Un bilancio dell’offensiva manovrata condotta congiuntamente dalle formazioni partigiane dislocate su un vasto tratto dell’arco alpino torinese il 26 giugno 1944 non può che essere composto di luci e di ombre

Rivoli (TO). il Castello. Fonte: Wikipedia

[…] Il radicamento nelle fabbriche dell’opposizione al nazifascismo dovette tuttavia misurarsi con la recrudescenza della repressione, particolarmente violenta in occasione della deportazione a Mauthausen di 1488 operai genovesi avvenuta il 16 giugno 1944. Fu forse questo drammatico evento a spingere il Cln piemontese ad indire uno sciopero nelle industrie di Torino e provincia a partire dal 19 giugno, con l’obiettivo di ostacolare il trasferimento degli impianti industriali e la deportazione dei lavoratori in Germania, fattisi più intensi dopo lo sbarco in Normandia degli Alleati.
Circa 100.000 lavoratori incrociarono le braccia per una settimana, bloccando l’intero gruppo Fiat (Mirafiori, Lingotto, Ferriere, Fonderie ghisa, Acciaierie, Materiale Ferroviario e Grandi Motori) oltre a Riv, Rasetti, Cimat, Elli Zerboni, Lancia, Aeritalia, Incet, Ceat, Arsenale Militare, Dubosch, Viberti, Zenith, Bertone, Manifattura Tabacchi e molte altre aziende ancora.
Nei giorni dello sciopero, il comando delle divisioni Garibaldi in Piemonte decise di lanciare un’offensiva manovrata per allentare la pressione nazifascista sui lavoratori, minacciati da arresti e deportazioni. Nacque così, con il coinvolgimento delle formazioni Garibaldi, Autonome, Matteotti e Giustizia e libertà, il piano di attacco finalizzato a colpire i presidi nazifascisti il 26 giugno in un’area che dall’Eporediese giungeva alla val Sangone passando per le valli di Lanzo e di Susa. Promotore nell’Eporediese della partecipazione all’offensiva manovrata del 26 giugno 1944 fu il battaglione “Adriano Caralli” della 2^ brigata Garibaldi “Biella”. Insediato in primavera tra Pont Saint Martin e Ivrea, si era reso protagonista di molte azioni di guerriglia a vasto raggio e di un deciso aiuto ai contadini locali che resistevano all’ammasso del grano ed al raduno e alla requisizione del bestiame imposti dai fascisti.
Seguendo le indicazioni dei comandi garibaldini piemontesi, il “Caralli” volle dare carattere unitario all’azione del 26 giugno, discutendone dapprima con il distaccamento di partigiani delle Matteotti inquadrato nel battaglione stesso e poi con i gruppi Autonomi “Isonzo” e “Cesare Battisti” insediati nel basso vallone del Lys nei pressi di Perloz. Di comune accordo, l’obiettivo venne fissato nel Distretto militare di Ivrea.
A Ivrea erano concentrati circa 2500 tra tedeschi e fascisti. Nella notte tra il 25 e il 26 giugno, ottanta partigiani scesero in città a bordo di quattro autocarri e di una Fiat 1100. Bloccarono le strade principali disponendo pattuglie in centro e in periferia. In venti uomini penetrarono nel Distretto dopo una breve sparatoria, uccidendo un militare tedesco che aveva tentato di reagire, ferendone quattro e prendendone prigionieri 60. Con l’aiuto forzato, almeno in apparenza, dei fascisti in forza al Distretto, i partigiani raggiunsero l’armeria ed i magazzini viveri e vestiario, asportando un notevole quantitativo di materiali.
Concluso l’attacco, lanciarono manifestini di propaganda nelle vie di Ivrea e fecero infine ritorno alle basi in montagna.
La partecipazione delle formazioni dell’Alto canavese occidentale all’offensiva manovrata del 26 giugno si concretizzò nell’occupazione di Pont Canavese. Pont era un centro urbano relativamente piccolo, ma molto importante sia per la sua posizione di cerniera geografica tra la pianura e le valli sia perché ospitava una fabbrica tessile che impiegava migliaia di lavoratori. Nella notte tra il 25 e il 26 giugno, le formazioni partigiane della zona attaccarono i presidi nazifascisti a guardia del paese e, dopo ripetuti scontri, presero il controllo di quest’ultimo. Parteciparono all’offensiva i garibaldini delle brigate “Manovra”, 49^ “Domenico Viano”, 50^ “Mario Zemo” e 47^ “Carlo Monzani” e varie bande di partigiani Autonomi, di Giustizia e Libertà e Matteotti in via di organizzazione rispettivamente come brigata “Giovane Piemonte”, VI divisione “Canavesana” e raggruppamento “Giorgio Davito”.
