Sull’immaginario coloniale fascista

Nei romanzi esaminati le figure degli eroi maschili trovano nell’Africa esotica un terreno di rigenerazione e di ritorno agli istinti che risponde alla corrente di antimodemismo sostenuta dal fascismo. Allo stesso tempo, tuttavia, in queste rappresentazioni l’Africa costituisce per gli ufficiali, attraverso il mal d’Africa e la nevrastenia, una minaccia di degenerazione e di crisi identitaria, tema tipico di quell’esotismo decadente di cui la letteratura coloniale avrebbe dovuto liberarsi a detta del fascismo. Il rischio degenerativo è però infine sventato nelle soluzioni narrative di Tedesco Zammarano e di Mitrano Sani, perché i loro protagonisti riescono a non farsi ammaliare completamente dal fascino esotico, non si “insabbiano” e tornano definitivamente in patria malgrado i ricordi struggenti delle loro avventure coloniali. In questi uomini esemplari è infatti forte l’elemento di volontarismo, di controllo di sé, è grande la dose di razionalità che impedisce loro di arrendersi irreparabilmente al potere delle emozioni e dei sensi acuiti dall’Africa.
A questo schema narrativo sfugge tuttavia un interessante romanzo contemporaneo che vede come protagonista un insabbiato, il Gali, protagonista di “Mudundu. Cacciatori d’ombre all’Equatore” di Ernesto Quadrone, ex colonnello degli alpini. Quadrone aveva scritto il testo come sceneggiatura di un film nel 1935 in seguito ad una spedizione in Somalia. (Criticato per il soggetto scelto, incompatibile con la propaganda fascista alla vigilia delle leggi razziali, il film sarà poi rimaneggiato <205).
“Mudundu” è la storia del Gali, un avvocato italiano in cerca fortuna in Somalia, che comincia ad insabbiarsi, a vivere come gli indigeni e perfino ad intrattenere relazioni con le donne somale dopo il fallimento dei suoi progetti d’affari in colonia. Ad un certo momento della storia, quando il processo d’indigenimento è ormai completo, il protagonista si chiede: “- Che io sia arrivato a questo punto? Ma c’è tanta poesia nell’aria ed è tanto seducente e patetico il paesaggio che mi circonda. Seimila chilometri stanno tra me e la civiltà […]. L’Europa! – Il continente si perde nella rievocazione del suo cervello come dentro una bruma, ed egli, ripensandoci, nei momenti più acuti di nostalgia, vede il natio paese come attraverso ad una scaglia di quarzo. Il sottile veleno tropicale gli ha intossicato il sangue, intorpidito le membra, annebbiato il cervello. Veramente non sa darsi una ragione di questi veli che gli scendono sui pensieri che gli sorgono senza contorni, sfocati, inafferrabili […]. Adesso il suo passo è diventato incerto, quasi barcollante. Non ha ancora appreso il passo elastico degli indigeni e ha già dimenticato il suo, quello col quale camminava con i piedi ben piantati sulla terra. Una volta, all’inizio della battaglia si sentiva un ercole: ormai si paragona al tronco pieghevole di una palma che quando soffia il monsone può abbassare i suoi quindici o venti metri fino al contatto del suolo” <206.
L’insabbiamento del Gali sarà inarrestabile e l’uomo soccomberà definitivamente agli effetti del “veleno tropicale”. È quindi l’Africa che contamina l’integrità del bianco, innescando un processo irreversibile di dissoluzione dell’identità. In “Mudundu” l’esotismo, che “degenera” in insabbiamento, ricalca quello simbolista alla francese, in cui l’europeo non riesce a sottrarsi alla malìa del continente africano e lo stordimento lo porta lentamente e irreversibilmente alla perdita della sua identità.
Ad eccezione di questo romanzo, non a caso oggetto di contestazioni, in generale la colonia si prestava assai bene ad essere identificata come luogo di soluzione della crisi d’identità dell’uomo moderno, diviso tra la nostalgia per un passato rurale, tradizionale e rassicurante e l’anelito verso una modernità urbana, eccitante ma intrisa di incertezze. In Africa era possibile infatti coniugare le due esigenze: recuperare uno stile di vita genuino e, in particolare, gli istinti virili primordiali, senza rinunciare per questo alle conquiste razionali e culturali acquisite con la modernità e la civilizzazione. Questo modello dava così risposta anche alla tensione particolare che percorreva l’ideologia fascista divisa fra le correnti di strapaese e stracittà. Questa stessa contraddizione aveva fatto parte, in realtà, del processo di modernizzazione di molte società occidentali e l’idea dell’Africa che come luogo ne permetteva il superamento era stata già usata con successo in altri paesi. Per rimanere nell’ambito della letteratura un personaggio enormemente popolare come Tarzan è emblematico in questo senso.
