pci di fronte all’obiezione di coscienza

Il primo ad essere informato via lettera da Pinna fu Aldo Capitini <383. Quanto avvenuto era un piccolo successo anche dell’esiguo gruppo pacifista che divulgando la testimonianza morale del giovane ferrarese, aveva portato il sistema militare a trovare una soluzione. «La sua lunga resistenza gli ha valso i galloni di riformato: è nulla ed è qualcosa, perché evidentemente si temeva la pubblicità di un terzo processo» scriveva Guido Ceronetti. «Inoltre il problema è ormai posto, l’esempio dato, il termine esotico “Obiezione di coscienza” popolarizzato. Possiamo essere soddisfatti,» <384 scriveva, con timido entusiasmo Ceronetti <385.
[…] Il caso di Barbani fu il più particolare. Il suo gesto si configurava come atto istintivo, privo di un discorso teorico alla base, un bisogno di pace sorto dalla guerra che poneva il rifiuto della divisa in continuità con l’adesione ai Partigiani della Pace <503. Contrariamente agli altri obiettori egli non aveva mai sentito parlare di Pinna, o di altri casi. Al magistrato inquirente Barbani si limitò a riportare le poche parole che aveva cercato di pronunciare in precedenza: «Depongo le armi che mi sono state consegnate personalmente» e a precisare di aver voluto manifestare alla più alta autorità dell’Esercito la volontà di non prestare servizio militare perché «non voglio trovarmi mai in condizione di sparare contro un mio simile».
Il gesto non poteva passare senza conseguenze particolari, in un mondo in cui alla gerarchia e alla riservatezza veniva dato un valore massimo. Fu rinviato a giudizio per direttissima e processato tre giorni dopo con l’imputazione di disobbedienza aggravata «per non aver eseguito l’ordine di sfilare in parata commettendo il fatto mentre era in servizio e in circostanze tali da dare pubblico scandalo». Egli si difese dall’accusa di protagonismo, giustificando la spettacolarizzazione del rifiuto col comportamento dei suoi superiori
[…] Lo sguardo diverso dello spiritualismo pacifista nonviolento e le prime obiezioni di coscienza si calavano dentro una realtà che per la prima volta considerava la pace non solo un valore da perseguire, ma una fondamentale questione politica del mondo contemporaneo. Osserva giustamente Giorgio Vecchio che gli anni nei quali Alcide De Gasperi governò l’Italia «non furono solo gli anni “delle grandi scelte costituenti” del nostro Paese, della ricostruzione e dello scontro frontale tra la Chiesa cattolica e le sinistre nel quadro drammatico della guerra fredda: furono anche gli anni nei quali, per la prima volta, la questione della pace e dei mezzi per assicurarla fu posta al centro delle discussioni e delle preoccupazioni tanto degli uomini politici quanto degli uomini della strada» <550.
[…] Nell’intervista in cui ripercorreva la sua obiezione di coscienza, Barbani ricordava l’indifferenza con cui il partito al quale apparteneva trattò la vicenda. Rilevava soltanto che in carcere gli era giunta voce che sarebbe stato Terracini a curare la sua difesa, ma d’essersi ritrovato poi con un difensore di ufficio <558. Ricordava inoltre come i giudici lo scambiassero, già allora, prima che lo diventasse realmente, per anarchico: «Assurdo. Impossibile che lei comunista faccia l’obiezione di coscienza,» <559 aveva affermato il pm, credendolo «collegato a fili invisibili che presto salteranno fuori». Le affermazioni di Barbani vanno tenute presenti come testimonianza raccolta trentotto anni dopo. Le sue note sul Partito comunista sono tuttavia verosimili: esprimono un’indifferenza che fu allora tangibile. Gli interventi sull’obiezione di coscienza provenienti dal Pci sono del tutto episodici e sostanzialmente irrilevanti. Non esiste nessun accenno di discussione né nel Comitato Centrale, né nella Direzione, né tra i Partigiani della Pace. Soltanto Alberto Guiso nel suo “La colomba e la spada” rileva una proposta avanzata in Segreteria da Terracini di creare un movimento di obiettori che non venne avallata dal Pci, ma manca qualsiasi riferimento di data <560. Le uniche parole di esponenti del