The Nation, la guerra civile spagnola, il non intervento statunitense nel 1937

Una puntuale ricognizione della fitta ragnatela di interessi economici che legavano la Spagna alle principali potenze europee fu realizzata da Frank Hanighen nell’articolo, apparso sul numero del 24 aprile del settimanale The Nation, «The war for raw materials in Spain». I quesiti, cui questo giovane studioso delle «economic forces which motivate wars», tentava di dare una risposta erano essenzialmente due: «Is the Spanish war an extension of the world-wide struggle for raw materials? Are the two mineral-poor dictators making a little war in Spain to provide themselves with the sinews of a big war?».
La Spagna nell’ottica italo-tedesca, evidenziava Hanighen, costituiva una riserva di minerali fondamentali ben più sostanziosa di quelle presenti in Etiopia o nelle ex colonie tedesche. Del ferro, di cui erano carenti Germania e Italia, e senza il quale non era possibile fare le munizioni, erano molto ricche le zone circostanti Oviedo e le province basche. La più importante miniera d’Europa si trovava a Huelva, non lontano dal mercurio di Almaden, la famosa Penarroya produceva «high-grade lead»; altri minerali essenziali, quali stagno, tungsteno, zinco, argento, molibdeno, sali, fosfati, zolfo, pirite, carbone e grafite erano sparsi poi in tutta la penisola iberica.
A questo scopo Germania e Italia fin dal 1934 avevano dato vita ad un consorzio «to exploit the Spanish mineral wealth», avvalendosi della consulenza tecnica di M. George Dubnikov: «a White Russian engineer» che aveva lavorato «as a tungsten expert» per l’impresa tedesca Metallgesellschaft. L’insurrezione franchista, di cui erano state complici Germania e Italia, aveva poi sugellato, secondo Hanighen, l’accordo economico tra i rivoltosi spagnoli e queste due potenze. Ciò che era certo era che Franco, una volta messe le mani sulle miniere marocchine del Rif, aveva costituito a Siviglia la Hisma Limitado, Carranza y Bernhardt, un’impresa che aveva monopolizzato tutte le materie prime marocchine; successivamente i signori Carranza e Bernhardt, rappresentanti in precedenza di alcune imprese tedesche in Spagna, avevano aperto a Berlino una filiale rinominata Rowak. Tutti i precedenti contratti erano stati cancellati, e i nuovi che erano stati sottoscritti dovettero essere prima approvati dalla Rowak.
Secondo l’accordo «the transport of minerals should be carried out at the risk of German consignees and that the latter would put German ships at the disposal of Hisma-Rowak under the protection of German warships». I pagamenti tedeschi sarebbero state detratti invece «from the debt which Franco owed Germany (rumored to be approximately 320,000,000 pesetas)». Quanto all’Italia, essa era riuscita ad ottenere concessioni per lo sfruttamento dello stagno in Galizia e del ferro vicino a Vigo.