[NOTE]
205 La storia a cui farò riferimento costituisce per la precisione la seconda parte del testo Mudundu, scritto da Quadrone come impianto narrativo per il film, Giungla Nera. La prima parte di Mudundu è invece la storia dell’ideazione e della spedizione africana per realizzare il film. Cfr. Liliana Ellena, Da Tripoli a Giarabub. Orientalismo, razzismo e propaganda nel cinema coloniale italiano, in Film d’Africa. Film italiani prima, durante e dopo l’avventura coloniale, Torino, Archivio nazionale cinematografico della Resistenza, 1999
206 Ernesto Quadrone, Mudundu. Cacciatori d’ombre all’Equatore, Milano, Omero Marangoni Editore, 1935, pp. 163 e 206-207
Giulietta Stefani, Mascolinità e colonialismo: italiani in Africa Orientale (1935-1941), Florence, European University Institute, 2005, EUI PhD theses

In prima istanza, il legame tra cinema e caccia è illustrato perfettamente nel sottotitolo di un libro scritto da un altro viaggiatore capitato nei medesimi territori per i medesimi scopi, “Mudundu: cacciatore di ombre in Equatore” di Ernesto Quadrone <469. Esso infatti propone l’equivalenza tra caccia e filmmaking (il cacciatore, in effetti, è il cineasta) e associa le due figure allo sfondo esotico dell’Africa terra di misteri, continente nero, eccetera. Anche per il cinema l’associazione non è inedita: già tra il 1911 e il 1912 essa compare nei documentari libici di Luca Comerio, e sarà ripresa ed esposta in tutta la sua violenza simbolica nella rielaborazione militante di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi “Dal Polo all’Equatore”, il film di found footage del 1987 che denuncia le brutalità del colonialismo liberale in Nord Africa attraverso l’idea che dietro l’associazione di cinema e caccia o, più in generale, dietro l’attitudine dei filmmaker italiani verso le colonie e i loro abitanti si celava, senza nemmeno troppi sforzi, una visione del mondo imperialista e razzista per la quale l’Africa non era nient’altro che un gigantesco safari in cui andare a caccia di immagini <470.
Una volta che tanto il cacciatore quanto il cineasta percepiscono la colonia come il loro personale shooting ground, i mezzi tecnologici che essi utilizzano per dare sostanza alle loro fantasie finiscono per essere del tutto analoghi. Come ha infatti sostenuto Robert Lumley, il film di Gianikian e Ricci Lucchi rende evidente “che la macchina da presa si è andata configurando come un’arma al servizio dei colonizzatori europei prima di diventare un’arma degli europei contro gli europei” <471. Altrettanto può dirsi per il film di Zammarano, che elabora a viso aperto questa intuizione in un segmento estremamente straniante in cui illustra come la macchina da presa e il fucile siano stati sincronizzati e resi un oggetto pressoché indistinguibile atto a catturare indifferentemente qualunque immagine o qualunque animale si trovi di fronte a esso. I mirini (della macchina da presa e del fucile), una volta fusi assieme e rimodulati, diventano un nuovo strumento di visualizzazione che rende impossibile per lo spettatore prevedere l’azione che sta per svolgersi, ovvero se l’animale di fronte alla camera verrà ucciso nel giro di pochi secondi o filmato e poi lasciato alla propria sorte – una posizione spettatoriale tutt’altro che assimilabile a quella indotta dai film di Comerio in cui attraverso filtri e mascherini si imitano binocoli, mirini e altri strumenti di visualizzazione.
In quest’ultimo caso la declinazione dell’idea del cinema come tecnologia di visione denuncia i sintomi di una megalomania cinematografica tipica di quella cultura a cavaliere tra diciannovesimo e ventesimo secolo per la quale attraverso quel medium il mondo intero può essere ricondotto su uno schermo a uso e consumo dello spettatore, una convinzione tradotta visivamente in una serie di soluzioni che richiamano l’idea di visibilità totale, onnipotente <472.
