Un mare che il più delle volte risplende

Foto: Maria Pia Viale
A guardarlo dalle nostre colline, della Liguria Occidentale, sale all’orizzonte come un immenso edificio di luce. Fa sognare partenze, voli supremi. A volte è bianco e fa l’effetto di una nuvola; più spesso è di un azzurro che sconfina; se il vento lo ghermisce, appare solcato di cammini, specie di sera. Ma in fondo che mare è? A un’apertura, a una libertà metafisica non corrisponde una realtà geografica: è quasi un lago e le sue rive sono state spesso insanguinate e lo sono anche adesso.
Su coste di sabbia o di roccia si svolgono faide politiche e religiose, lotte di intolleranza monoteista. Possibile, che, come dice Freud, non si possa vivere senza un dio a contatto del deserto? Dio personificazione dell’eterno e del padre primordiale. Viene da dire con Camus: beati gli orfani. Aver perduto gli dei greci e il dio cristiano è un privilegio che rende liberi e soli con la propria coscienza. Rende beninteso anche tristi e responsabili.
E’ un mare che il più delle volte risplende e il suo bordo lontano sembra versarsi altrove per rifrazione di orizzonte. Montale lo ha chiamato «antico», così, sintetizzando, antico; e ne ha appreso la legge «rischiosa e severa», e avrebbe voluto carpirne la voce e tradurla in «balbo parlare». Un po’ di quel suono, roco e cristallino se tira il vento, è passato nelle sue rime. Camus ha sentito l’orgoglio, l’intima felicità di averlo guardato a lungo, da ragazzo, sulla costa algerina, e, a suo dire, qualcosa di quel suo mare traspare nella sua prosa lucide a arcangelica. «Ho avuto il mare, – scrive nei suoi diari, – e l’amore assoluto di mia madre; mi potranno anche uccidere, ma nessuno mi potrà umiliare».
E’ così, questo mare non si può guardare senza patirne le conseguenze, mare antico, mare devastato, insanguinato, ma che sprigiona luce anche dai suoi scogli. Mare che reagisce al calare della notte listandosi di un viola arioso.
Fra il mio paese e il mare si frappone una rupe, un agglomerato di ciottoli e conchiglie (o piuttosto di orme di conchiglie) dall’aspetto arcigno. La vegetazione è di ginestre spinose, quelle che ha stilizzato Sutherland in «Capo di Spine» per dare un’idea della crudeltà del mondo, di cisti vellutati e fragili, di qualche ulivo superstite che vive a stento. Di lassù si gode, saltate le orrende costruzioni della nostra costa, di un vasto arco luminoso. La giornata era tersa, il mare mosso: l’acqua viaggiava e l’Esterel lontano prendeva il largo con le sue cime evanescenti; le due isole Sainte-Marguerite e Saint-Honorat sembravano anche essi velieri d’argento. Ma non riuscivo a trasognarmi, a comporre in pace quel paesaggio. Forse perché sapevo di dover scrivere, s’affacciavano nel turbinio luminoso sole civiltà morte, con cui queste terre erano state a contatto (gli ulivi li avevano portati i fenici), e le civiltà vive si affrontavano sulle rive invisibili in lotte furibonde: mani tagliate, lapidazioni, donne e bambini massacrati. Mi domandavo perché non erano già avvolti dalla polvere del tempo.
Saint-Honorat è uno scoglio circondato da un azzurro crudo e freddo, più che uno scoglio è un altare sul mare, non c’è che un campo di lavanda e un monastero. Vi sono stato, Che dire? Si alzava il canto gregoriano e si aggrappava a qualche nuvola di passaggio incrostata di sole. Ma, sogni a parte, non so veramente che dire, questo azzurro che scolpisce le cose che tocca e le corrode, che ha sovrastato un mondo di pastori, di pescatori, di olivicoltori, è pieno di ombre segrete sempre più fonde per eccesso di storia e di luce.
Francesco Biamonti, Mare di luce e di sangue. La realtà politica contro la libertà metafisica, in Finestra sul Mediterraneo, a cura di S. Buonadonna, Il melangolo, Genova 2001, pp. 67-68 [articolo qui ripreso da Maria Pia Viale]