Pci relative ai primi casi di obiezione attestate sono quelle dell’on. Cavallari rilasciate al «Giornale dell’Emilia» che, in occasione del gesto di Pietro Pinna, aveva raccolto il parere di alcuni deputati suoi concittadini: per il deputato gli obiettori di coscienza non potevano avere «l’appoggio e la comprensione dei cittadini democratici» poiché la loro attività contro la guerra si esplicava «in un atteggiamento personale e puramente passivo»: «Io riconosco che molti cosiddetti obiettori di coscienza sono persone in perfetta buona fede, ma devo rilevare anche come (…) facciano proprio il giuoco di coloro che vogliono la guerra e che vedrebbero di buon occhio il consolidarsi di una tale associazione, la quale ha lo scopo di insinuare negli individui la convinzione che la guerra possa essere evitata soltanto con un atteggiamento passivo» <561. A queste considerazioni si può aggiungere la presa di posizione dell’organo giovanile «Pattuglia» <562. Chilanti, che ne fu l’autore, collegava il caso di Pinna a presunti episodi di sadismo avvenuti in campi di prigionia americani a cui gli obiettori erano stati destinati come custodi. Con parole più aspre di quelle di Cavallari, ma simili, in conclusione rilevava come fosse «più facile tentare di confondere le idee e di ingannare il popolo con una decina di “casi di coscienza” individuali riconosciuti e legalizzati» e al tempo stesso «negare a centinaia di migliaia di giovani che onestamente fanno il loro dovere di cittadini e di soldati il diritto di operare e di pensare liberamente in difesa della pace» <563.
La tenace indifferenza con cui il Partito comunista nel complesso guardò l’obiezione di coscienza aveva alle spalle la distanza ideologica, che si avverte in questi interventi. «Noi non siamo pacifisti» scriveva Ruggero Greco nel 1950 su «Rinascita»564. «Una classe sociale rivoluzionaria, un popolo oppresso che anela alla libertà non possono essere pacifisti, cioè non possono rinunciare a priori ed in ogni caso alla lotta armata, alla guerra, senza rinunciare con ciò ai loro obiettivi di emancipazione sociale e di liberazione nazionale». Il Partito comunista aveva di fatto elaborato una propria teoria della guerra giusta, meno articolata rispetto alla teoria tomista, incentrata sull’avanzamento della classe operaia e sulla difesa degli interessi del Paese nella quale l’obiezione di coscienza non poteva avere posto. Al tempo stesso in buona parte della base la speranza di pace non era più grande della speranza di una rivoluzione attesa dall’esterno. La seconda guerra mondiale aveva abituato il proletariato settentrionale a credere che il radioso futuro dell’Italia sarebbe venuto da fuori <565. Se la liberazione dal fascismo era stata portata dalle truppe americane, l’Armata rossa avrebbe realizzato la liberazione di classe <566. Al “Baffone” appeso ai muri delle case o ai macchinari delle fabbriche veniva affidata la propria vendetta e la propria redenzione di classe. L’idea di una nuova guerra come secondo tempo della Resistenza era così radicata che al Comitato Centrale del marzo 1949 lo stesso Togliatti fu costretto a frenare, con un’aspra critica, il fatalismo di certi settori del partito, dove «un atteggiamento rassegnato conto la guerra si mascherava di rivoluzionarismo» <567.
In secondo luogo, come si è visto a proposito della discussione nell’Assemblea Costituente, il mitologema della Nazione in armi innervava la lettura militare del Partito comunista <568.
Il servizio militare rientrava tra i doveri del comunista <569, anche quale occasione di condurre azioni di propaganda e di stabilire legami con i coscritti. Il dopoguerra vide una considerevole attenzione del Pci alla costruzione di reti di sociabilità con i giovani di leva attraverso il coinvolgimento della federazione giovanile a cui spettava il compito di organizzare feste, luoghi di ritrovo, forme di assistenza materiale e spirituale, e dell’Associazione Ragazze Italiane il cui impegno politico era legato alla più intima sfera affettiva, attraverso la corrispondenza epistolare con i coscritti.