Nel caso di Zammarano, invece, le potenzialità tecnologiche del mezzo oltrepassano la semplice visione poiché la remota e inospitale realtà che esse consentono di esplorare appare non soltanto conoscibile e visibile, ma anche operabile – un territorio in cui il cineasta-cacciatore può esercitare pienamente un’onnipotenza che non è soltanto un attributo della visione.
Il film di Zammarano, inoltre, si distingue dal tipico film-safari, un prodotto spesso accolto con ironia e derisione dalle riviste coloniali. Un editoriale sintetizza così le ricriminazioni contro questo genere bistrattato: “Se la caccia grossa fosse come la rappresenta il cinematografo, oggi in tutta l’Africa non esisterebbe più una belva. Tutto è facile e comodo, non c’è solo, non ci sono 50 e più gradi all’ombra, non ci sono insetti, pericoli, imprevisti,  vento, sabbia, non c’è bisogno di trappole, né di lunghe attese: una specie di luna park con relativi tiri al bersaglio. Per il pubblico, quello che al cinema chiede solo un’ora di svago, queste mistificazioni possono avere anche un valore relativo: a lui poco importa sapere se quel leone proviene da un circo o se quella tale belva non è stata uccisa nel teatro di posa dal protagonista dell’avventura […] Ma poiché l’Italia in Africa procede con le armi e con il lavoro alla costruzione d’un grande Impero coloniale e poiché nel popolo è oggi in piena formazione una sana passione per la colonia, è logico che bisogna impedire con ogni mezzo il sorgere di idee false ed errate sul Continente nero, anche per quel tanto che può provenire dal cinematografo nel settore non del tutto indifferente della caccia grossa”. <473
Non è dunque per puntiglio che “Il sentiero delle belve” include una impressionante varietà di dettagli topografici, mappe animate e lunghi intertitoli zeppi di dati scientifici a fornire qualcosa di più e di meglio che una semplice soluzione per sfuggire alle trappole dell’esotismo, dei motivi estetizzanti e della possibilità di fare dell’Africa un gigantesco luna park. La conoscenza scientifica della fauna e dei territori dell’Africa orientale che il film ostenta si rivela funzionale all’obiettivo di proporsi come un frammento di quel discorso di sobrietà riguardante le colonie, che apparentemente, ma solo apparentemente, sembra in contrasto con le azioni più giocose e personali sulle quali il film pure indugia <474.
La razionalità intrinseca del progetto di Zammarano è dimostrata con particolare vigore da una lunga sequenza che occupa la parte centrale del film: una serie di frammenti quasi perfettamente identici, montati uno dopo l’altro, in cui si vedono alcuni uomini (lo stesso Zammarano e i suoi assistenti) che sparano ad animali e ripetono meccanicamente i gesti di puntare, sparare ed esibire la preda all’obiettivo della camera per quindici o venti volte. Non può stupire che un recensore, probabilmente avendo in mente questa lunga sequenza, abbia scritto de “Il sentiero delle belve”: “L’Africa del colonnello Zammarano, illustre e benemerito esploratore, è quella delle cacce. A lui interessa, del Continente Nero, soprattutto la fauna, ed è fuor di dubbio che egli ha raggiunto, nella caccia grossa, una tecnica insuperabile. Il suo fucile semina facilmente la morte, stendendo a terra i più belli esemplari di belve, che l’esploratore snida con temerarietà e costanza ammirevoli. Ma un lungo film, nel quale non si veda che questo, finisce con stancare. Né cinematograficamente ci offra qualcosa che vinca l’indifferenza per gli episodi. Film didattico, ottimo per le scuole”. <475
La noia del recensore può essere comprensibile e persino appropriata, specie se si considera che questa lunga sequenza esibisce una fascinazione meccanica talmente sviluppata che non sarebbe del tutto inappropriato fare riferimento a una “estetica taylorista”, il cui significato intimo è da rintracciare più nell’atto di ripetere fino allo stremo il medesimo gesto ancora e ancora che nel gesto stesso.
Al fine di individuare la specificità del film di Zammarano è possibile un confronto con un prodotto dai molti tratti condivisi: “Caccia grossa”, un documentario realizzato dall’Istituto Luce nel 1940 per illustrare come gli animali esposti durante la Prima Esposizione d’Oltremare di Napoli furono catturati.