Cospicui erano inoltre gli interessi britannici in Spagna, le miniere Rio Tinto in provincia di Huelva producevano infatti la gran parte del rame in Europa, e «it would take a long article to do justice to the extraordinary way in which British capital, often in conjunction with Spanish, French, Belgian, and German interests, has exploited the country». Alla luce di questa situazione, osservò Hanighen,
«it is not hard to perceive at least one reason why the Baldwin government […] has stubbornly kept the non-intervention agreement going, against the sentiments of Lèon Blum and to the detriment of the Loyalist cause». <524
Il Non-Intervento americano
La scelta dell’«embargo morale» nei confronti della guerra civile spagnola da parte dell’Amministrazione Roosevelt fu vagliata per la prima volta dal settimanale nel numero del 29 agosto 1936. «Who can say that the triumph of fascism in Europe would not intimately affect the life of every American?», si domandava l’autore dell’articolo «Civil war and Intervention». I lavoratori spagnoli, veniva osservato, non stavano combattendo una battaglia esclusivamente in nome della loro libertà ma anche in nome e per conto di quella americana. La scelta dell’Amministrazione Roosevelt di diffidare le navi da trasporto statunitensi dal portare armi alla Spagna rappresentava dunque «the same error as England and France»; secondo il diritto internazionale, si notava infatti, «trade with an established government menaced by rebellion is not only permitted but expected in the interests of law and order». Non a caso questo commercio, rincarava la dose l’autore, era stato permesso nei Caraibi «to bolster the power of a Washington-chosen puppet who had not the least popular support». Lapidario il commento finale: una politica di neutralità parziale avrebbe funzionato a vantaggio dei nemici della democrazia. <525
L’indiscrezione raccolta da The Nation, secondo cui durante i primi giorni dell’ottobre ‘36 attraverso una nave americana era giunta a Siviglia una spedizione di munizioni per l’esercito franchista, indusse il settimanale ad interrogarsi sulla bontà della policy di «embargo morale» americana. Se da una parte il Dipartimento di Stato aveva posto «insuperable obstacles» alla vendita di munizioni al governo spagnolo da parte degli esportatori americani, si osservava nel «The shape of things» del 24 ottobre, dall’altra andava registrato, che «none [official ban] can be issued under existing law», e che la stessa legge di neutralità approvata pochi mesi prima era «wholly inapplicable to civil warfare».
Gli Stati Uniti pertanto, forti della distanza dall’Europa, si trovavano in una posizione migliore, rispetto a quella di qualsiasi altra democrazia europea, per aiutare «its sister republic without international complications». Un tiepido ottimismo veniva manifestato in conclusione dell’articolo: «we can scarcely believe that the Administration would continue its present policy if it saw that it was thereby allying America with Fascist Italy and Nazi Germany as an accomplice in the destruction of Spanish liberty». <526
La richiesta di esportazione di armi ai repubblicani formulata il 24 dicembre 1936 da Robert Cuse, rappresentante della società americana Vimalert Company, innescò, com’è noto, un complesso processo politico sfociato, l’8 gennaio successivo, nella risoluzione per l’embargo spagnolo firmata dal Presidente Roosevelt. Alle polemiche sortite dalla richiesta di Cuse The Nation diede risalto in un editoriale, del 9 gennaio 1937, intitolato «Pro-fascist Neutrality». Se era fuor di dubbio «that America’s commercial and financial relationship led it into the last war», e che conseguentemente andassero quindi inclusi «raw materials and other war supplies to the list of articles to be embargoed in the event of war», andava parimenti osservato che il diritto internazionale proibiva ai cittadini americani di aiutare «military clique which has risen up against the duly elected government of Spain». Negare al legittimo governo spagnolo il necessario supporto in questa circostanza, oltre a costituire «a deliberately unfriendly act», sarebbe stato nondimeno peggio che accordare ai franchisti quei «belligerent rights to which they are not entitled». Un embargo generale americano, sulla falsa riga dell’accordo di Non-Intervento, avrebbe negato infatti al governo repubblicano quelle stesse risorse di cui i franchisti già si avvalevano. In conclusione l’impressione che si ricavava in quel frangente era che il Congresso stesse rispondendo «to the passions of the moment», in un contesto però in cui, nel caso di una guerra generale, «any announcement by the United States that it will not under any circumstances furnish the belligerent countries with the sinews of war» avrebbe costituito «an open invitation to Hitler to launch his attack». <527
I primi presunti retroscena sul voto relativo alla risoluzione spagnola vennero portati alla luce da The Nation nel numero del 23 gennaio. Secondo quanto riportato nel «The shape of things» i «members of the liberal bloc in Congress» avevano partecipato ad «an informal gathering» per vagliare «the full implications of the unneutral stand against Spain»; pur essendosi resi conto nell’occasione «that they were being asked to support a bill which could only react to the advantage of world fascism», avevano tuttavia ritenuto che la risoluzione sarebbe stata quantomeno applicabile a Germania, Italia e Portogallo oltre che alla Spagna, dal momento che i suddetti paesi rifornivano costantemente Franco di materiali bellici. Le cose tuttavia non erano andate come previsto: il provvedimento infatti all’ultimo momento era stato modificato, e gli esponenti liberal, impossibilitati ad organizzare un’effettiva opposizione, data la ristrettezza dei tempi, avevano deciso di votare in maniera compatta a favore.