L’approccio testimoniale dell’odc non poteva trovare ricezione nemmeno nel movimento dei Partigiani per la Pace nato nel 1949, come forza mondiale organizzata, capace di suscitare una mobilitazione delle masse popolari attorno ai temi della pace <570. La relazione tenuta da Juliot Curie a Parigi, durante il congresso fondatore dei Partigiani della Pace, convocato in opposizione al patto Atlantico, affermava la certezza «che si potesse fermare la mano degli assassini» soltanto «dando voce alle grandi masse amanti della pace» <571. Le colossali raccolte firme per petizioni contro il Patto Atlantico o contro le armi atomiche, le inaugurazioni solenni, i cortei, la costituzione di premi, l’uso di una comunicazione visiva ad effetto che marcava un territorio fisico con bandiere della pace e tricolori, striscioni, scritte e murali stradali, le coccarde della pace erano tutte iniziative volte a suscitare una partecipazione di massa e un’impressione attraverso la propria imponenza <572. Gli scenari prescelti, i teatri o le piazze, assecondavano quanto più possibile la dimensione pubblica <573. Lo schivo tormento interiore degli obiettori, l’elitarismo spirituale della loro coscienza non era una moneta pregiata.
Non deve infine essere dimenticato, come rileva Anna Tonelli, che nella formazione di un nuovo Stato democratico, «il partito di massa guidato da Togliatti si assume la responsabilità di interpretare e guidare le aspettative di ordine e concordia non solo dei propri militanti, ma anche di una più estesa cittadinanza». La preoccupazione di «non spaventare» i borghesi fu un imperativo del gruppo dirigente che insiste «sulla necessità di presentare un partito moderato e ordinato» <574. Come la Democrazia cristiana anche il Partito comunista guardava lo scarso seguito che avrebbe trovato, nei ceti moderati, un sostegno all’obiezione di coscienza.
Data la carenza di prese di posizioni del Pci nei confronti dell’obiezione di coscienza, un’interpretazione marxista si può rintracciare nella stampa socialista, all’epoca fermamente allineata con l’orientamento comunista <575: «Non siamo un Congresso di obiettori di coscienza» disse Nenni ai Partigiani della Pace raccolti a Parigi, marcando una distanza <576. Tuttavia, nonostante la profonda vicinanza di posizioni a cui i due partiti erano giunti nella congiuntura del dopoguerra, il Psi non poteva ignorare la vivace tradizione antimilitarista di inizio secolo con la quale l’obiezione di coscienza stabiliva una relazione almeno ideale. In bilico tra il passato e il più recente legame con il Partito comunista, strettosi ulteriormente dopo la chiusura della breve segreteria di Lombardi, le posizioni prese da «L’Avanti» si caratterizzarono per un’ambivalenza, che da una parte prendeva le parti degli obiettori in chiave antigovernativa, dall’altro ne minimizzava l’ispirazione, riducendola ad atto individualistico e astratto <577. Anche dove si arrivava ad auspicare un’assoluzione dell’obiettore e l’introduzione nella legislazione italiana della disciplina dell’odc, lo si faceva sempre, tenendo presente la natura dello stato italiano quale «stato borghese e stato individualistico, sorto proprio dal trionfo di una cultura individualistica liberale» che aveva nella sua logica il riconoscimento di una prerogativa individualistica «come hanno fatto tanti altri paesi borghesi, al suo cittadino anche questo diritto». Il fatto che l’Italia non lo facesse era solo indice «di una arretratezza politica non comune», dato che l’obiettore di coscienza non poteva rappresentare «un vero pericolo». Egli tuttavia non poteva essere preso come modello, poiché chiuso nella volontà di «risolvere il proprio problema di coscienza con un gesto squisitamente individualista» – ne era una prova «la mancanza di propaganda presso i commilitoni per indurli a seguire il suo esempio». La sua era soltanto una «nobile purificazione dell’individuo che si rifiuta di uccidere», incapace di agire sulla cause della guerra, non partendo «da una critica della società borghese» e pertanto, non riconoscendola quale «sbocco inevitabile delle contraddizioni del mondo capitalistico (…), che tenta, ogni volta disperatamente di salvarsi, finché all’ultimo» è costretto a ricorrervi, come «unico mezzo per sfuggire alle sue crisi». Una «rivolta morale» individualistica «avulsa dalla collettività dei suoi simili», sorda e cieca «ai loro problemi e alle loro speranze» non si sarebbe mai potuta contrapporre a un fatto sociale come quello della guerra. Non era immaginabile «un soldato Pinna partigiano, un soldato Pinna difensore con le armi della libertà e dei diritti del popolo contro i suoi tiranni». Il gesto dell’obbiettore era «nobile ma sterile, bello ma inutile». Solo nel caso utopico di un’obiezione di coscienza generale, «per cui tutti in un paese si rifiutassero, per quelle ragioni religiose e morali, di prender le armi», questa avrebbe potuto essere efficace contro la guerra. Altrimenti, poiché «l’Italia non è un monastero del Tibet» l’obiezione di coscienza metteva il popolo «su una china molto pericolosa» in cui le convinzioni e le persuasioni dei singoli potevano bastare «per estraniarsi dalle lotte e dalle fatiche di tutti, standosene alla finestra». L’intervento «per togliere via le cause e impedire che la guerra scoppi» non era proprio dell’obbiettore di coscienza, ma del lottatore, disposto «a combattere per sterminare dal mondo l’iniquità e costruire un mondo migliore di giustizia».