“I nostri operatori hanno seguito una emozionante spedizione […] per uno scopo pratico e utile alla scienza”, romba il commentatore ad anticipare la successione di catture e la riduzione di animali a trofei. Nonostante il film non sia privo di interesse anche in relazione all’attitudine imperialista del Luce (per esempio, si osserva che “gli animali vengono introdotti alla vita civilizzata” o che “le buone maniere qui [in Africa] servono solo con le giraffe”), gli elementi più notevoli sono invece condivisi con il film di Zammarano, e non solo a livello formale: entrambi, difatti, si reggono sulla medesima catena implacabile di azioni pressoché identiche che trasforma la visione in un processo alienante ai limiti dell’ipnosi.
Tuttavia, a differenza de “Il sentiero delle belve”, il film del Luce non è una parata di morte, ma piuttosto un resoconto spersonalizzato di come la macchina al lavoro nelle colonie fosse in grado di trasformare gli animali, e più in genere la natura, in risorse infinitamente sfruttabili per rispondere alle esigenze della madrepatria <476. Il film non ha altri protagonisti che le trappole, i trucchi e gli inganni utilizzati in quello che è presentato come una divertente sfida che contrappone l’efficienza della tecnica e la furbizia degli animali: il piacere della caccia culminante con la morte dell’animale non è nemmeno preso vagamente in considerazione, se non dal titolo abbastanza fuorviante del film. Il discorso di sobrietà di “Caccia grossa”, già presente all’incirca nelle medesime modalità ne “Il sentiero delle belve”, si sposa con un discorso di produttività che nel film di Zammarano è del tutto assente, o piuttosto convertito nella testimonianza divertita di un uomo impegnato a spendere il proprio tempo libero nelle attività innocue e innocenti, almeno ai suoi occhi, della caccia e del cinema.
Se si confronta, inoltre, “Il sentiero delle belve” con l’episodio di “Cronache dell’Impero” dedicato alle foreste di Addis Abeba, il contrasto emerge con maggiore chiarezza. A mancare, in quest’ultimo, è persino l’idea di natura, del tutto soppiantata da una concezione iper-utilitaristica dello spazio come risorsa da cui gli uomini possono estrarre qualunque cosa abbisogni loro.
“L’Impero che il Duce ha dato all’Italia è anche una immensa fonte di risorse forestali. Esse non si riducono al legno, ma comprendono anche molti altri prodotti di valore economico: materie concianti e coloranti, gomma arabica, incenso, mirra, caucciù e avorio vegetale”, il commentatore spiega. Si comprende dunque perché “Il sentiero delle belve” presenti alcuni elementi riconducibili al documentario imperiale, ma non sia del tutto assimilabile a quello: la fascinazione ancora preimperiale verso l’esotismo e la natura selvaggia inficia la tenuta generale del discorso, la quale sbiadisce nel confronto con quei prodotti maturi che identificano la colonia in un insieme di risorse da possedere e sfruttare, incuranti della legittimità e della correttezza, ma forti di uno sfruttamento ridotto a processo scientifico, inumano, meccanizzato quasi in ogni fase, e non di certo posto sotto gli auspici dell’avventura.
[NOTE]
469 Ernesto Quadrone, Mudundu: Cacciatori di ombre in Equatore, Marangoni, Milano 1935. Incidentalmente, si segnala che la cine-spedizione di Quadrone, documentata a cadenza bisettimanale dall’autore medesimo su “La Stampa”, troverà la propria conclusione, dopo un percorso produttivo molto accidentato, nel film Jungla nera (o L’Esclave blanc), realizzato dallo specialista francese Jean-Paul Paulin a seguito del ritiro forzato di Carl Theodor Dreyer, autore peraltro di una sceneggiatura in parte riciclata da Paulin e Quadrone. Cfr. Ruth Ben-Ghiat, Fascist Italy’s Empire Cinema, cit., pp. 167-192. Con una riserva di fondo, ovvero “la francesizzazione” del film di Paulin (per giunta difficilmente giustificabile) e di conseguenza l’appiattimento sulla produzione coloniale d’oltralpe, cfr. Coleen Kennedy-Karpat, Rogues, Romance, and Exoticism in French Cinema of the 1930s, Farleigh Dickinson, Madison 2013, pp. 64-73.
470 Cfr. Amy J. Staples, “Safari Adventure: Forgotten Cinematic Journeys in Africa”, Film History, vol. 18, n. 4, 2006, pp. 392-411.
471 Robert Lumley, Entering the Frame: Cinema and History in the Films of Yervant Gianikian and Angela Ricci Lucchi, Peter Lang, Oxford 2011, p. 54.
