Sull’eccidio di Pedescala

Pedescala (VI): Monumento ai Martiri della furia nazista – Fonte: Federico Bonato, art. cit. infra

Il 2 maggio 1945, 73 anni fa, terminò il massacro passato alla storia come ‘eccidio di Pedescala’.
Fra il 30 aprile e il 2 maggio, in val d’Astico, più precisamente nei comuni di Pedescala, Settecà e Forni, si è consumata una violenta strage perpetrata dai soldati dell’esercito tedesco verso la popolazione locale. 82 i morti, in prevalenza civili (63 a Pedescala e 19 tra Forni e Settecà).
Un massacro sul quale, la storica Sonia Residori, nel volume ‘L’ultima valle’ ha fatto chiarezza, rifuggendo da interpretazioni ideologiche.
[…] A Pedescala i soldati tedeschi incendiano anche alcune stalle, con dentro animali e l’asilo infantile e anche don Carlassare rimane ucciso.
Camillo Pretto, che a quel tempo aveva otto anni, parla di “morti distesi per terra in mezzo a pozzette di sangue”. 82 in tutto i morti di Pedescala.
Fatti analoghi accadono nello stesso momento neidue comuni limitrofi di Settecà e Forni, in cui le vittime della barbarie nazifascista sono 19. A Forni i tedeschi prendono in ostaggio 62 persone. Un testimone oculare di nome Giovanni Battista Dellai raccontò: “Li vedevo passare in piccoli gruppi questi poveri uomini scortati dai tedeschi con un comando secco e autoritario, tutti li uomini li portano al locale dopolavoro dai 60 70 sono rinchiusi visti d’occhio dalla S.S. tedeschi”.
Secondo un documento della Croce Rossa internazionale, l‘1 maggio alcuni partigiani rapiscono 18 tedeschi della Wehrmacht in ritirata, li uccidono e li gettano nella ‘Caverna della Rossetta’ (una specie di foiba vicino a Tonezza).
I soldati tedeschi, il giorno seguente si danno a furti e saccheggi nelle case e rimangono tra Pedescala, Forni e Settecà fino alla mattina del 2 maggio. Entro le 9 della mattina non ce n’è più nessuno.
Il rifiuto della Medaglia e lo ‘schiaffo’ a Pertini
Come spiega Sonia Residori, nel 1983 una parte della popolazione rifiutò la medaglia d’argento al valore militare che l’allora presidente della Repubblica, Sandro Pertini, proponeva. Il rifiuto fu motivato così: “Spararono poi sparirono sui monti (riferendosi ai partigiani), dopo averci aizzato contro la rabbia dei tedeschi, ci lasciarono inermi a subire le conseguenze della loro sconsiderata azione. Per tre giorni non si mossero, guardando le case e le persone bruciare. Con quale coraggio oggi proclamano di aver difeso i nostri cari?”.
Il racconto dell’eccidio di Pedescala non ha avuto una sola versione, di versioni se ne sono sentite e lette diverse, descritte a seconda delle posizioni politiche.
Il ‘Comitato permanente vittime civili di Pedemonte’ attribuiva la colpa del massacro ai partigiani perché essi spararono sui tedeschi in ritirata.
Federico Bonato, Valdastico. Eccidio, la storica Sonia Residori: ‘Ecco come avvenne il massacro’, AltoVicentinoOnLine.it, 2 maggio 2018

[…] Gli autori delle stragi di Pedescala e Settecà sono certamente da ricercare tra quei reparti di retroguardia, che dal 26 aprile tentano inutilmente di utilizzare le vie di fuga alternative alla Valle dell’Astico ormai intasata, cioè la Val Posina e gli altopiani di Tonezza e dei Sette Comuni. La loro furia criminale si scatena soprattutto per la rabbia impotente di non riuscire a salire sull’Altopiano dei Sette Comuni. Un tentativo che si configura come una battaglia continua, a fasi alterne, tra il 26 aprile e la sera del primo maggio, tra i partigiani arroccati sui costoni del Castelletto, e i nazifascisti che, malgrado i cannoni, le mitragliatrici e i mortai posizionati a Barcarola, Pedescala e Forni e i continui attacchi di fanteria, non riescono a passare. Ma probabilmente non è solo questo a scatenare la rabbia dei nazifascisti; infatti, nel suo ultimo lavoro in corso di stampa, Sonia Residori segnala che:
– Nel tardo pomeriggio del 28 aprile, arrivano a Settecà, quattro uomini, tre in divisa SS e uno in abiti civili: sono agenti dei servizi segreti tedeschi, il BdS-SD. Una squadra di partigiani della “Garemi” li cattura, ma due di loro riescono successivamente a fuggire. Restano in mano partigiana solo l’italiano Silvio Varotto e il viennese Anton Deutsch.
– Nelle prime ore del 30 aprile il 263° Ost-Bataillon, da giorni accampato a Pedescala-Barcarola e Forni, e fino ad allora impegnato a tentare di sfondare gli accessi agli altopiani, parte per l’alta valle in direzione di Carbonare e del Trentino. Il paese di Pedescala si svuota, ma vi rimangono ancora tedeschi e “russi” isolati. Un gruppo di partigiani e civili di Pedescala, “penetrarono nelle abitazioni, aiutandosi in alcuni casi con scale, e catturarono una ventina di soldati che stavano dormendo nelle case occupate e nell’asilo del paese”. Successivamente qualcuno di quei soldati riesce a fuggire.
