Sull’umanesimo di Ernesto De Martino

[…] Sebbene de Martino considerasse “la tendenza realistica nel cinema moderno come uno degli aspetti più interessanti della passione dominante della nostra epoca, cioè la passione verso un più ampio e profondo umanesimo” (1952), nell’articolo in cui annunciava le spedizioni etnologiche in Lucania, pubblicato due mesi dopo, l’etnologo scriveva: “il nuovo realismo, il nuovo umanesimo manca […] e spedizioni di questo genere costituiscono un’occasione unica [per fare una esperienza in profondità] e per colmare quella distanza tra popolo e intellettuali che Gramsci segnalava come uno dei caratteri salienti della nostra cultura nazionale”. Come ha scritto Piero Angelini, il richiamo a Gramsci costituisce un modo “per rimarcare la distanza che lo separa dal neorealismo più urlato e cronachistico”, dal momento che de Martino aveva in mente un “lavoro di scavo e non di denuncia” (Angelini 2008: 80).
Prendendo le distanze dalla cronaca, de Martino non rinunciava alla denuncia, che tuttavia doveva risultare tanto da un attento studio etnografico compiuto sul terreno quanto dall’analisi storica comparativa, che insieme potevano dimostrare le ragioni della miseria sociale e culturale. Si potrebbe tuttavia discutere su quanto egli sia riuscito nell’intento di “dare voce” ai contadini, su quanto sia realmente stato capace di immergersi nella loro vita sociale rinunciando alla verticalità del rapporto studioso-informatori. Tanto che forse oggi, potremmo dire che sul piano etnografico, non certo su quello metodologico e critico, le spedizioni di de Martino non hanno rappresentato un reale avanzamento negli studi antropologicoculturali italiani, proprio perché è mancato quel pedinamento che, oggi, gli antropologi tradurrebbero con “osservazione partecipante”, con “sguardo da vicino”. Come pure mancò quell’attenzione alla cronaca che rappresenterebbe, oggi, un interesse per le pratiche del quotidiano nelle quali l’analisi può scorgere il lavoro egemonico dell’ideologia dominante sul corpo degli attori sociali. Queste “lacune” condussero de Martino a non restituirci profonde descrizioni della realtà sociale. Come infatti ha scritto Clara Gallini, “in de Martino, nonostante le generose intenzioni, manca una elaborazione sufficientemente probante del concetto di formazione sociale […] Né dietro le opere di de Martino, né tanto meno dietro la nostra documentaristica meridionalistica noi vediamo una società in azione. È questo un grosso limite che comporta due conseguenze: innanzitutto, una certa enfasi […] sugli aspetti ‘altri’, ‘diversi’ di un rituale che comunque non ci appartiene più e che viene in qualche modo proposto come esotico. Insomma: un viaggio nel Sud come un viaggio in Africa” (Gallini 1977: 35-36).
De Martino sembra essere lontano dal neorealismo, se questo è letto dalla prospettiva fenomenologica (baziniana). Tuttavia l’interpretazione “mediologica” del Gruppo Cinegramma apre una prospettiva dalla quale il lavoro di de Martino sembra mostrare aspetti che lo riagganciano al neorealismo. L’etnologo, infatti, aveva fatto un ampio uso dei media nei suoi viaggi in Lucania e nel Salento, coinvolgendo fotografi (Arturo Zavattini, Franco Pinna, Ando Gilardi), giornalisti (Benedetto Benedetti, Marcello Venturoli), etnomusicologi (Diego Carpitella), pedagogisti (Arturo Arcomanno), tecnici RAI (Aldo Bellei, Giovanni Masseroni, Mario Felice), psicoanalisti (Emilio Servadio, Giovanni Jervis), medici (Mario Pitzurra).
La presentazione dei risultati della spedizione in Lucania si svolse presso la sede romana della casa editrice Einaudi in forma multimediale, diremmo con un termine attuale – “conferenza sceneggiata”, ricordiamo, la chiamava de Martino – presentando le registrazioni di Carpitella e le fotografie di Pinna e, forse, il film Dalla culla alla bara, sempre di Pinna, sulla cui realizzazione si hanno notizie vaghe e incerte <6. Questa possibile inclusione di de Martino nel neorealismo, con il quale condivide in primis la denuncia sociale, non si basa su aspetti presenti nello stile del testo, ma su elementi che appartengono al paratesto, cioè a quegli elementi “accessori” che ruotano intorno al testo, che lo precedono, lo accompagnano o lo seguono: l’équipe interdisciplinare, le “conferenze sceneggiate”, le illustrazioni che compongono l’Atlante figurato del pianto in Morte e pianto rituale, le fotografie di Sud e Magia – in altre parole, l’assunzione di quella prospettiva intermediologica che il Gruppo Cinegramma ha enfatizzato nel neorealismo.
