Un diplomatico fedele all’Italia

Attilio Perrone Capano è un giovane diplomatico di appena 28 anni quando, nel giugno del 1943, arriva a Budapest, presso la Legazione italiana, per assumere, nella complicata terminologia del protocollo, l’incarico di Secondo terzo segretario. Di famiglia napoletana borghese colta e agiata, come tante altre urtata dalla cadute di stile e dagli “eccessi” del regime ma ad esso non ostile, arriva dalla Ginevra aperta e cosmopolita della Società delle nazioni, dove ha già incominciato a riflettere criticamente sulla politica estera dell’Italia e a interrogarsi sul suo futuro. La sua nuova destinazione è, per l’Italia fascista che rappresenta, una capitale amica. L’Ungheria di Horthy ha sviluppato con l’Italia di Mussolini rapporti intensi sia sul piano politico (in nome del comune “revisionismo” contro i trattati di pace di Parigi del 1919) che su quello culturale e commerciale. La capitale magiara, con il suo fascino cosmopolita, è meta ambìta dei viaggiatori italiani benestanti e sfondo non inconsueto dei film d’evasione che seducono l’immaginario popolare, quelli dei “telefoni bianchi”. […] È un Paese che vive nel mito di una grandezza perduta e nel drammatico ricordo di un breve periodo rivoluzionario che – nel 1919 – l’ha sconvolto dalle fondamenta: ancora governato da una burocrazia efficiente, ereditata dall’impero asburgico, ma caratterizzato da diseguaglianze sociali profonde; retto da un regime politico autoritario, nazionalista e tendenzialmente antisemita, ma incapace di fare a meno delle risorse e delle abilità degli ebrei nella gestione dell’economia e del commercio, tanto che di una “legge per la difesa della razza” varata nel 1941, che equiparava l’ebraismo alla tubercolosi (!), l’entrata in vigore era stata rinviata di due anni.
Qui giunge, carico di entusiasmo ma certamente non inconsapevole dei problemi che dovrà affrontare, il giovane Attilio Perrone Capano.
Dopo neppure un mese dal suo arrivo la situazione precipita rapidamente, prima con la caduta del fascismo il 25 luglio, poi con l’armistizio l’8 settembre e infine con la fuga di Mussolini in Germania il 13. L’ambasciatore italiano Filippo Anfuso, appena avutane notizia, parte anche lui per Berlino. Nei tormentati quarantacinque giorni badogliani Budapest si trova così ad ospitare due Legazioni italiane, una fascista riconosciuta anche dalla Germania, alleata dell’Ungheria, e una che si dichiara invece l’unica rappresentante di un governo italiano legittimo, quello del re e di Badoglio. Una parte importante del personale d’ambasciata, che ha il suo punto di riferimento e la sua guida morale nel Primo segretario Carlo de Ferrariis Salzano, sceglie questa seconda strada. È la spia degli umori di un corpo diplomatico italiano che nelle sue fibre profonde, non diversamente da settori importanti delle Forze armate, è rimasto sempre più leale alla “Patria”, e per essa alla monarchia, che non al fascismo: anche a prezzo di sottovalutare ingenuamente l’intreccio d’interessi fra i due e la sostanziale subalternità della prima al secondo.
Attilio Perrone Capano non ha esitazioni nel fare la sua scelta, e con i suoi colleghi paga un prezzo molto alto: prima la prigione in Ungheria nella primavera del 1944 poi, in Italia, l’internamento e il domicilio coatto in Val Trompia e nei pressi di Milano.
Esasperato dall’impossibilità di fare qualcosa per la rinascita del suo Paese, frustrato dall’inattività, Perrone Capano riannoda un esile contatto con la Resistenza e decide di raggiungere Roma e il Ministero degli Esteri dell’Italia liberata, passando la Linea Gotica dove il generale Alexander ha bloccato per tutto l’inverno l’avanzata della V Armata. Dopo tre mesi di snervante attesa a Bologna, rifugiato in un istituto religioso, Attilio il 29 dicembre non vuole più indugiare e parte, nascosto su un camion della Croce Rossa, per Sestola sull’Appennino modenese.
La sera del 2 gennaio 1945, in condizioni di tempo proibitive, si mette in marcia dalla frazione di Roncoscaglia con altre cinque persone e una guida per attraversare le linee al Passo del Lancino, a 1700 metri di altezza, e scendere sul versante pistoiese, già presidiato dalla V Armata, ma viene sopraffatto dalla tormenta e risulta disperso. Il suo corpo sarà ritrovato alle pendici del monte Cimoncino, non lontano dal Lago della Ninfa, custodito intatto dalla neve, con il cappotto e le scarpe che usava a Budapest.
Eva Framarino, nipote di Attilio Perrone Capano, ricostruisce questa drammatica vicenda attraverso una accurata ricerca storica fondata su documenti inediti e una finissima indagine psicologica. Si cala così bene nel personaggio di Attilio che tutta la prima parte del libro è scritta nella forma di un diario che, anche se dichiaratamente apocrifo, ha il timbro dell’autenticità. La tragica epopea degli ultimi giorni è invece ricostruita prestando voce ai progetti, alle speranze e alle paure dei suoi protagonisti, tra i quali spicca la figura femminile della giovane bolognese Valeria Schiassi, e ripercorre anche materialmente le tappe dell’itinerario in cui Attilio perde la vita nell’aspro paesaggio dell’Appennino. Ma un terzo registro è presente nel libro, quello delicato di un’esplorazione di una memoria familiare ovattata e quasi rimossa. L’autrice vi si muove con grande discrezione, ma con altrettanta determinazione nella ricerca di una verità che sente di dovere a Attilio e a se stessa. Lettere e documenti diplomatici inediti, insieme a foto di persone e di luoghi, corredano non come appendici ma come parti integranti della narrazione questa “trama reale eppure arbitraria” di grande fascino e appassionante lettura.