– Nel primo mattino del 30 aprile molti abitanti di Pedescala, civili e partigiani, anche alcune donne, bambini e forse lo stesso parroco, cominciarono a raccogliere le armi abbandonate dal nemico, probabilmente per organizzare la difesa del paese, come d’altronde era già avvenuto in altri paesi nella pedemontana in quei giorni. Ma “verso le 9.30-10.00, al ponte che dalla strada provinciale 350 porta a Pedescala, un gruppo di civili e di partigiani si scontrò con alcuni soldati tedeschi”.
Dal momento dello scontro all’aggressione vera e propria a Pedescala passò un intervallo di tempo e nel frattempo gli “uomini capaci di maneggiare le armi si impossessarono chi di pistole, chi di mitragliatrici, chi di fucili, chi di mortai. Alcuni fra i più coraggiosi si attestarono in località Roncati a un centinaio di metri in linea d’aria dalla strada provinciale Valdastico, altri sopra il paese in località Chiesetta del Redentore”. Verso le 11:00 arriva in paese una colonna tedesca, che si apre la strada anche con uno o più carri armati. Ogni resistenza è vana: un carro armato “passa per le vie del paese, incendiando le case con il lanciafiamme e gettando a destra e a sinistra bombe a mano. Contemporaneamente i nazifascisti penetrano nelle case, rincorrendo i fuggiaschi e uccidendo con i mezzi più crudeli quanti riescono ad afferrare. Costringono i vivi a gettare i cadaveri sul fuoco e subito uccidono anche quelli”.
Contemporaneamente le truppe tedesche procedono all’occupazione anche di Forni e Settecà: tutte le donne e i bambini sono cacciati dalle case e riuniti a parte, nelle scuole comunali, mentre gli uomini rastrellati vengono rinchiusi nei locali del Dopolavoro che si trova nella piccola piazza del paese. Alle 17 di quel pomeriggio gli uomini in ostaggio (62) sono divisi in due gruppi: da una parte 15 “forestieri”, ossia 7 reduci dalla Germania e 8 tecnici della Todt che si erano fermati a Forni per aspettare la fine della ritirata tedesca, 16 abitanti di Forni e 1 di Settecà, per un totale di 32 persone, dall’altra tutti gli altri (30). Quindi, fatto uscire il gruppo dei 32 ostaggi, li avviano verso Settecà passando attraverso il ponte sull’Astico. Alle prime case, sono fatti entrare in un sottoportico e quando «fummo entrati tutti, arrivò un tedesco con un grappolo di bombe a mano, che gettò in mezzo a noi. Contemporaneamente alle bombe a mano, sventagliate di mitraglia dalle porte e dalle finestre, ad altezza d’uomo». Dieci ostaggi rimangono subito uccisi, gli altri più o meno gravemente feriti. Poiché il fuoco non si è sviluppato a sufficienza con le granate, i soldati tornano a Forni a prendere la benzina per bruciare il fabbricato e i cadaveri. Per sfuggire alle fiamme divampate, gli ostaggi feriti e illesi cercano una via d’uscita. La sentinella posta sul campanile di Forni si accorge che gli ostaggi stavano fuggendo e da l’allarme: si scatena una caccia all’uomo, alcuni sono inseguiti fino al vicino paese di Forme Cerati; taluni sono subito catturati: «Ci ripresero e ci allinearono sull’argine» …; i morti in tutto furono 19, undici abitanti di Forni, tre reduci dalla Germania, quattro tecnici della Todt e il giovanissimo Giorgio Sella di Settecà. Altri 13, di cui 7 feriti, riuscirono a salvarsi.
“La lunga e dolorosa giornata di lunedì 30 aprile stava finendo e verso le 20, con il buio, ambo le parti diminuirono l’intensità degli attacchi fino a quasi cessare del tutto. A Pedescala i soldati erano diventati predoni: venne rubato di tutto, dagli oggetti preziosi al denaro, alla biancheria di casa e personale. Basta scorrere la lista, avvallata dall’Intendenza di Finanza, dei beni dei quali nel dopoguerra i superstiti e gli eredi domandarono il risarcimento, per avere un’idea della vastità dei danni arrecati alla popolazione. Ciò che non riuscirono ad asportare venne distrutto. Le poche persone rimaste in paese dovettero stare al loro servizio. Dopo aver ucciso i loro uomini, padri, mariti e fratelli, costrinsero le donne del paese a preparare da mangiare nelle case dove si erano accasermati: «quasi tutte le galline del paese servono a tale scopo: il vino, i grassi, i salami che la povera gente teneva gelosamente in riserva per il ritorno dei prigionieri, passa in loro proprietà. Intanto avviene qualche caso triste … una famiglia è visitata da un bruto … in qualche altra famiglia altri casi si ripetono …»”.
Verso le ore 6 del 1° maggio rientra in funzione l’artiglieria tedesca contro le postazioni dei partigiani dell’Altopiano e questi dalle gallerie di Castelletto rispondono. Alle 11 inizia un nuovo attacco della fanteria nazifascista, che viene definitivamente respinto alle ore 16. Un ultimo attacco, nuovamente respinto, ha inizio due ore più tardi.