Affidato il Comando piazza all’autonomo Mario Roscio, i partigiani disposero le proprie difese, allestendo nidi di mitragliatrici e minando tratti di strada e ponti. Grazie alla liberazione di Pont, la Resistenza assunse il controllo delle valli dell’Orco e Soana, istituendo di fatto una “zona libera” che ottenne l’appoggio della popolazione.
Nei centri più grandi furono insediate giunte popolari, ma in mancanza di queste toccò ai comandi partigiani gestire lo stato civile e amministrare i viveri, organizzando corvées in pianura per garantire i rifornimenti, opponendo un deciso contrasto all’accaparramento e alla borsanera e calmierando i prodotti caseari.
Da Pont, i partigiani presero a lanciare puntate sempre più frequenti contro le basi nemiche, impossessandosi di armi, munizioni e automezzi. Per riprendere il controllo della situazione, i nazifascisti organizzarono un primo attacco contro il paese il 10 luglio, per effetto del quale allontanarono temporaneamente i partigiani. La seconda aggressione, portata il 30 dello stesso mese, valse invece a stabilire un’occupazione che durò fino al termine della guerra.
Nelle valli di Lanzo, l’offensiva manovrata del 26 giugno 1944 fu sostenuta mediante l’attacco ai presidi nazifascisti nella cittadina capoluogo, che mobilitò circa 700 partigiani della II e della IV divisione Garibaldi inquadrati nell’11^ brigata “Torino”, nella 19^ “Eusebio Giambone”, nella 20^ “Paolo Braccini”, nella 46^ “Massimo Vassallo” e nella 18^ “Saverio Papandrea”.
L’operazione fu condotta secondo il piano di battaglia elaborato dai comandi garibaldini, che prevedeva di penetrare nella cerchia urbana dal confine con Germagnano, di organizzare una sorta di barriera protettiva tra Col San Giovanni – in val di Viù -, Fiano, Cafasse, Robassomero, Nole Canavese, Mathi e Balangero, e di coprire il ripiegamento a Traves.
Sebbene Lanzo fosse difesa da 1.500 nazifascisti che poterono avvalersi di due carri armati, alcuni pezzi d’artiglieria ed un aereo che mitragliava senza sosta, l’attacco durò undici ore e dovette desistere solo per il sopraggiungere di una colonna corazzata tedesca che era riuscita ad aggirare i posti di blocco verso la pianura canavesana.
Il bilancio degli scontri, che non valsero ad occupare Lanzo come avevano sperato i comandi garibaldini a causa dell’enorme sproporzione di uomini e armamenti tra le forze in campo, fu di tre caduti – Giovan Battista Paoluzzi “Baldo”, Giuseppe Morino “Clotu” e Giuseppe Antonio Amato “Toni” – e quindici feriti tra i partigiani contro venti morti e una quarantina di feriti tra i nazifascisti.
La battaglia si rivelò tuttavia premessa della liberazione delle valli dai nazifascisti, che consentì alla Resistenza locale di proclamare “zona libera” l’area a monte di Lanzo. Dopo oltre vent’anni di dittatura e di regime, prese così vita una straordinaria esperienza di governo partigiano con e per la popolazione civile. Una breve ed intensa stagione di libertà che sarebbe durata fino a settembre, quando con l’operazione Strassburg i nazifascisti avrebbero ripreso il controllo del territorio.
In val di Susa, dove agiva il comando della III divisione Garibaldi che per primo aveva promosso l’offensiva manovrata del 26 giugno, i presidi nazifascisti scelti come obiettivi per le azioni militari furono tre. Questa scelta fu certamente influenzata dall’importanza strategica della valle nel sistema delle comunicazioni interalpine tedesche, un fattore che rendeva impensabile organizzare una “zona libera” partigiana come stava invece accadendo altrove.
Nella media valle, la 42^ brigata Garibaldi “Valter Fontan” attaccò Bussoleno tra le due e le tre di notte. Messe sotto sorveglianza entrambe le strade statali che attraversavano il paese, così da poter impedire sia la fuga dei nemici sia l’arrivo di rinforzi per questi ultimi, i partigiani si addentrarono nell’abitato.
Forse informati in anticipo dell’attacco, i fascisti – che proprio il giorno prima erano stati rinforzati da 200 militi – riuscirono a reagire prontamente, in modo particolarmente deciso alla caserma, alla casa del fascio e tra la stazione ed il deposito ferroviario. All’alba fecero poi uscire un’autoblinda che obbligò il distaccamento partigiano schierato a Sud del paese a lasciare rapidamente la statale e ripiegare nei boschi.
Mentre a Bussoleno gli scontri proseguivano incessanti senza decidere le sorti dello scontro, i partigiani sabotarono la linea elettrica, convinsero un gruppo di 22 Ss cecoslovacche a disertare per passare nelle loro file e minarono il ponte ferroviario sul rio Armoné. L’esplosione, che provocò l’interruzione della linea Torino-Modane, segnò il culmine dell’attacco mentre l’avvicinarsi di un’autocolonna corazzata tedesca indusse il comando garibaldino ad ordinare il ripiegamento.