472 Cfr. Tom Gunning, “The Whole World within Reach: Travel Images without Borders”, in Jeffrey Ruoff (a cura di), Virtual Voyages, cit., pp. 25-41; Antonio Costa, “Landscape and Archive: Trips around the World as Early Film Topic (1896-1914)”, in Martin Lefebvre (a cura di), Landscape and Film, cit., pp. 245-266.
473 Enrico Fiume, “Quando il cinema va a caccia di leoni”, Africa Italiana, vol. 2, no. 9, 1939, pp. XIII-XIV, p. XIV.
474 Cfr. anche Daniela Baratieri, Memories and Silences Haunted by Fascism: Italian Colonialism MCMXXX-MXMLX, Peter Lang, Bern 2010, pp. 182-185.
475 Enrico Roma, “Il sentiero delle belve”, Cinema Illustrazione, vol. 7, no. 17, 1932, p. 12.
476 Cfr. John M. MacKenzie, The Empire of Nature: Hunting, Conservation and British Imperialism, Manchester University Press, Manchester 1997.
Giuseppe Fidotta, Un Impero cinematografico. Il documentario in Africa Orientale Italiana (1935-1941), Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Udine, Anno Accademico 2014/15

Tra gli anni venti e quaranta, nello spazio definito dallo iato esistente tra immaginario coloniale fascista e vita reale degli italiani in Libia, Etiopia, Eritrea e Somalia, laddove più decise emersero le profonde contraddizioni esistenti tra progetto sociale nazionale da un lato e realtà storica concreta dall’altro, venne ad articolarsi una nuova idea di mascolinità e di bianchezza. Si trattò di un processo complicato che, pur prendendo vita da un progetto sociale ben preciso ed estremamente pervasivo, data la sua centralità in termini sia di ideologia sia di ingegneria sociale nazionale, dovette fare i conti continuamente con il vissuto quotidiano dei suoi protagonisti e con le proprie contraddizioni irrisolte. Proprio questo progetto, nel suo essere contemporaneamente posto in essere e disatteso, è al centro della ricostruzione storica di Giulietta Stefani, la quale ci offre, scavando nella vita, nei desideri e nelle fantasie degli italiani coloniali, uno sguardo che potremmo definire pornografico, ossia in grado di squarciare l’apparente compattezza della propaganda colonialista e di frugare – attraverso la letteratura coloniale così come le esperienze personali narrate nella corrispondenza dei soldati e dei volontari – alla ricerca dei sintomi e delle irrequietezze del nuovo maschio italiano.
Colonia per maschi è, in tal senso, un contributo fondamentale alla comprensione dell’identità maschile dell’Italia contemporanea, non solo per quanto riguarda la particolare accentuazione che il mito della virilità e della superiorità razziale fascista ne fornì, ma anche per le sue successive articolazioni. Il volume prende il via dal confronto tra il viceré Rodolfo Graziani e il duca d’Aosta, Amedeo di Savoia: Stefani ripercorre la loro avventura coloniale, indaga il significato associato alle loro figure e l’immaginario che attorno ad esse venne costruito. Graziani e il duca esemplificarono, infatti, le differenze esistenti tra le milizie fasciste, guidate dal primo, e l’esercito reale, comandato dal secondo, e in particolare quelle relative alla formazione ideologica dei primi – tipicamente di regime, sprezzante della compassione e del rispetto verso la popolazione civile, ed estremamente intrisa di maschilismo e razzismo – e i più antichi valori militari a cui l’esercito regolare si mostrava ancora devoto. L’obiettivo è quello di snodare il complesso intreccio culturale e ideologico che partorisce la figura contraddittoria – per quanto non di meno efficace nei termini dell’esercizio del potere maschile e bianco dell’occupante sul colonizzato – del nuovo maschio italiano. Stefani s’immerge poi nella narrativa colonialista del tempo, analizzando una serie di romanzi – dall’esempio più illustre, Ennio Flaiano autore di Tempo di uccidere (1947) a cui dedicherà l’ultima parte del libro, alla paccottiglia confezionata ad arte e imbevuta di richiami ai valori e ai truismi della propaganda coloniale fascista, alle opere censurate, infine, perché troppo indulgenti nel raccontare l’infatuazione degli italiani per il continente (il loro “mal d’Africa”). L’obiettivo è quello di cogliere l’immagine del continente colonizzato che esse ricompongono, rispondendo anche a sollecitazioni internazionali, soprattutto da parte