“Sia a Forni che a Pedescala, il movimento degli automezzi tedeschi durò per tutta la notte tra l’1 e il 2 maggio, fino alla loro partenza, all’alba. Alla fine si sentì un gran silenzio”. “Quel mattino, poco prima della partenza, secondo la testimonianza del medico Costalunga, i soldati uccisero Giovanni Pretto Mattion che dopo esser rimasto nascosto per due giorni sotto il tombino di una vasca di liquami, era uscito dal nascondiglio scambiando il silenzio di quel mattino per il cessato pericolo. Gli diedero fuoco, ma bruciò solo parzialmente”.
[…]
Autori (sospetti in quanto presenti nell’area):
– BdS-SD – Befehlshaber der Sicherheitspolizei und des SD;
– 7. Kompanie SS-Ordnungspolizeiregimen “Schlanders”;
– 263. Ost-Bataillon;
– 1. e 4. Fallschirmjäger Division, 1.Fallschirm-Korps ;
– 13. Kompanie Grenadier-Regiment 289 della 98. Infanterie Division;
– 2. Kompanie SS-Wehrgeologen-Bataillon (mot.) 500;
– leichteFlak-Abteilung 914;
– altro reparto SS tedesche non meglio identificato.
Il BdS-SD – Befehlshaber der Sicherheitspolizei und des SD, è l’Ufficio-Comando della Polizia di Sicurezza del Reich (SIPO-Gestapo) e della Polizia di Sicurezza del Partito nazista (SD). Dopo un breve periodo in cui i due principali organi di sicurezza dello Stato sono stati in conflitto fra loro, la Geheime Staatpolizei – Gestapo (Polizia Segreta di Stato) giunge a operare in unione e sintonia con il Sicherheitsdienst des Reichsführers-SS – SD (Servizio di Sicurezza del Partito Nazionalsocialista): il SD viene impegnato principalmente a raccogliere informazioni sui “sovversivi”, mentre la Gestapo provvede agli arresti. Questo nuovo organismo d’intelligence viene chiamato BdS-SD, e il Comando in Italia è stabilito a Verona (
LAITER I/II).
“Il titolo di una recente raccolta di saggi sul Sicherheitsdienst des Reichsführers-SS (SD) elenca le tre caratteristiche fondamentali di questo organo d’intelligence che vide la luce negli anni Trenta nella Germania nazionalsocialista: “servizio di informazioni, elite politica e unità di assassini”. Il SD, il “servizio di sicurezza del capo supremo delle SS”, Heinrich Himmler, non fu infatti soltanto un servizio di informazione e spionaggio politico di nuovo tipo ma, al contempo, la più importante organizzazione di quadri della giovane elite della Germania nazionalsocialista. Accanto a questo, alcune delle più recenti indagini storiografiche sulle organizzazioni del nazionalsocialismo hanno dimostrato come i suoi oltre 6500 membri siano stati responsabili come nessun altro gruppo della società tedesca dei crimini compiuti in quegli anni e soprattutto dell’organizzazione e messa in atto della “soluzione finale del problema ebraico” nell’Europa occupata. […] Deve essere infatti ben chiaro che non ci troviamo di fronte al personale di un qualsiasi servizio di informazioni, ma invece al “nocciolo duro” dei perpetratori dei crimini di massa del nazionalsocialismo. Le attività svolte da Sicherheitspolizei e SD in Italia furono molteplici. Vi troviamo, infatti, le stragi di prigionieri e le deportazioni nei campi nazisti dei nemici “razziali” e degli oppositori politici, accanto ai contatti con le forze moderate della Resistenza e gli Alleati e le trattative e le sottigliezze del lavoro di intelligence. Questi sono aspetti solo apparentemente contrastanti del modo di concepire la lotta contro l’avversario ideologico delle organizzazioni nazionalsocialiste. L’idea dietro ai sondaggi e alle “aperture” verso le forze della coalizione antinazista che ebbero un intenso quanto inefficace sviluppo dinamico nel periodo finale del conflitto, era quella che per sopravvivere fosse necessario ed anche possibile giungere ad un accordo con gli avversari occidentali e con gli oppositori moderati e nazionalisti, a differenza, ovviamente, del mondo comunista. Queste attività erano parte di un irrealizzabile progetto ideato dalla SS, nutrito dall’illusione di poter sfaldare la coalizione antitedesca con una offerta di pace separata agli alleati occidentali. In questa ottica SS e SD si sarebbero presentati come l’unica forza politica e militare in grado di condurre la Germania in una nuova alleanza antisovietica occidentale e superare la pesante eredità di Hitler. In questa prospettiva, vanno visti gli sforzi intrapresi in Italia da un consistente gruppo di esponenti di SS, SD e Sicherheitspolizei, tra i quali Zimmer, Rauff, Dollmann, Harster e Wolff. Nel loro progetto l’Italia sarebbe stata il campo di prova di un nuovo ruolo delle organizzazioni di elite del nazionalsocialismo, un terreno nel quale dimostrare agli Alleati, “in piccolo”, come ha scritto Zimmer, la propria professionalità e l’efficacia dell’azione anti-comunista. […]” (C. Gentile, Intelligence e repressione politica, cit..).