Lo scontro si concluse senza perdite per i partigiani, mentre il nemico dovette contare 15 morti. Il giorno successivo i nazifascisti attuarono tuttavia una feroce ritorsione ai danni della popolazione civile, incendiando tre borgate a monte di San Giorio e di Mattie e soprattutto arrestando circa trecento valligiani, in prevalenza bussolenesi, molti dei quali sarebbero stati deportati in Germania.
Nel contesto dell’offensiva manovrata del 26 giugno, l’obiettivo della Resistenza nella bassa val di Susa furono i presidi nazifascisti ad Avigliana, localizzati soprattutto nei due stabilimenti del Dinamitificio Nobel. L’attacco venne affidato al folto gruppo di partigiani – perlopiù aviglianesi e guidati da Eugenio Fassino – che da pochi giorni si era organizzato come 41^ brigata Garibaldi “Carlo Carli”.
La notte del 26 giugno i partigiani lasciarono le basi nei pressi del col Bione e scesero ad Avigliana, dove circondarono lo stabilimento Valloja con il proposito di occuparlo almeno temporaneamente e procurarsi così armi, munizioni ed esplosivi. Il presidio nazifascista posto a vigilanza dell’impianto reagì tuttavia all’attacco con un’energia e una tenacia superiori al previsto, tali da convincere il comando della 41^ a mutare obiettivo.
Alla stazione ferroviaria, dove i garibaldini si erano diretti, l’attacco non sortì esito migliore. I partigiani vennero dapprima affrontati dai fascisti di sorveglianza alla linea Torino – Modane e quindi da un centinaio di militi armati sopraggiunti dalla pianura a bordo di un treno. Negli scontri cadde il quattordicenne Guerrino Nicoli “Balilla”, mentre Fassino rimase gravemente ferito e fu arrestato.
Perduto il comandante, la “Carlo Carli” si ritirò divisa in piccoli gruppi e rientrò nelle proprie basi dopo essersi ricomposta alle pendici del monte Belvedere. Fassino fu condotto a Torino, dove venne interrogato e tradotto dapprima in carcere e quindi all’ospedale Molinette; condannato a morte, ebbe salva la vita per la seconda volta grazie ad uno scambio di prigionieri. Alla fine della guerra, la memoria di Guerrino Nicoli sarebbe stata onorata con la Medaglia d’oro al valor militare.
Terzo obiettivo della Resistenza valsusina nell’ambito dell’offensiva manovrata del 26 giugno fu il Castello di Rivoli dove alloggiava l’Inspektion Schwere Waffen, organismo delle Ss che sovrintendeva all’addestramento dei reparti della Wehrmacht dislocati nelle caserme della cittadina. L’attacco fu affidato alla 17^ brigata Garibaldi “Felice Cima”, insieme con il sabotaggio delle comunicazioni veicolari e ferroviarie da e verso la valle. La prima azione portata a termine dai partigiani nella notte fu dunque la posa di mine lungo la strada statale n° 25 a Caselette e, dopo aver guadato la Dora Riparia, lungo la n° 24. Raggiunta Rivoli, si compattarono poi nei pressi del mattatoio e presero ad avanzare disposti a raggiera verso il Castello. Alcuni colpi d’arma da fuoco esplosi accidentalmente fecero tuttavia fallire ogni possibile effetto sorpresa. L’allarme delle sentinelle tedesche allertò le Ss, che inviarono uomini nei boschi adiacenti il Castello. Furiosi combattimenti corpo a corpo permisero ai partigiani di avvicinarsi all’edificio, ma ogni ulteriore progresso venne reso per loro impossibile dal reticolo di fortilizi, camminamenti e reticolati
approntato a scopo difensivo. Alle prime luci dell’alba, il comando della “Felice Cima” constatò che i suoi uomini si trovavano ormai allo scoperto ed ordinò un estremo tentativo di assalto, nuovamente respinto però dall’intenso fuoco di sbarramento nemico. L’arrivo di alcune pattuglie di Ss italiane e di fascisti della Guardia nazionale repubblicana appoggiate da blindati costrinse infine a ordinare la ritirata alle 8 e 30 circa. Fu probabilmente il timore di venire braccati dal nemico lungo i 24 km allo scoperto che occorreva percorrere per avvicinarsi al colle del Lys a far trascurare ai partigiani il sabotaggio delle strade statali e della linea ferroviaria concordato con il comando della III divisione Garibaldi. Un errore gravissimo che, come abbiamo visto, avrebbe compromesso la riuscita degli attacchi a Bussoleno e ad Avigliana.