È stato osservato come una definizione univoca di neorealismo non sia possibile: è una scuola, un movimento, una corrente, una poetica, ecc? Se si deve parlare di neorealismi più che di neorealismo, come ha scritto Vittorini, allora forse si può scorgere anche un neorealismo demartiniano, che non è tale solo perché è una pratica di denuncia sociale, ma anche per il suo approccio alla realtà e alla sua rappresentazione. Allora i tentativi di scrollarsi di dosso il neorealismo, da parte di de Martino possono essere considerati come tesi a ritagliarsi un proprio specifico ruolo nella cultura italiana dell’epoca, una cultura che resta comunque all’interno della cornice neorealista.
Potremmo definire, per assegnarli una sua specificità all’interno di una cultura comune, quello di de Martino, un neorealismo storicista?
La spedizione a Tricarico nel giugno 1952, alla quale parteciperà Arturo Zavattini, poteva costituire l’avvio di un’etnografia di comunità capace di cogliere le articolazioni locali della dialettica fra ceti subalterni e classe colta. Ma, come sappiamo, il processo avviato a Tricarico si interromperà bruscamente e le successive spedizioni si sintonizzeranno su una metodologia differente. Questa spedizione, come ha scritto Francesco Faeta, costituisce una soglia: il momento di passaggio da una dimensione locale e comunitaria, poi frettolosamente abbandonata, allo studio di una cultura nel “solco tracciato dalle storiografie correnti, soltanto riorientandole in senso marxiano e gramsciano” (Faeta 2007: 51).
De Martino si recò a Tricarico per svolgere una pre-inchiesta con la compagna e collaboratrice Vittoria De Palma, il giornalista Benedetto Benedetti – che conosceva Flaiano, Fellini e Rossellini – e Arturo Zavattini, conosciuto a casa del padre Cesare in via Sant’Angela Merici a Roma <7, luogo di incontri fecondi di progetti e occasionalmente frequentato anche dall’etnologo. Nonostante le prese di distanza dal neorealismo e dalle idee di Cesare, de Martino invitò Arturo Zavattini a partecipare alla spedizione in Lucania per rimanere in contatto con quel “profondo umanesimo” che il padre Cesare meglio rappresentava nella cultura italiana dell’epoca e con il quale de Martino, evidentemente, intendeva, sia pure criticamente, continuare il dialogo.
Quella del giugno 1952 non fu una vera e propria ricerca, ma una esplorazione del terreno e del metodo allo stesso tempo.
Come scrive Faeta, Tricarico aveva una centralità che poi in effetti perse per cause che non è stato possibile identificare con sicurezza, e che probabilmente riguardano il deteriorarsi di alcuni rapporti. Tricarico non rappresentava quell’ideale di luogo arcaico che de Martino avrebbe in seguito scelto, era piuttosto un luogo denso di relazioni sociali, punto di riferimento per i mietitori che provenivano dalla Puglia. Inoltre era stato terreno di ricerca dell’antropologo americano Georges Peck ed era stato visitato da Manlio Rossi Doria e Frederick Friedman, alla cui ricerca de Martino non partecipò ritenendola priva di una precisa prospettiva metodologica. Forse sentiva ingombrante la presenza stessa di Rocco Mazzarone, il medico e intellettuale che aveva avuto un ruolo nell’inchiesta Friedmann, che aveva ospitato Peck e Rossi Doria e che non era in sintonia con le idee politiche di de Martino. Insomma, Tricarico era un terreno di ricerca complesso, troppo dinamico e “contaminato”, se così si può dire, da intellettuali locali e studiosi dai metodi da de Martino ritenuti non scientifici.
Un’indagine di comunità avrebbe portato de Martino a giocare sullo stesso piano scientifico degli antropologi americani che nel corso degli anni Cinquanta fecero dei villaggi della Basilicata il loro terreno di ricerca producendo studi antropologici che, secondo l’etnologo, peccavano di naturalismo. La dimensione locale mal si adattava alla messa in pratica di un metodo storicista che riuscisse a contestualizzare la cultura subalterna all’interno di rapporti di forza agenti su più larga scala – o quanto meno ne aumentava la difficoltà. E dunque nelle spedizioni successive il focus dell’etnologo si spostò su tematiche che gli consentivano più facilmente di praticare la comparazione e uno storicismo marxista: la magia, il lamento funebre, il tarantismo. Nemmeno è da escludere che nella scelta di abbandonare Tricarico fosse determinante anche il protagonismo dell’etnologo napoletano (v. Angelini 2008), come preciseremo meglio dopo.