Anche nel Vicentino il BdS-SD è impegnato a dimostrare “professionalità”, e non solo in chiave anti-comunista: dare prova di saper reprimere oggi tutta la Resistenza civile e armata, così come domani una qualsiasi altra organizzazione, qualunque altra classe dirigente, dividendola ed eliminando i suoi uomini migliori. Nell’aprile del ‘45, Mario Carità e Alfredo Perillo hanno ormai catturato, “interrogato”, eliminato gran parte dei dirigenti della Resistenza in pianura, hanno rastrellato molti componenti e inserito spie in tutte le formazioni partigiane della montagna, e sono pronti ad attaccarle; gli ultimi “pezzi grossi” della Resistenza vicentina, non ancora passati per le mani del BdS-SD, se escludiamo i comandanti dei reparti di montagna, sono innanzitutto Giacomo Chilesotti e Giovanni Carli.
SS-Ordnungspolizeiregimen. Sono i 4 storici reggimenti di polizia formati dai tedeschi con personale altoatesino: “Bozen”, “Alpenvorland”, “Schlanders” e “Brixen”. Sono strutturati in 3 btg. ciascuno e ogni btg. in 4 compagnie numerate in ordine progressivo dall’1 al 12. Il Reggimento di Polizia “Bolzano” (SS-Polizeiregiment “Bozen”) è formato nell’ottobre del ‘43, dopo l’annessione delle province di Trento, Bolzano e Belluno nell’Alpenvorland e posto agli ordini del colonnello Alois Menschick. Il Regg. “Bozen” è inizialmente composto da 4 Btg., successivamente scesi a 3: il 1°Btg è impegnato in servizi di sicurezza e lotta contro i partigiani in Istria; il 2° Btg. partecipa a molte azioni contro la Resistenza Italiana (Grappa, Piana di Valdagno) e ad almeno due rappresaglie di massa (46 uccisi in Val del Bois in Cadore; 14 prigionieri impiccati a Belluno); il 3° Btg. è a Roma e una sua compagnia, la 2^, è coinvolta nell’attentato di via Rasella del 23/3/44. Non si tratta di innocui territoriali, non portano l’uniforme grigia delle SS combattenti, ma quella verde ramarro degli addetti ai rastrellamenti, non sono dei “vecchietti”, i morti di via Rasella vanno dai 27 ai 43 anni. Dei 4 reggimenti creati dai tedeschi con coscritti di origine altoatesina, il Bozen è quello con la più alta percentuale di optanti per la Germania, caratterizzati generalmente da una spiccata adesione nei confronti del Reich. Il reparto è impiegato nella lotta antipartigiana soprattutto nel confinante Veneto e nella zona costiera del litorale adriatico (Adriatisches Küstenland). Nel febbraio ’44 l’unità è trasferita a Belluno partecipando ad alcune delle operazioni di rastrellamento attuate dai Comandi tedeschi. Tra il 20 e il 21 agosto ’44, il reparto opera nella Valle del Biois (Belluno), territorio che è sottoposto a saccheggi, incendi e uccisioni di civili. Il ciclo operativo del 2° Btg prosegue nelle settimane successive: l’unità partecipa al rastrellamento del Cansiglio (8-9 settembre) e a quello del Grappa (21-27 settembre). Al rastrellamento del Grappa con il 2° Btg del Reggimento “Bozen”, proveniente da Belluno, concorsero anche alcune compagnie del Reggimento “Alpenvorland”, provenienti da Belluno e Feltre. Il Reggimento di Polizia SS “Prealpi” (SS-Polizeiregiment “Alpenvorland”) è costituito nel maggio ’44, il reparto entra in azione soprattutto nell’area veneta dell’“Alpenvorland” (Belluno). Rispetto al Regg. “Bozen”, questo si componeva di optanti per l’Italia. Il reggimento di polizia sudtirolese “Schlanders”, SS Polizei Regiment Schlanders, è impiegato nel Vicentino, assieme a reparti del Corpo di sicurezza trentino (CST, Trientiner Sicherungsverband), nella sorveglianza dei cantieri delle fortificazioni realizzate dalla Todt e nelle operazioni di repressione antipartigiana. Il Regg. “Schlanders” nasce direttamente come SS – Polizeiregiment nel corso dell’estate 1944, ed è suddiviso in tre battaglioni, il primo e il terzo erano di stanza nella zona del Monte Pasubio e a Feltre, il secondo e il comando di reggimento a Roncegno (TN). Il secondo battaglione era agli ordini del Major Schupo Schwiebus, responsabile anche del Sicherungsabschnitte IV (Roncegno). Ogni battaglione era composto da 4 compagnie, numerato in modo continuativo. A Posina e a Valli del Pasubio erano di stanza le compagnie del primo battaglione, dalla prima alla quarta. Il secondo comprendeva le compagnie dalla quinta all’ottava: la sesta compagnia era dislocata a Lusiana (Fdp.17938 C ), la quinta a Cismon del Grappa (17938 B). La settima compagnia (17938 D) era presente a Canove nella casa dell’ex Fascio e nella colonia dell’O.B. di Vicenza insieme al personale O.T. e a non meglio specificati Pionieri. Tra i morti a Pedescala, linciati dalla popolazione dopo la strage, troviamo anche i sergenti maggiori Leo Becker e Karl König, della 7a Kp. SS PolizeiRegiment Schlanders.