Tuttavia Giuseppe Petronio proponeva un approccio astuto da parte dei partiti del Fronte verso gli obiettori di coscienza, come mossa tattica per accrescere le contraddizioni del mondo capitalista in modo da portare gli obiettori «a raggiungere il grande esercito del proletariato, nella sua opposizione netta e vigorosa della società capitalistica». Non doveva essere compiuto «il grave errore di condannare pure noi gli obbiettori di coscienza, che sono, se non altro, il chiaro sintomo di un malessere, di un disagio che sta in noi allargare e trasformare in decisa coscienza ed in volontà di abolire la guerra», traducendola «da elemento puramente negativo, di semplice negazione di una moralità, in elemento positivo, in affermazione ferma ed intransigente di una nuova moralità e di una nuova società».
Al di là della lettura teorica dell’odc interna al Fronte Popolare, oscillante tra emarginazione e assorbimento il Partito comunista fu uno dei protagonisti che più incisero nel segnare le sorti dell’odc una sorta di convitato di pietra costantemente presente, soprattutto alla luce di alcune manifestazioni pacifiste attuate dai Partigiani della Pace in cui, pur senza riconoscerlo venne fatto uso di strumenti e metodi di lotta nonviolenta. Il rifiuto di scaricare armi americane e di trasportarle su strade ferrate del marzo-aprile 1949 da parte delle compagnie di portuali e ferrovieri, si accompagnò ad esempio ad alcuni pronunciamenti che avevano toni assimilabili a una obiezione di coscienza <578. Similmente il noto caso delle «cartoline rosa», avvenuto al principio del 1951, si configurò sotto espresso invito dei Partigiani della Pace a dare alla protesta una forma «collettiva e pubblica», la più importante mobilitazione contro la leva dell’Italia Repubblicana, attuata in diversi momenti, attraverso manifestazioni, autosospensione dal lavoro, invio di lettere di contestazione al governo, distruzione pubblica di cartoline <579. In nessuno di questi casi si prese coscienza del ponte che si stava stabilendo con i principi dell’odc né si cercò un collegamento con i movimenti che sostenevano il riconoscimento, nonostante vi fossero i presupposti di una convergenza almeno tattica, di fronte alla maniera pesante con cui i tribunali militari entravano nella dialettica democratica del Paese, abusando dell’articolo 325 del codice militare di guerra per cui essi che permetteva loro di giudicare per reati militari cittadini in congedo illimitato, fino al quarantacinquesimo anno di età <580. Durante i processi gli interventi dei pubblici ministeri e le sentenze stesse ebbero un corredo retorico molto simile a quello adoperato nei confronti degli obiettori. In entrambi i casi, in realtà, le scelte di mobilitazione del Partito comunista non avevanonessun’altra motivazione se non una valutazione tattica di calcolato realismo. Esse rientravano nella categoria della “versatilità” che secondo Secchia avrebbe dovuto informare la politica di massa del partito <581: la poca dimestichezza dei quadri di partito con forme di lotta politica non armata fu manifestata dall’insuccesso delle azioni citate <582.