Durante i tre-quattro giorni di soggiorno a Tricarico, Arturo Zavattini non accompagnò sempre l’etnologo ed ebbe tempo di scegliere liberamente i suoi soggetti perlustrando il paese e i suoi dintorni. Le sue fotografie, più che descrivere un tema o una problematica, circoscrivono un luogo e delineano i temi di un terreno di ricerca locale, indirizzando implicitamente de Martino verso una indagine di comunità. Le foto di Zavattini, scrive Pietro Angelini, “non risposero alle aspettative di de Martino” e per la spedizione dell’ottobre 1952 fu scelto Franco Pinna, “probabilmente anche per cancellare dall’immagine della spedizione ogni possibile riferimento a Zavattini senior” (2008: 87).
Angelini scrive: “de Martino si serve dell’équipe per potenziare il proprio ego scientifico ed estendere le capacità dei suoi sensi” (2008: 82). Dunque, se per un verso gli studiosi che formavano i differenti gruppi di ricerca fornivano a de Martino stimoli che potevano ampliargli la visione dei fenomeni nella direzione di una loro collocazione in contesti culturali più ampi, per un altro il giornalista e il fotografo presenti nelle spedizioni garantivano una diffusione dell’azione culturale e del nome dell’etnologo sui mezzi di comunicazione di massa.
Nelle ricerche demartiniane, alla fotografia in particolare più che alla macchina da presa e al magnetofono, viene assegnato il ruolo di raccordare l’attività interpretativa, completamente affidata alla scrittura, con il terreno di ricerca. Pertanto, l’indagine di comunità avrebbe dato un ruolo di primo piano alla dimensione locale nel lavoro etnografico e dunque, quando de Martino opta decisamente per un altro metodo e altri luoghi, si mostra consapevole che, dalla sua prospettiva, quell’approccio partecipativo e troppo vicino alle vite dei contadini lucani adottato da Zavattini avrebbe imbrigliato l’interpretazione alle particolari contingenze sociali locali. D’altra parte l’etnologo considerò i risultati del lavoro di Zavattini come “relativamente soddisfacenti” (Carpitella 1952), e scelse Franco Pinna per le successive spedizioni. Pur ereditando alcuni schemi visivi adottati da Zavattini a Tricarico, Pinna, diretto da de Martino, diventò funzionale ai nuovi obiettivi di ricerca e si fece pienamente interprete del metodo demartiniano. Pinna fotografa eventi rituali circoscritti (il gioco della falce, la meloterapia di Maria di Nardò) e documenta l’etnologo al lavoro, anche se di tanto in tanto può essere libero di fotografare muovendosi libero sul campo. L’obiettivo di Pinna spesso è affascinato dai soggetti che fotografa e finisce per ipostatizzarli nella loro alterità, per fissarli in una icona, per farne simboli di un Meridione lontano ed esotico – esemplare è la foto della presunta Maddalena La Rocca, la fattucchiera di Colobraro (Imbriani: 2017) […]
6 Il progetto del film è menzionato nelle note di campo relative a Grottole (de Martino 1995: 87).
7 Comunicazione personale di Francesco Faeta.
Francesco Marano (Università della Basilicata), Neorealismo, Ernesto de Martino, Arturo Zavattini <1, Palaver 6 (2017), n.1, 147-168
1 Questo articolo riprende e rielabora i contenuti dell’intervento alla giornata di studio “Arturo Zavattini: il cinema e la fotografia sociale” organizzata il 9 maggio 2015 nell’ambito delle iniziative per la mostra “AZ – Arturo Zavattini fotografo. Viaggi e cinema 1950-1960” (Roma, Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari).