A questo punto, puntualizzava «The shape of things», coloro i quali avessero realmente voluto perseguire un’effettiva neutralità avrebbero dovuto quantomeno sostenere il disegno di legge Maverick per estendere l’embargo a Germania e Italia, «even though it is not likely to have any practical effect». Cionondimeno, si osservava in conclusione, era necessario fare qualcosa in più affinché gli Stati Uniti non si ritrovassero dalla stessa parte delle forze anti-democratiche. <528
Agli sforzi per raccogliere i fondi necessari per la partenza dei volontari americani alla volta della Spagna, cui The Nation fin da principio aveva contribuito, fece da controaltare, nell’inverno ’37, la pubblicazione di un «warning of the legal penalties attached to enlisting or aiding enlistment» da parte del governo. In attesa del parere definitivo dell’Attorney General, scrisse il settimanale nel «The shape of things» del 30 gennaio, non restava che sperare «that no effort will be made to apply the full rigors of a law, ignored or loosely interpreted in the past, to the present effort to help Spain». Il governo americano in passato aveva del resto permesso ai suoi cittadini di arruolarsi «in foreign wars – from China to Chile», contravvenire a questa prassi in quel momento, si notava in conclusione, era solo negli interessi del fascismo «in Spain – and in Italy and Germany». <529
La decisione dell’Amministrazione Roosevelt di rimanere neutrale nel conflitto civile spagnolo venne nuovamente criticata dal settimanale nel febbraio ’37. Il «popular appeal» della policy di neutralità, si notava in «Neutrality makes wars», derivava dalla diffusa convinzione che essa fosse «a means of preventing wars». La questione, nella sua complessità, andava tuttavia ricollegata all’azione internazionale del regime tedesco. Se esso fosse stato certo che Inghilterra e Stati Uniti fossero rimaste a margine del prossimo conflitto internazionale, «war would perhaps be upon us already». Lo scopo principale delle politica estera nazista era infatti quello di neutralizzare l’Inghilterra. Con Londra e Washington in disparte, la Francia o qualsiasi altra vittima della Germania «would be at the mercy of a sudden offensive». La neutralità invocata dagli isolazionisti americani era pertanto «Hitler’s greatest hope». Una siffatta neutralità portata alle sue logiche conclusioni significava «the end of international law and the collapse of diplomacy»: «it is wind in the sails of aggressors». Il vero obiettivo di Hitler, si osservava, era infatti «to pave his way to military victory». I pacifisti americani, di converso, si ostinavano ad invocare la neutralità: costoro non si rendevano infatti conto della particolare configurazione delle relazioni internazionali e delle relative implicazioni. «They see the formal side and think there is nothing more to it», «they think neutrality will keep us out of war».
L’esempio spagnolo, più di ogni altro, dimostrava quanto fosse «fallacious» l’intera teoria «of effective neutrality»: il risultato era infatti che la «Germany and Italy can be as active as they please and actually send in troops to capture Spanish cities».
Una posizione diplomatica di fermezza, secondo l’autore, sarebbe stata sufficiente «to expel the aggressors and achieve real neutrality»: la Germania del resto era debole da un punto di vista sociale, finanziario, economico, e, in termini diversi, anche da un punto di vista militare. Le possibilità quindi che le forze nazi-fasciste potessero prevalere derivavano in definitiva proprio dalla loro consapevolezza della «flabbiness of democratic diplomacy». «An unneutral America» dal canto suo, veniva auspicato in conclusione, «could, without moving a single man or gun, work for peace and social progress». 530
Con l’approssimarsi della primavera la discussione sulla policy spagnola iniziò ad intersecarsi con quella sulla legge di neutralità, il provvedimento scadeva infatti il 30 aprile 1937. Della questione The Nation si occupò nell’editoriale del 27 febbraio «How to stay out of war».