L’affinità tra queste modalità di lotta e i principi dell’obiezione di coscienza non sfuggirono ad alcuni contemporanei. Un fine giurista come Capograssi, pur in un’interpretazione assai schematica per cui sosteneva cattedraticamente che il diritto positivo dovesse escludere ogni affermazione di coscienza individuale in contrasto con quella comune, colse le implicazioni giuridiche di un’estensione dell’obiezione di coscienza oltre i confini del rifiuto della divisa, a tutte le attività connesse con le armi, fino a ipotizzare una possibile obiezione di carattere fiscale <583. Dal punto di vista politico, se vi fu chi rilevò in chiave polemica la differenza tra Pinna e i portuali, come per esempio il deputato democristiano Delle Fave <584, più frequentemente la somiglianza tra le azioni venne adoperata in maniera strumentale per avvalorare la tesi che l’obiezione di coscienza, fosse una manovra del Pci. A conclusione dell’intervento su «Civiltà Cattolica», con cui il padre gesuita Messineo chiudeva alla possibilità di un’accettazione da parte della dottrina cattolica dell’obiezione di coscienza, «la pericolosità del soggettivismo» veniva provata dal rifiuto degli operai in qualche industria bellica di lavorare alla produzione delle armi e nel minacciato sciopero dei portuali per non scaricare le armi inviate dall’America ai paesi occidentali aderenti al Patto Atlantico: «ecco un’obiezione di coscienza, non più individuale, ma collettiva» <585. Altrettanto significativo della confusione tra le campagne dei Partigiani della Pace e il gesto degli obiettori era la confusione che talvolta appariva sui giornali dove la propaganda degli obiettori e quella dei Partigiani della pace veniva sovrapposta <586.
La presenza di un movimento di massa, costituitosi attorno al tema della “pace” e del “disarmo”, capace di muovere gruppi e intellettuali anche non organici al partito, condizionava inevitabilmente il gruppo capitiniano Da una parte questo cercò di resistere e pose dei risoluti distinguo di fronte alla compressione delle proprie originali istanze verso il mondo sovietico. Dall’altra si dovette confrontare con letture differenti date al fenomeno comunista al proprio interno e alla possibilità di relazionarsi con esso. Il superamento dei blocchi sostenuto da tutti, aveva pendenze diverse i cui picchi possono essere rappresentati da Capitini e Ceronetti. Il filosofo che aveva aderito al fronte in occasione delle elezioni del 1948, definiva se stesso un post-comunista che promuoveva la trasformazione «della struttura politico-burocratico-militare sovrappostosi all’apertura rivoluzionaria» <587 attraverso un’apertura religiosa. L’equidistanza tra Urss e Usa da lui professata, la necessità di una compenetrazione tra i due modelli (socialismo e diritti alla persona) non era l’affermazione di un’equivalenza dei blocchi, ma funzionale ad una «terza via» di uno sviluppo di una società aperta <588. La Russia era una sorta di Francia napoleonica, con «una grande rivoluzione alle spalle, risultati consolidati e stimoli spenti» che necessitava di un accantonamento dello statalismo staliniano per «strutture autonome-liberate-dal basso» <589. La posizione di Ceronetti era di segno opposto. Il poeta assumeva l’impegno per l’obiezione di coscienza come una battaglia per la libertà prima che per la pace, quasi un atto di difesa che la cultura occidentale avrebbe dovuto intraprendere proprio di fronte allo «scempio di ogni libertà che viene fatto nei paesi sovietizzati» in modo che «la superiorità della libertà nella legge» trovasse «conferma in nuove conquiste, nonostante tutti i pericoli e le minacce, perché la libertà, se ristagna, è perduta» <590. La maniera in cui il governo democristiano edificava sulla paura del comunismo era da condannare proprio perché colpiva al cuore la cultura occidentale <591, pur se i timori non erano infondati: tra fenomeno fascista e comunista vi era per Ceronetti un’equivalenza che li rendeva ugualmente preoccupanti <592. Solo alla luce della lettura di Ceronetti del mondo sovietico possono essere comprese le critiche feroci al mondialismo e il suo conflittuale rapporto col pacifismo: solo l’obiezione di coscienza gli appariva un’istanza «degna di un uomo intelligente e libero» proprio perché accresceva il «libero sviluppo dell’umanità» <593.