della letteratura inglese, e trasformando l’Africa nel “luogo di un ritorno alla natura, alla ricerca delle origini e degli istinti primordiali, una sorta di via regia verso la ripresa di quella virilità” che era stata oltraggiata e svilita dall’intellettualismo liberale e dal modernismo culturale e sociale d’inizio secolo. Ma Stefani vuole gettar luce anche su un altro aspetto cruciale della vicenda coloniale italiana: lo stordimento – e la palpabile delusione – che derivò agli italiani coloniali dal contatto con il deserto abissino, con l’asprezza di quei territori e con la sensazione di essere stati abbandonati a se stessi laddove non vi erano i legami familiari a recare conforto e lo Stato fascista sembrava latitare. Leggendo tra le righe di questa socialità costretta, concentrata ma rarefatta, Stefani disarticola l’atteggiamento razzista e sessista degli italiani – che, con rare eccezioni, velate peraltro di un altrettanto spiccato razzismo paternalista, si manifestavano quotidianamente – contro la popolazione locale: razzismo e sessismo, elementi sistemici dell’ideologia fascista che avevano però una lunga storia, traspaiono dalle lettere così come dai romanzi e dalle memorie di chi fu soldato o commerciante, camionista o mercante nelle colonie del Ventennio. Le forme che essi assunsero, fisiche o simboliche che fossero, spaziano dalle offese più sottili a quelle più rozze ed orgogliose: nel loro vasto panorama, esse esistettero sia prima sia dopo il varo delle leggi razziali del 1936, 1937 e 1938, e furono accompagnate, nei casi più estremi ma non per questo isolati, da stupri, eccidi di massa e dall’utilizzo indiscriminato di gas mortali – come Angelo del Boca ci ha raccontato. Ma se il razzismo coloniale, pilastro dell’orgoglio italiano di nazione e razza, trovava una larga diffusione nelle colonie, ad esso faceva da contrappunto un altro razzismo, molto meno glorioso, e osteggiato dall’ideologia di unità razziale e nazionale rafforzata dal fascismo. Stefani punta l’attenzione in questo caso sul razzismo “degli italiani contro gli italiani” che innervava il disprezzo anti-meridionale o localista e che faceva emergere in modo inequivocabile la frattura “interna alla bianchezza italica” e l’incompiutezza del progetto di un’unica grande “stirpe” qual era quello presente nella mente dei teorici fascisti, fossero essi spiritualisti o genetisti.
In tal senso le contraddizioni interne al progetto del nuovo maschio italiano sembrano emergere anche e soprattutto nel suo luogo d’elezione, nella sua fucina e palestra: proprio nelle colonie, infatti, sia il progetto di ri/costruzione dell’unità razziale – sia quello di ri/costruzione dell’identità maschile che la accompagna in modo strutturale – si adoperano contro se stessi. L’ambiguità giuridica e culturale nel considerare le relazioni miste – come simbolo della penetrazione e del possesso dell’Africa, descritta come femmina nera dall’estrema sensualità, indomabile e al contempo alla ricerca del domatore bianco, e, successivamente, come pericolo per la purezza della stirpe – e i meticci che ne risultavano – considerati orgogliosamente come l’effetto tangibile della civilizzazione e dello sbiancamento della popolazione colonizzata, o, al contrario, come simbolo dell’avvenuta degenerazione – rivela il conflitto tra (molteplici) teorie e prassi, laddove le pratiche sessuali ed affettive individuali riarticolavano concezioni e relazioni di potere. In tal senso, la messa al bando del “madamato” e delle relazioni miste rivela come il fenomeno sia stato a un certo punto considerato “pericoloso”, sicuramente per la sua capacità di svelare l’artificiosità e la debolezza intrinseca dell’idea di unità razziale. Persino la mascolinità si frantumava laddove, come ci spiega Stefani, l’aspirazione a un recupero della virilità bianca si traduceva, in modo nient’affatto marginale, in quella “degenerazione” (omosocialità, omoerotismo, omosessualità soprattutto mista) che lo stesso Mussolini tentò di frenare in vari modi, tra cui l’invio di prostitute italiane, o più generalmente bianche, nelle colonie.
Gaia Giuliani, Recensione di Giulietta Stefani, Colonia per maschi Italiani in Africa Orientale: una storia di genere, “Studi culturali” – 1, aprile 2009, ombre corte