Sul tema della guerra nei due anni precedenti, si notava nell’articolo, si era prodotto negli Stati Uniti un importante cambiamento. Il popolo americano all’atteggiamento più o meno fatalista che aveva contraddistinto l’ingresso degli Stati Uniti nella prima guerra mondiale aveva infatti preferito «positive action to prevent a repetition of the 1917 disaster». Contestualmente i risultati della Commissione Nye avevano indubbiamente drammatizzato l’entità delle «hidden forces» che avevano determinato l’ingresso americano nella Grande Guerra. Questa circostanza tuttavia, veniva osservato, non avrebbe «trapped» di nuovo il popolo americano.
In questo quadro la grande speranza dei «peace advocates» era la revisione della tradizionale politica di neutralità, incapace, già nel 1917, di proteggere il paese.
La discussione del Congresso in quest’ultimo scorcio del febbraio ‘37, osservò l’autore, ruotava intorno a tre diverse concezioni di ciò che la neutralità avrebbe dovuto essere. La prima era quella degli «old-time isolationists», rappresentati dai senatori Borah e Johnson, e verteva su una rigorosa applicazione dei «neutral “rights”», in particolare quelli che garantivano la libertà dei mari; la seconda, quella dei «Nye isolationists», mirava a rompere tutte le relazioni commerciali americane con i paesi belligeranti, fatta eccezione per quei paesi in grado di commerciare sulla base del principio del «“cash-and-carry”»; la terza era rappresentata da quelli che Quincy Wright aveva ribattezzato i «cooperationist neutrals»: i quali erano sì desiderosi di ridurre gli affari con le potenze belligeranti ma timorosi allo stesso tempo che «too drastic measures» avrebbero potuto creare al paese difficoltà più grandi di quelle che si cercava di evitare.
Nessuna delle tre ipotesi, a giudizio dell’autore, era tuttavia soddisfacente: il miglior modo per evitare la guerra era, infatti, quello di creare «a mechanism for enforcing collective security», un traguardo irraggiungibile dalla Società delle Nazioni «as long as it is being constantly sabotaged by the United States». Al Presidente andava quindi conferita l’autorità sia «to impose a one-sided embargo on nations which violate the Kellogg pact» che quella di «to raise the general embargo from states which the majorities of signatories of the pact find to be victims of aggression».
[…] L’accorato «ringing plea for democracy» di Roosevelt, in occasione della Conferenza Inter-Americana di Buenos Aires nel dicembre 1936, fornì «convincing evidence», secondo The Nation, degli orientamenti del Presidente Roosevelt e del Segretario Hull nei riguardi del fascismo. Andava tuttavia rilevato che «the Administration’s deeds do violence to President’s convictions». La domanda, titolo dell’editoriale del 15 marzo, era dunque: «Is the State Department favoring Franco?».
Il Dipartimento di Stato, veniva annotato, aveva concesso la vendita di armi e strumentazioni militari all’Italia, permettendo quindi a Mussolini di ampliare il suo impero in Abissinia; ai medici e alle infermiere non era stato invece permesso di aiutare i democratici spagnoli, come era invece tradizione in qualsiasi altro «foreign battlefields». Il Dipartimento di Stato, «with the President’s knowledge», si era quindi piegato «to the American reactionaries who sympathize with General Franco». Il nodo di questa complessa vicenda, secondo l’autore, era «the Catholic Church»; per superare l’ostilità cattolica alla proposta presidenziale di riforma della Corte Suprema, presentata poche settimane prima, Roosevelt «yields to the church on Spain». La questione della Corte Suprema, veniva osservato, era indubbiamente importante, come lo era altrettanto, ma nel lungo periodo, la vicenda spagnola. «You cannot combat reaction at home and encourage it to gobble up all Europe», opinò l’editorialista. Sicuramente il Presidente, in conclusione, «wishes to prevent the Supreme Court from interfering with his efforts to adapt American economy to modern needs». In questo sforzo «we support him», precisò l’autore, «but it would be wise for him to eject from the State Department and our consular service the fascist-minded reactionaries who are obstructing his foreign policy». 532 (prima riferimento alla questione cattolica)
Una nuova invettiva contro la policy di non-intervento americana venne lanciata il 27 marzo da Louis Fischer con l’articolo «Keeping America out of war».