Lo scoppio della guerra in Corea avrebbe ulteriormente distanziato le sue posizioni rispetto a quelle di Capitini, fino a portarlo a dubitare della validità di un approccio nonviolento <594.
[NOTE]
383 Lettera di Pietro Pinna ad Aldo Capitini, Ferrara, 12 gennaio 1949 in FC, b.1390.
384 Lettera di Guido Ceronetti ad Aldo Capitini, Torino 19/1/1950, Ivi b.75.
385 Lo stesso Pinna, ripercorrendo la propria vicenda riconosceva che fosse impossibile pretendere di più, da quelle circostanze P. Pinna, La mia obbiezione di coscienza, cit., p.44.
503 Nell’intervista a «Senzapatria» egli stesso diede una spiegazione molto istintiva della sua scelta, partorita dall’esperienza della guerra: «Avevo delle necessità di esprimermi aldilà del discorso teorico, che io non ero in grado di fare. Mi hanno condizionato molto le immagini che ho visto durante la guerra, quando, appena ragazzino, seppellivo i morti ammazzati, aiutando i partigiani della Maiella».
550 G. Vecchio, Pacifisti e obiettori nell’Italia di De Gasperi, cit., p.15.
558 38 anni di antimilitarismo. «Senzapatria», cit. Al contrario dell’avvocato d’ufficio di Pinna, quello di Barbani, Bonocore svolse il suo compito egregiamente.
559 Nella sentenza questi sospetti furono ripresi: la sua qualità di obiettore venne contestata con l’ipotesi che nel suo atto si nascondesse «un sentimento meno nobile, la viltà» o che mascherasse fini sovversivi.
560 A. Guiso, La colomba e la spada, cit., p.409.
561 «Cittadini del Mondo» Numero Unico, dedicato all’obiezione di coscienza, settembre 1949 riportato in A. Martellini Fiori nei cannoni, cit., pp. 91-92.
562 Ceronetti presentò l’articolo a Capitini definendolo «semplicemente rivoltante (…) peggio di qualsiasi foglio clericale spagnolo dell’epoca dell’Inquisizione» Lettera, Torino, 30/9/1949 in AS, FC, b.686.
563 F. Chilanti, E’ ritornata in caserma la “coscienza” del povero Pinna, in «Pattuglia», 11 settembre 1949 in G. Vecchio, Pacifisti e obiettori nell’Italia di De Gasperi, cit. p. 153.
564 R. Grieco, La guerra e la pace secondo il marxismo, in «Rinascita», 7, 1950, pp. 340-347.
565 P. Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra ad oggi, cit., p.106.
566 Cfr. V. Foa, La ricostruzione capitalistica e la politica delle sinistre, in Italia 1945-48, Le origini della Repubblica, Giappichelli, Torino, 1974.
567 R. Giacomini, I partigiani della pace, Il movimento pacifista in Italia e nel mondo negli anni della prima guerra fredda, Vangelista 1984 p. 72. Sulla politica estera del Pci cfr S. Galante, L’autonomia possibile. Il Pci del dopoguerra tra politica estera e politica interna, Firenze, Ponte alle grazie 1991, e P. Spriano, Intervista sulla storia del Pci, (a cura di S. Colarizi), Roma-Bari, Laterza 1979.
568 Sulla politica del Pci in rapporto all’esercito Cfr. A. Guiso, La colomba e la spada, cit., pp.403 e ss.
569 Al settimo congresso nazionale nel suo intervento Palmiro Togliatti dichiarava: «Noi vogliamo un esercito, ma vogliamo un esercito dell’Italiae di un’Italia indipendente e sovrana, e non di un’organizzazione al servizio degli Stati Uniti d’America» (Ivi, p. 420).
570 Cfr. G. Vecchio, Pacifisti e obiettori, p. 49 e S. Galante, La politica del Pci e il patto Atlantico: «Rinascita» 1946-49, Padova, Marsilio, 1973, pp. 244-249.