Ost-Bataillon 263. Si tratta di un reparto costituito da quattro compagnie specializzate nella repressione antipartigiana, e composto da volontari provenienti dall’Europa orientale, in prevalenza georgiani, ucraini e da Wolgadeutschen (abitanti della regione del Volga di origine tedesca), facenti parte dell’Armata Cosacca e arruolati dalla Wehrmacht e guidati da ufficiali e sottufficiali tedeschi. L’Ost-Bataillon 263 è trasferito nel Vicentino dal Cuneese nel maggio ‘44, proprio per fronteggiare la minaccia partigiana, su ordine del generale Toussaint, plenipotenziario della Wehrmacht in Italia. Inizialmente, dunque, il reparto è sotto la direzione della Leitkommandantur di Verona e quindi della dipendente Platzkommandantur di Vicenza.
Il Comando e il grosso del Btg ha sede a Marano Vicentino ed è diretto del “Boia di Marano”, il capitano della Wehrmacht, Fritz Buschmeyer. Altri reparti minori sono distaccati a Santorso, Schio, Torrebelvicino. Successive disposizioni portano reparti del Btg a S. Antonio del Pasubio, dall’autunno anche a Cogollo, Arsiero, Treschè Conca e altre località dell’Altopiano di Asiago. A Marano Vicentino è operativo da subito un Commando caccia (Jagdkommando) con 30 uomini e 3 ufficiali, comandato dal s. tenente Schrick; è dotato di 2 autocarri, armati di due mitragliatrici e un mortaio. La prima importante operazione che vede impegnato l’ Ost-Bataillon 263 è un rastrellamento in Altopiano il 4-5/6/44, in collaborazione con una compagnia del 3° Btg., 12° Regg. SS di Polizia e forze fasciste. Il 16-18/6/44 è impegnato in Val Leogra con l’Operazione “263”, culminata con l’attacco a Contrà Vallortigara. Quando in base al compromesso Kesselring-Wolff , avviene la riorganizzazione della repressione, il territorio vicentino viene diviso in “Settori di sicurezza”, affidati a “Comandanti di sicurezza”, unici responsabili locali della contro-guerriglia, il 2/7/44, mediante ordine diretto di Wolff, Buschmeyer viene nominato “Comandante di sicurezza” del Settore Vicenza-Nord. L’area in questione comprende i centri di Recoaro, Valdagno, Arzignano, Schio, Piovene Rocchette, Arsiero, Marano Vicentino, Thiene, Marostica, Bassano del Grappa, Asiago, ed è divisa in due sottosettori: quello “Ovest”, con propria sede a Valdagno, Quello “Est” a Bassano. Unico compito di Buschmeyer è la lotta alle bande, e per assolverlo sono a sua disposizione assoluta tutte le unità che si trovano nel Settore, cioè reparti della Wehrmacht, della Luftwaffe, delle SS di Polizia, dell’Organizzazione Todt e le formazioni repubblichine. Negli ultimi giorni della guerra, tutto l’Ost-Bataillon 263 si riunisce per la ritirata a Pedescala, da dove parte in direzione di Trento la notte del 29-30 aprile ‘45. E’ pur vero che soldati “russi” partecipano con i tedeschi ai ripetuti attacchi al Castelletto che terminano la sera del 1° maggio.
SS tedesche. Questa nota per il vescovo di don Luigi Agostini, parroco di Cogollo del Cengio, malgrado la sua importanza non è mai stata presa in seria considerazione nelle polemiche sull’eccidio di Pedescala: “Sabato notte 28 aprile 1945 venne a riparare a Cogollo un nucleo di tedeschi SS (dei più feroci) con cannoni e autoblinde: circa 300. Il generale e il suo stato maggiore si accasò in canonica. Il parroco, non potendo far altro, fece buon viso agli intrusi, per cui tutto andò bene ed alla sera della domenica seguente partirono, […] Sembra che questi SS abbiano provocato il disastro di Pedescala”.
Nomi (sospetti in quanto presenti nell’area, sulla base di testimonianze e documentazione):
– Adelmo Caneva, agente del BdS-SD/“Banda Carità“.
– Carlo Bruno Tripoli Caneva, agente del BdS-SD/“Banda Carità“.
– Antonio “Tonin” Caneva, agente del BdS-SD/“Banda Carità“.
– Victor Piazza, agente del BdS-SD di Roncegno-Rovereto.
– Silvio Varotto e Anton Duethe, agenti del BdS-SD di Padova; catturati dai partigiani a Forni di Val d’Astico sono giustiziati il 3 maggio, a Rotzo.
– Friedrich Wachsmuth (o Wosmuth), nato a Brünn in Moravia (oggi Brnon, Repubblica Ceca) il 16.6.1897; SS-Hauptsturmführer (capitano), comandante la 2^ Compagnia del SS-Wehrgeologen-Bataillon (mot.) 500.
– i sergenti maggiori Leo Becker e Karl König, della 7a Kp. SS PolizeiRegiment Schlanders, morti a Pedescala, linciati dalla popolazione.