Era notizia di poche settimane prima l’arrivo negli Stati Uniti del cargo inglese Linaria, che avrebbe dovuto trasportare un carico di nitrato per le industrie di munizioni di Franco: «what Franco cannot get from Germany and Italy – scrisse Louis Fischer – he finds in the United States». La neutralità americana si fondava infatti sulle «technicalities and legalities» piuttosto che sulle «realities». «We are thus to blame, along with other democratic countries, for the almost daily bombing», denunciò Fischer. L’embargo avrebbe infatti reso gli Stati Uniti parzialmente responsabili della sconfitta del legittimo governo spagnolo e del trionfo dei ribelli. Per scongiurare questo rischio gli Stati Uniti avrebbero dovuto aiutare il governo repubblicano abbandonando la neutralità, «a policy which makes it pretty sure that there will be a war time».
L’introduzione nella legislazione di neutralità del principio del «cash-and-carry», in discussione al Congresso in quel momento, venne tuttavia contestata da Fischer: vi era infatti il rischio che il paese acquirente, nelle cui disponibilità vi erano il danaro e le navi per trasportare i materiali bellici, potesse essere «a potential enemy of the United States». Secondo il giornalista, in definitiva, i provvedimenti in discussione non potevano essere definiti di neutralità, come non poteva essere definita tale la «complete abstention from trade with belligerents»; l’atteggiamento dell’Amministrazione nei riguardi della Spagna portata alle sue logiche conclusioni aveva reso l’America «effectively pro-fascist». L’alternativa non era tuttavia la guerra; gli Stati Uniti, secondo Fischer, disponevano di altri mezzi. Il Presidente Roosevelt avrebbe potuto infatti interrompere l’invasione della Spagna con poche parole dette in privato o, se fosse stato necessario, in pubblico. «This country has a duty to mankind and to itself», concluse Fischer: «an ounce of war prevention is worth a pound of neutrality». <533
[NOTE]
523 Thomas Mann, «I stand with the Spanish people», 17 aprile 1937.
524 Frank Hanighen, «The war for raw materials», 24 aprile 1937.
525 Editoriale, «Civil war and Intervention», 29 agosto 1936.
526 Rubrica, «The shape of things», 24 ottobre 1936.
527 Editoriale, «Pro-fascist neutrality», 9 gennaio 1937.
528 Rubrica, «The shape of things», 23 gennaio 1937.
529 Rubrica, «The shape of things», 30 gennaio 1937. Il 27 febbraio 1937 The Nation rivolse ai suoi lettori un appello: «We appeal to every American man and woman who has more than enough to eat, to every parent whose children are rosy-cheeked and without fear, to help us send food to the innocent women and children and old people of republican Spain». Editoriale, «The Nation’s food ship», 27 febbraio 1937.
531 Editoriale, «How to stay out of war», 27 febbraio 1937.
532 Editoriale, «Is the State Department favoring Franco?», 15 marzo 1937. Il Vaticano, secondo un articolo apparso sul settimanale il 1 agosto 1936, sarebbe stato uno dei principali finanziatori dei fascisti spagnoli per tramite degli istituti bancari gesuiti presenti a Madrid. Editoriale, «The Spanish workers see it through», 1 Agosto 1936.
533 Louis Fischer, «Keeping America out of war», 27 marzo 1937.
Fulvio Lorefice, For God’sake! Lift the embargo to Spain, Tesi di Dottorato, Alma Mater Studiorum Università di Bologna, 2012