571 R. Giacomini, I partigiani della pace, cit., p. 48. Cfr anche A. Donini, Il Congresso mondiale dei partigiani della pace, in «Rinascita», a. VI, n.4, aprile 1949 Ivi, cit., p. 6.
572 Cfr. A. Guiso, La colomba e la spada, cit., p. 151.
573 Sul ruolo della piazza nelle manifestazioni comuniste vedi M.Isnenghi, L’Italia in piazza. I luoghi della vita pubblica dal 1948 ai nostri giorni, Mondadori, Milano, 1994.
574 A. Tonelli, Falce e Tortello. Storia politica e sociale delle Feste del’Unità, Roma-Bari, Laterza, 2012, p.10.
575 Per una ricostruzione delle posizioni socialiste di fronte alla guerra Cfr. E. Di Nolfo, Il socialismo italiano tra i due blocchi in AA.VV., Trent’anni di politica socialista (1946-1976). Atti del Convegno organizzato dall’Istituto Socialista di studi storici, Parma, gennaio 1977, Roma, Mondo Operaio, Edizioni Avanti, 1977, F. Taddei, Il socialismo italiano del dopoguerra: correnti ideologiche e scelte politiche (1943-1947), Milano, Franco Angeli 1984, D. Ardia, Il Partito Socialista e il Patto Atlantico, Milano, Franco Angeli, 1976.
576 Cfr. «Cittadini del mondo», aprile-maggio 1949.
577 Cfr. F. Morigi, Il soldato Pinna, «Avanti», 16 settembre 1949, G. Petronio, Gli obiettori di coscienza, «Avanti», 5 novembre 1949 e Negare la guerra, «Avanti 1 novembre 1949, da cui sono tratti gli spezzoni successivi.
578 «Non scaricheranno e non caricheranno armi, che non si presteranno mai a manovrare armi, a provocare nel mondo nuovi armi e nuovi lutti»scrivevano i portuali di Genova Altri pronunciamenti ebbero un tenore simile. A Livorno i portuali prendevano solenne impegno di «non scaricare e caricare armi della terza guerra ». Va tuttavia sempre tenuto presente che la mobilitazione eterodiretta dall’Unione Sovietica e guidata da Pietro Secchia, rispondeva di fatto alle 21 condizioni poste da Lenin nel 1920 all’adesione alla Terza Internazionale che comandava ai partiti comunisti in caso di guerra contro le «repubbliche operaie» d’ impedire «il trasporto e delle armi destinate ai nemici dell’Urss». Per una ricostruzione della vicenda Cfr. G.Vecchio, Pacifisti e obiettori nell’Italia di De Gasperi, cit., pp. 102-115 (da qui sono tratti i pronunciamenti citati), A. Guiso, La colomba e la spada, cit, pp.226 e ss, R. Giacomini, I partigiani della pace, cit., pp. 91 e ss,
579 Dare forma organizzata all’opposizione alla guerra in «L’Unità» 11 febbraio 1951. Un’ampia ricostruzione della vicenda si trova in G. Vecchio, Pacifisti e obiettori nell’Italia di De Gasperi, cit., pp.240-247.
580 Cfr. A. Martellini, Fiori nei cannoni, cit. pp.100-101. Nonostante la Corte d Cassazione si fosse pronunciata a sezioni unite limitando gli interventi dei tribunali militari ai soli reati militari, cioè costituiti «da un fatto che nei, suoi elementi materiali costitutivi non è, in tutto o in parte preveduto come reato dalla legge penale comune» questi continuarono ad emettere giudizi anche su reati previsti dall codice penale ordinario. Sugli abusi compiuti in occasione della vicenda delle cartoline rosa cfr G. Vecchio, Pacifisti e obiettori, cit., p. 245.
581 Cfr. IGR, Fondo M, Verbali dell’Ufficio Nazionale d’Organizzazione (1950-52), mf 167, busta 28/2 , pacco 7, in A . Guiso, La colomba e la spada, cit., p.224. In particolare la mobilitazione sullo sbarco di armi venne controllata in modo da non giungere ad un’altra Modena.