Note sui responsabili:
I fratelli Caneva e Victor Piazza agenti del BdS-SD
Nella “notte tra il 28 e il 29 aprile arrivarono in paese, a Pedescala, i fratelli Caneva. […] Giovanna Dal Pozzo con il marito Giovanni Pretto gestiva l’osteria al Monumento in via Albania al n.1, al di là della chiesa. Durante gli interrogatori degli inquirenti americani, nel giugno del 1945, sostenne che Antonio Caneva, il più giovane dei fratelli, […] era entrato nel suo esercizio nella notte del 28 aprile per mangiare […]. Il Caneva si presentò pure al parroco del paese «per ottenere delle informazioni sui nomi dei garibaldini di Pedescala, sui quali era stato informato». Uno dei fratelli Caneva, ma non viene specificato quale, aveva «messo su un ufficio e mangiava» a casa di Antonio Busato a Forni, dove, affermò un teste, passò la notte tra il 28 e il 29 aprile. Antonio Caneva tornò all’osteria al Monumento il mattino dopo, a chiedere un po’ di latte. […] Anche Carlo Moro, stradino di Pedescala e partigiano, quel mattino vide un Caneva, non sapeva precisare quale, ma dall’uniforme indossata, il grado e la posizione in cui lo vide (vicino all’osteria del Monumento) molto probabilmente si trattava ancora di Antonio […] Victor Piazza e Antonio Caneva erano certamente presenti in Valdastico per tutta la giornata del 29 aprile. Probabilmente si trovava in paese anche Adelmo dal momento che era molto protettivo nei confronti del fratello minore, ma l’unico Caneva sicuramente riconosciuto dai testimoni era Antonio. Fin dai primi interrogatori del 1945, e per decenni, i sopravvissuti al massacro di Pedescala hanno indicato la presenza certa di Bruno o di Adelmo Caneva, facendo una gran confusione tra i due. Nelle deposizioni rese agli inquirenti americani, diverse persone affermarono che uno o due fratelli Caneva erano presenti durante il massacro, ma nessuno li aveva incontrati e nessuno sapeva dire chi li avesse realmente visti, se non un generico «gente del paese». E l’unico che all’epoca affermava di averlo visto, faceva confusione. Nicola Pretto Coronetta, impresario della Todt, conosceva Adelmo Caneva perché insieme con il cap. Casadei lo aveva arrestato il 5 gennaio 1945 e al procuratore Borrelli il 28 luglio 1945, nel verbale di istruzione sommaria, dichiarò: «Conosco Caneva Adelmo quello del braccio anchilosato e posso accertare che al lunedì 30 aprile egli era a Pedescala nel momento della strage». In udienza della Corte d’Assise però rettificò: «Il 29 aprile 1945 ho visto il Piazza a Forni assieme a Bruno Caneva. Faceva la spola fra i comandi di Forni e Pedescala», ma ormai, a gennaio del 1947, era già avvenuta l’identificazione tra “il Caneva con braccio anchilosato” e Bruno Caneva e Nicola Pretto pensò bene di rettificare la sua testimonianza a favore della tesi prevalente in paese, ma retrodatando la presenza. […] Bruno Caneva secondo i documenti, che per la verità lasciano un margine di incertezza, rimase ricoverato in strutture ospedaliere, e dall’ospedale di Caldogno proprio alla fine di aprile venne trasferito in quello di Merano, e poi in Germania. Abbiamo visto in precedenza che i testi a suo favore nel dopoguerra ne parlarono invece come di un militare nel pieno delle sue funzioni ed attivo tra Asiago e Vicenza. Le testimonianze dei sopravvissuti di Pedescala lo ritrassero con un particolare piuttosto preciso: «Uno dei fratelli ha un braccio rigido come risultato di una ferita» (Carlo Moro). «No, non era quello con il braccio rigido» (Giovanna Dal Pozzo). Come facevano a conoscere il particolare del braccio rigido senza averlo visto fuori dell’ospedale?”
“Molti testimoni sostennero che tra i massacratori ci fosse anche un Caneva, senza essere in grado di specificare quale dei fratelli, che indicava ai tedeschi le case da bruciare.”
(da Niente altro che polvere di S. Residori).
Caneva Adelmo di Antonio e Silvagni Antonia, cl. 19, nato e residente ad Asiago; cugino del federale Giovanni Caneva di Pietro; arruolato volontario come allievo sottufficiale nella Scuola Centrale militare di alpinismo e nel giugno del ‘40, con il grado di sergente, ha partecipato con il Btg. Bassano, 11° Regg. Alpini, alla campagna di Francia. L’anno seguente è sul fronte greco-albanese, dove venne fatto prigioniero. Liberato dopo 4 mesi torna al Corpo, previo giudizio favorevole sui fatti che avevano portato alla sua cattura, e nel ‘42 venne rimandato in zona di guerra, in Montenegro. Dopo pochi giorni per seri motivi di salute viene ricoverato più volte all’ospedale finché una commissione lo ritenne «meno atto alle fatiche di guerra, ma idoneo al servizio presso il corpo» a Bassano del Grappa. Dopo l’8 Settembre ’43 aderisce alla RSI e milita presso il Presidio di Asiago del Centro Reclutamento Alpini (CRA) di Bassano, poi mutato in “reparto germanico di protezione impianti” con il grado di sergente (Wachtmeister), poi promosso sergente maggiore (Oberwachtmeister). Braccio destro del fratello Carlo Bruno, lo sostituisce al comando quando viene ferito il Val d’Assa l’8 agosto ‘44. Già alle dipendenze dirette dei tedeschi, dopo il rastrellamento di Granezza i fratelli Adelmo e Antonio “Tonin” Caneva sono costretti ad abbandonare l’Altopiano e a rifugiarsi a Vicenza, poi a Longa di Schiavon alle dipendenze dell’UdS-SD/ “Banda Carità”. Arrestato dopo la Liberazione, è trattenuto alla Caserma Sasso e incriminato dal AMG (Governo Militare Alleato); liberato, viene nuovamente arrestato a Ferrara il 15.1.46; processato, è condannato per omicidio e collaborazionismo, poi amnistiato. Coinvolto anche nell’ uccisione di “Freccia” e nell’Eccidio di Pedescala, emigra clandestinamente in Argentina con il fratello Carlo Bruno e Antonio “Tonin”.