Aldo Agosti (professore emerito di Storia contemporanea all’Università di Torino)
[…] Non mi sfugge il rischio che questa storiografia familiare abbia un che di limitativo e finisca per non cogliere la componente sociale che almeno in nuce era presente nella Resistenza e nell’opposizione al regime di Salò e che è stato elemento fondante della Repubblica italiana. Ma le generazioni mie e dell’autrice sono cresciute con queste storie raccontate “da chi aveva assistito alla guerra”. Molte di queste sono state per noi addirittura “storie della buonanotte” e dunque oggi rammentiamo con grande partecipazione sia le vicende che ci narravano sia il momento in cui venivano narrate. Ma in molti casi queste vicende sono rimaste nascoste anche all’interno del nucleo familiare che doveva custodirle, come se il far riemergere eventi dolorosi costringesse i sopravvissuti a rivivere quelle vicende e l’oblio fosse la miglior risposta alla sofferenza. Poi accade, come in questo caso, che la caparbietà di un familiare sollevi il velo dell’oblio e riemerga una vicenda cancellata dalla storia. Ma rimane quell’aria di famiglia, di grandi appartamenti poco illuminati, di fughe di stanze dove in un luogo particolare c’era la fotografia di un parente morto in guerra o a causa della guerra; quell’aria di affettuosa memoria si ritrova nel modo in cui è raccontata la vicenda di Attilio Perrone Capano ed è forse l’unico modo in cui si poteva e si doveva raccontarla.
Filippo Tuena
[…] Lumezzane, 10 giugno 1944
Beethoven, Klavierquartett, op. 16, secondo movimento
Stanotte le guardie hanno sparato a raffica.
Sparano per qualsiasi rumore, sparano in direzione del rumore senza mirare, sparano in aria per intimidazione.
La paura di un attacco al Villaggio Gnutti si intuisce dall’espressione accigliata e sospettosa del tenente Spinelli che comanda il plotone.
Io dormivo profondamente, mi sono svegliato di colpo, lucidissimo, come quando Picchio aveva pochi mesi e si svegliava di notte, ma altrettanto rapidamente sono ricaduto nel sonno.
Verso l’alba sono riuscito a uscire in giardino dal retro delle cucine.
Un soldato era seduto per terra con le braccia abbandonate sulle gambe incrociate e il fucile scivolato a terra.
Con la testa appoggiata al muro si era addormentato, non mi ha visto, non mi ha sentito e io invece oltre il reticolato ho visto Picchio seduto per terra che mi dava le spalle e teneva in mano una scatola di cartone che osservava attentamente.
Neanche lui si è accorto di me, scivolavo in avanti con passi senza eco, ho tirato la rete, ha ceduto verso di me come un elastico, sono riuscito a saltare oltre mollandola di colpo all’ultimo secondo e sono rotolato vicino a Picchio.
Il bambino ha sollevato la testa e mi ha sorriso senza sorpresa, come se mi avesse lasciato un minuto prima, io invece avevo il cuore che batteva fino a otturarmi le orecchie e l’ho preso per mano, stretto, cominciando a correre ma ho subito rallentato, lui non riusciva a seguire il mio ritmo, allora l’ho sollevato in braccio con la sua scatola stretta al petto che non voleva lasciare, scuoteva freneticamente la testa e siamo arrivati così abbracciati fino a un incrocio al limitare della strada che scende lungo la valle.
Era ancora buio, l’aria molto fresca e silenziosa, ma sulle cime, alla nostra sinistra, il cielo era più chiaro.
[…] Abbiamo camminato per un’ora senza incontrare nessuno e io non mi chiedevo dove andare, che fare, il calore delle gambe di mio figlio sulla pelle mi scaldava l’anima. Improvvisamente ha agitato un braccio e senza parlare con la mano mi ha toccato il viso perché guardassi e allora li ho visti, decine di paracadute bianchi nel cielo che schiariva scendevano pianissimo, silenziosi, volteggiando come piume in tutta la valle e verso di noi.
Da ogni paracadute pendeva un pacco.
Picchio li guardava incantato, poi si è voluto sedere per terra e ha aperto la scatola, me l’ha tesa perché ci guardassi dentro e mi ha indicato di nuovo i paracadute.
La scatola era piena di bachi da seta e allora mi sono ricordato: ma certo, a Budapest in tutte le scuole, anche nella nostra, i bambini allevavano i bachi da seta per l’esercito, per far seta da paracadute… in quel momento un largo fruscio di seta bianca è sceso su Picchio e lo ha coperto, ho cominciato a tirare freneticamente la stoffa per liberarlo ma non lo trovavo, mi sentivo assordato dal rumore crescente di un aereo a bassa quota, mi sono svegliato, mi
sono accorto che nell’agitazione del sogno avevo agitato un braccio e sparpagliato per terra una pila di libri vicino al letto, ero stordito nella stanza buia, ho premuto la testa contro il materasso e ho chiuso gli occhi che mi bruciavano.
Attilio Perrone Capano (apocrifo)
Eva Framarino dei Malatesta, Una gita in blu. Attilio Perrone Capano da Budapest alla Linea Gotica. 1943 – 1945, Introduzione di Aldo Agosti e Nota di Filippo Tuena, Trauben, 2013