582 Sereni lo ammise esplicitamente di fronte ad un altro insuccesso, quelle delle manifestazioni nei confronti di Eisenhower nel 1952. (Cfr. APci, Ufficio Nazionale d’Organizzazione, seduta dell’11 luglio 1952, Esame del nostro lavoro per il rafforzamento della pace, mf 167 in A. Guiso, La colomba e la spada, cit., p. 240).
583 G. Capograssi, «Il Foro Italiano», 1950, II, coll. 47-52.
584 AP, Camera dei Deputati, seduta 7 febbraio 1950, p.15134. L’intervento era molto ampio e riguardava in realtà la crisi del quinto governo De Gasperi. «Perché qui non si tratta di obiettori di coscienza come il buon Pietro Pinna, che ha paura di guardare l’ombra dei moschetti, qui si tratta di gente che esplicitamente dichiara che se le armi provengono da una parte non le scaricano;se invece provengono dall’altra le imbracciano e sparano contro i propri fratelli. E’ inutile che mettiamo il capo nella sabbia per-non vedere!»
585 A. Messineo, L’obiezione di coscienza, in «La civiltà cattolica», 101, 1, 1950, pp. 361-369.
586 «La Stampa» 12 novembre 1950. In questo caso veniva raccontata una presunta propaganda contro il servizio militare compiuta alla caserma Macao compiuta da «obiettori» e «partigiani dellla pace».
587 A. Capitini, Somiglianze storiche e loro purificazione in Italia nonviolenta, cit., p. 42.
588 A.Capitini, Orizzonte mondiale, Ivi, p. 35.
589 Lettera di Aldo Capitini a Guido Calogero, Perugia 23 agosto 1949 in Fondo Calogero, Corrispondenza, Aldo Capitini. Sul rapporto tra Capitini e il comunismo cfr A.D’Orsi, Aldo Capitini dall’antifascismo alla nonviolenza, cit., p.38.
590 Lettera di Guido Ceronetti ad Aldo Capitini, Torino 24/10/1950 in AS, FC, b.75.
591 Lettera di Guido Ceronetti ad Aldo Capitini, Torino 19/1/1950 Ivi.
592«La prosa comunista è rabbrividente: soltanto quella fascista la supera in orrore» scriveva a Capitini nel giugno del 1949. Lettera di Guido Ceronetti ad Aldo Capitini, Torino, 2/6/1949 in AS, FC, b.686. In occasione del convegno di Parigi Ceronetti rimproverò a Capitini un articolo dal titolo La pace oggi, nel quale non vedeva il fenomeno comunista trattato con la giusta severità rispetto alla minaccia alla pace portata dall’Occidente: «Dobbiamo evitare di confonderci tu affermi e hai pienamente ragione. Ma allora il nostro linguaggio non deve prestarsi ad equivoci» (Torino, 2/5/1949; cfr anche lettera, Torino, 22/4/1949 Ivi.
593 Lettera di Guido Ceronetti ad Aldo Capitini, Torino, 16/5/1949 in AS, FC, b.686.
594 Lettera di Guido Ceronetti ad Aldo Capitini, Torino, 2/12/1950 Ivi. Per quanto le posizioni si facessero sempre più divergenti al punto da impedire l’elaborazione di una linea comune, tra Ceronetti e Capitini non vi furono mai screzi: l’approccio dialogico del filosofo umbro verso qualsiasi posizione diversa erano deterrenti sufficienti a non minare il loro rapporto. In occasione del convegno sull’obiezione di coscienza, conscio dell’intransigenza della propria posizione, Ceronetti preferì anzi non intervenire, lasciando che fosse il filosofo a delineare il quadro della situazione internazionale. A Capitini con affettuosa autoironia scriveva «Ci sarà tuttavia il tuo discorso d’apertura che durerà abbastanza spero per scoraggiare i seccatori della prima giornata. Del resto io sono ossessionato dalla minaccia del comunismo e dalle altre balordaggini del secolo, e da me non si caverebbe niente di positivo (in questo momento)» (Lettera, Torino, 10/101950 Ivi).
Marco Labbate, E se la patria chiama… Storia dell’obiezione di coscienza al servizio militare nell’Italia repubblicana (1945-1972), Tesi di dottorato, Università degli Studi di Urbino Carlo Bo, Anno accademico 2014-2015