Caneva Antonini Antonio “Tonin” di Antonio e Antonia Silvagni, cl. 24, nato e residente ad Asiago, adottato dallo zio Antonini Vittorio; cugino del federale Giovanni Caneva di Pietro. A metà maggio del ’43 è arruolato nel 5° Regg. Artiglieria Alpina, Gruppo “Lanzo”; dopo l’8 settembre ’43 aderisce alla RSI e milita presso il Presidio di Asiago del Centro Reclutamento Alpini (CRA) di Bassano, poi mutato in “reparto germanico di protezione impianti” e dove consegue la promozione a SS-scharführer (sergente); ha preso parte a parecchi rastrellamenti. Dopo Granezza si trasferisce con il fratello Adelmo a Vicenza, alle dipendenze dell’UdS-SD/”Banda Carità. E’ arrestato il 21.6.45, ma amnistiato. Coinvolto anche nell’Eccidio di Pedescala, emigra clandestinamente in Argentina con il fratello Carlo Bruno e Adelmo.
Caneva Carlo Bruno Tripoli di Antonio e Silvagni Antonia, cl. 12; cugino del federale Giovanni Caneva di Pietro; già campione italiano di salto dal trampolino; già sergente nella 60^ Compagnia del 9° Regg. Alpini, Btg. “Vicenza”, Div. “Julia”, in Grecia: per ragioni di salute, dopo poco più di due mesi era stato ricoverato «in un ospedale di I^ linea nei pressi di Tepeleni (Albania) proveniente dalla zona di Trebiscine», poi nell’ospedale da campo n.118 in Dragowitza e ancora successivamente all’ospedale militare prima di Foggia e poi di Vicenza e Padova. Per «malattia contratta sul fronte greco» gli fu riconosciuta una pensione di invalidità del 7° grado che gli venne pagata fino all’agosto del 1943; l’8 settembre 1943 trova Bruno Caneva invalido ed esente da ogni obbligo militare nella sua Asiago.
Aderisce alla RSI e con il grado di sergente maggiore comanda il Presidio di Asiago del Centro Reclutamento Alpini (CRA) di Bassano, successivamente, con tutto il suo reparto passa con i tedeschi e il BdS-SD (Befehlshaber der Sicherheitspolizei und des SD – Ufficio-Comando della Polizia di Sicurezza del Reich e del Partito nazionalsocialista) con il grado di sergente maggiore (Oberwachtmeister), poi promosso sino al grado di maresciallo maggiore (Hauptwachtmeister).
L’8 agosto ‘44 è ferito in uno scontro con i partigiani in Val d’Assa e cede, almeno ufficialmente, il comando del “reparto germanico di Asiago” al fratello Adelmo.
A dimostrazione che Carlo Bruno Caneva è un sottufficiale dell’esercito tedesco, risulta trasferito dall’ospedale elioterapico di Mezzaselva all’ospedale militare della Luftwaffe di Caldogno, successivamente trasportato in quello di Merano e negli ultimi giorni di guerra, assieme ai feriti tedeschi, trasportato in Germania, prima all’ospedale militare di Munsterzwarach poi in quello di Miltenberg. Inoltre ancora nel 2000, Bruno Caneva percepiva un sussidio “nell’ambito dell’assistenza alle vittime della guerra […] dall’ufficio assistenza della Freie Hansestadt Bremen” della Germania Federale con il grado di Hauptwachtmeister della Wach Kompanie 1009 (maresciallo maggiore della Gendarmeria del Comando territoriale militare 1009 di Verona). Ma, se dei fratelli Adelmo e Antonio troviamo tracce e riferimenti della loro attività nelle BdS-SD, su Bruno più niente dopo il suo ricovero all’ospedale di Caldogno nell’agosto ‘44.
Si tratta di un ricovero a lungo termine assai strano: “Da un lato ci sono fotocopie di documenti che attestano la gravità della ferita, i ricoveri e le degenze, fotocopie però con la scrittura del nome non limpida, che lascia intravedere i segni di un probabile nome diverso scritto in precedenza. L’attestazione del ricovero è suffragata dalla testimonianza resa dall’infermiera Irma Schwarze, non molto chiara per la verità sulle circostanze nelle quali aveva conosciuto Caneva, che comunque nella deposizione resa alla Pretura di Capri il 14 dicembre 1946, ammise che «tale dichiarazione mi fu richiesta da un fratello di Bruno Caneva il quale mi scriveva che il fratello Bruno era stato accusato di un grave fatto politico e che il processo era già stato fatto e che avendo famiglia sporto appello occorreva una dichiarazione per dimostrare la sua innocenza». Dall’altra parte, in ogni caso ci sono i testimoni che si presentarono a difesa durante il processo in Corte d’Assise e che giurarono davanti alla giustizia italiana che Bruno Caneva li aveva salvati o aveva salvato i loro figli, intercedendo presso i tedeschi, localizzandolo in luoghi diversi dall’ospedale di Caldogno”. (da S. Residori, Niente altro che polvere, cit., pag. 136)
Tutte testimonianze che presentano un Caneva non certo gravemente ferito e ricoverato, ma attivo tra Asiago e Vicenza in contrasto con le attestazioni dei ricoveri ospedalieri.