Dopo una trattativa tra il comandante Giulio Nicoletta e il vice comandante della III divisione Garibaldi Pierino Bosco “Maiorca”, anche i partigiani della brigata Autonoma “Val Sangone” accettarono di partecipare all’offensiva manovrata del 26 giugno. L’obiettivo fu individuato nella polveriera di Sangano, così da rifornire la brigata di esplosivi e armi, mentre l’attacco venne affidato a Sergio De Vitis, responsabile di una delle bande più agguerrite della valle.
De Vitis divise i propri uomini in tre squadre e di primo mattino riuscì senza difficoltà ad occupare la polveriera, catturando anche 17 soldati tedeschi subito trasferiti a Forno di Coazze. Il rapido arrivo da Bruino di una colonna corazzata tedesca forte di centinaia di uomini spinse i partigiani a cercare di rallentare il più possibile l’avanzata nemica, in modo da evitare che il grosso della brigata venisse aggredito di sorpresa.
I combattimenti durarono fino al tardo pomeriggio, quando De Vitis ordinò la ritirata verso Trana.
Messa in salvo la maggior parte dei suoi uomini, fece infine ripiegare la propria squadra incappando però in una pattuglia tedesca. Nello scontro, il comandante – a cui dopo la Liberazione sarebbe stata assegnata la Medaglia d’oro al valor militare alla memoria – cadde con altri sette partigiani – Giovanni Impiombato, Stefano Maria Nicoletti, Mario Bertucci, Massimo De Petris, Giuseppe Vottero, Bruno Bottino e Pantaleone Morgelli -. Altri tre uomini della squadra vennero catturati – Giancarlo Bressi ed Arrigo Craveia, che sarebbero stati fucilati, e Teresio Gallo, che avrebbe subito la deportazione – e solo due riuscirono a fuggire – Eugenio Masiero, che sarebbe comunque stato ucciso vicino ad Orbassano qualche ora dopo e Luciano Vettore -. Quando Giulio Nicoletta, che in quelle stesse ore aveva spostato parte dei suoi uomini verso Avigliana dopo essere stato informato delle difficoltà della 41^ brigata Garibaldi “Carlo Carli”, seppe dell’annientamento della squadra di De Vitis, temette seriamente di venir preso tra due fuochi dai tedeschi. Una squadra di partigiani guidata da Felice Cordero di Pamparato “Campana” fu perciò inviata a Trana, constatando per fortuna che i nemici avevano rinunciato ad avanzare ulteriormente.
Un bilancio dell’offensiva manovrata condotta congiuntamente dalle formazioni partigiane dislocate su un vasto tratto dell’arco alpino torinese il 26 giugno 1944 non può che essere composto di luci e di ombre. Va innanzi tutto considerato che si trattò di un esperimento, per giunta precoce a partire dal fatto che l’iniziativa dei comandi delle Formazioni garibaldine piemontesi non venne avvallata dal Comitato di Liberazione nazionale per la contrarietà delle componenti liberale e democristiana.
Occorre d’altronde notare che la liberazione di Roma e lo sbarco in Normandia – per effetto del quale si stava verificando un importante trasferimento di armate tedesche dall’Italia alla Francia – avevano indotto un ottimismo infondato ma anche capace di alimentare la speranza di una prossima fine della guerra nel nostro Paese.
La partecipazione delle formazioni Autonome e Matteotti presenti sul territorio interessato dall’offensiva mostra comunque come il progetto garibaldino fosse ritenuto realizzabile. Sul piano della realtà, invece, l’insufficienza dei partigiani mobilitati, la mancanza di artiglieria e soprattutto l’attitudine a condurre azioni di guerriglia più che complesse manovre belliche si rivelarono limiti spesso insuperabili.
Successo pieno si ebbe solo nell’Eporediese – dove l’obiettivo scelto era tutto sommato modesto – e nell’alto Canavese occidentale. Nelle valli di Lanzo, solo la costituzione della “zona libera” poté compensare la fallita occupazione del capoluogo. In val di Susa, l’attacco simultaneo a tre diversi obiettivi fu vanificato dal carente coordinamento operato dalla III divisione Garibaldi, che agevolò la pur pronta reazione nemica. E in val Sangone il raggiungimento dello scopo prefissato costò ben dodici caduti.
In provincia di Torino, la Resistenza non avrebbe più attuato un’offensiva manovrata fino all’insurrezione finale e tuttavia questa constatazione non basta ad esprimere un giudizio negativo sull’esperimento del 26 giugno 1944. Fu infatti proprio il generoso slancio partigiano a sostegno dei lavoratori in sciopero a saldare definitivamente la guerra in montagna con la lotta nelle fabbriche e a rendere così progettabile la Liberazione.
Redazione, L’offensiva manovrata del 26 giugno 1944, Sentieri Resistenti