Come tanti altri scrittori e intellettuali della sua generazione, Ernesto De Martino (nato a Napoli nel 1908 e morto a Roma il 9 maggio 1965), aveva aderito da giovane alle iniziative che in campo culturale il fascismo andava proponendo o imponendo per moltiplicare sostegni alla sua azione ‘pedagogica’. Ben presto passato dalle file del GUF (Gioventù universitaria fascista) e dalla redazione de “L’Universale” alla conoscenza delle opere di Benedetto Croce, De Martino maturò con la guerra la sua definitiva vocazione e la sua svolta ideologica. Ne Il mondo magico, pubblicato da Einaudi nel 1948, c’è già tutto il De Martino che si rivelerà nel campo degli studi storico-religiosi ed etno-psicologici. Giunge poi propizia la lettura del Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi e dei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci, quando già il Nostro è diventato un intellettuale militante ed è stato chiamato in Puglia a dirigere la segreteria della federazione socialista, prima del suo passaggio decisivo in casa comunista.
È l’epoca delle lotte contadine, della Riforma agraria, dell’inizio di una straordinaria stagione di indagini (ma De Martino le chiama spedizioni) incentrate sulle plebi del Mezzogiorno. Egli arriva nel Sud più profondo armato di un’équipe formata da medici, psichiatri, psicologi, storici delle religioni, antropologi, etnomusicologi, documentaristi cinematografici e fotografici (i più assidui furono Arturo Zavattini, figlio del famoso Cesare, Franco Pinna e Ando Gilardi). È l’inizio di una ricerca multidisciplinare mirata a studiare direttamente, con interviste, colloqui e registrazioni audio e video, ciò che rappresenta l’Altro, l’Alieno: ne indaga lo spessore antropologico, ne intuisce e ne ricava una ‘lezione’ politica, finisce per definire quella realtà come l’espressione della ‘crisi della presenza’. Tipico, al riguardo, è il racconto dell’episodio del contadino calabrese di Marcellinara, che allontanatosi con un automezzo dal suo paese e non vedendone più il campanile, fu colto da sintomi d’angoscia. La perdita degli antichi spazi geografici si risolveva in crisi della propria integrità.
Negli anni ’50 partì per numerose spedizioni in Puglia, Lucania e Calabria. Famose le sue “Note di campo”, le sue annotazioni su ogni più piccola manifestazione di quella cultura arcaica incontrata tra le vie e i bassi di Pisticci, San Fele, Tricarico, Copertino, Nardò, Galatina. Fu così che, sorprendentemente, si rivelò al mondo la diversità di un universo coi suoi riti e i suoi simboli, la persistenza dell’alieno e dell’esotico sul confine di civiltà coesistenti e concorrenti. E fu, insieme, la scoperta di come il potere dello Stato e della Chiesa fosse stato capace di condizionare per secoli una massa di esclusi e di subalterni. Gramsci e Marx e prima di loro, Malinowski e Lévy-Strauss, diedero una mano a Heidegger per aprire il varco ad una comprensione più piena del rapporto che s’instaura tra ricercatore, dotato del privilegio della cultura borghese, e componente di una plebe immersa in una dimensione ancestrale.

Con i suoi grandi libri – Sud e magia, Morte e pianto rituale, La terra del rimorso – De Martino riavvicinò due Italie divise e bisognose di comprendersi, di rispettarsi, di superarsi in un nuovo orizzonte culturale, definito in modo originale come ‘etnocentrismo critico’.
“Questo è da intendersi – scrive Vittorio Lanternari – come sforzo supremo di allargamento della propria coscienza culturale di fronte ad ogni cultura ‘altra’, e come sofferto processo di presa di coscienza critica dei limiti della propria storia culturale, sociale, politica”.
Un umanesimo, in sintesi, che sfocia in un mondo liberato dai suoi preconcetti e però attento a preservare ‘un villaggio vivente nella memoria’, a non dimenticarsi del suo passato, a guardare più fiducioso ad un futuro costruttivo.
BOX
L’eredità culturale e scientifica lasciata da Ernesto De Martino (1908-1965) è di capitale importanza per gli studi etnoantropologici. Fondatore della scuola antropologica dell’Università di Cagliari (da cui provengono studiosi del calibro di Alberto M. Cirese, Clara Gallini, Pietro Clemente e Giulio Angioni), De Martino ha pubblicato opere che oggi sono dei veri e propri classici: Morte e pianto rituale nel mondo antico (Einaudi, 1958; n. ed. Bollati Boringhieri, 2000), Sud e magia (Feltrinelli, 1959; n. ed. 2002), La terra del rimorso. Contributo a una storia religiosa del Sud (Il Saggiatore, 1961, ristampata continuamente), Furore, simbolo, valore (ivi, 1962; poi Feltrinelli, Milano, 1980 e ivi 2002).
Sergio D’Amaro in Reti Dedalus