Dopo la Liberazione,la sentenza emessa dalla CAS di Vicenza il 22.5.47, condanna a 30 anni di reclusione Carlo Bruno Caneva e Battista Marcialis (omicidio del partigiano Rodino Fontana e collaborazionismo). In clandestinità, il Caneva si dedica ad attività cospirativa neo-fascista, per poi fuggire clandestinamente in Argentina. Il 3.4.54 il Tribunale di Vicenza, Sez.II, dichiara, anche se contumace, ridotta la pena a 2 anni, che ovviamente non sconta. Coinvolto anche nell’ uccisione di “Freccia” e nell’Eccidio di Pedescala, emigra clandestinamente in Argentina con il fratello Adelmo e Antonio “Tonin”.
Piazza Victor di Ottavio, cl. 25, nato a Schio, residente a S. Antonio di Valli del Pasubio; figlio del console della Milizia Ottavio Piazza. Dopo l’8 settembre ‘43 chiede di entrare nelle prime formazioni partigiane, pur essendo di famiglia fascista. Riesce a farsi accettare nella pattuglia garibaldina che gravitava sul territorio di Valli del Pasubio, guidata da Domenico Chiumenti “Lince”, dopo aver superato alcune prove che dovevano dimostrare la sua buona fede, come la partecipazione ad agguati con assalto a macchine tedesche. Ma il 22 settembre ‘44, dopo circa tre mesi di vita apparentemente da partigiano, in uno scontro con i tedeschi in Val Terragnolo, viene catturato in circostanze poco chiare. Il dubbio nasceva dal fatto che avrebbe potuto sfuggire alla cattura e non lo fece, anzi sembra proprio che si sia consegnato alla pattuglia tedesca. Ma questa è la lettura che ne dettero a posteriori, nel dopoguerra, i suoi compagni vittime della sua delazione. La messinscena, che doveva essere stata abilmente orchestrata da tempo, continua qualche giorno dopo con la pubblicazione su un giornale della notizia che il «bandito di Terragnolo», come lo hanno soprannominato, è stato impiccato. La notizia della sua impiccagione viene ritenuta da tutti veritiera tanto che don Guarato, parroco di Valli del Pasubio, scrive nei suoi appunti: “20 sett. 1944. Victor Piazza partigiano catturato a Terragnolo portato nelle carceri di Rovereto. 12 ottobre giunge notizia (falsa) che fu impiccato”. Victor Piazza per continuare nella finzione della sua parte fu portato nel carcere di Rovereto, ma in realtà non come detenuto: dalle numerose deposizioni, rese al processo celebrato presso la Cas di Vicenza, emerge che dal 22 settembre al 18 novembre 1944, data della sua riapparizione in pubblico alla guida del reparto di SD alla caccia dei suoi compagni partigiani, egli segue “una specie di corso di addestramento allo spionaggio e alla cattura degli elementi appartenenti alle formazioni partigiane”. Piazza milita nella SD di stanza a Roncegno, con Nazario Sordo, Severino Toller che fungeva da autista, e con, fra gli altri, il gruppo di toscani che fanno parte della banda Carità.
Sempre vestendo la “divisa di S.S. Criminal Polizei” condusse i suoi camerati “nei vari rastrellamenti nella zona del Pasubio e dell’Astico, e portò preziosi contributi alle S.S., indicando i partigiani che aveva conosciuto nel precedente vagabondaggio alla macchia”, ma soprattutto all’arresto dei suoi amici di infanzia che militavano nella Resistenza. Le conseguenze furono drammatiche. La famiglia Piazza abitava a S. Antonio di fianco alla famiglia Pianegonda e Victor era stato amico d’infanzia e compagno di scuola di Walter Pianegonda, il garibaldino “Rado”. Piazza era cresciuto insieme anche alle sorelle di Walter, Adriana, Wally e la piccola Noemi. Nonostante ciò non si fece scrupolo di denunciare tutta la famiglia e il 18 novembre ‘44 accompa egli stesso i “toscani” a prelevare a casa le tre sorelle Pianegonda, la madre e due zii. Nelle settimane successive sono arrestati altri compaesani e alla fine pure Walter Pianegonda (mentre il padre Valentino riesce a fuggire) e rinchiusi nelle carceri a Rovereto. Victor Piazza non solo non si fa scrupolo di far arrestare un’intera famiglia che conosceva fin da bambino, ma una volta in carcere a Rovereto, egli stesso insieme ai “toscani” li sottopone a sevizie e torture, fisiche e psicologiche. Lo stesso giorno della cattura della famiglia Pianegonda, Piazza partecipa alla perquisizione e saccheggio in casa Scalabrin a Fara. Victor Piazza continua nel suo lavoro di spionaggio e riesce ad introdursi di nuovo nelle fila partigiane tra “i patrioti del btg. Bressan della sua stessa ex brigata Pasubiana dove approfittando della distanza del suo battaglione si spaccia per fuggito dal campo di concentramento”. Inseritosi tra i partigiani della Valdastico, dopo pochi giorni, fugge. Piazza ricompare il 7 gennaio ‘45 “in testa ad un forte rastrellamento” e condusse le truppe tedesche nei luoghi frequentati, a Montepiano, Lastebasse, Ponte Posta, San Pietro in Valdastico, Pedescala e Tonezza, cooperando alla cattura dei resistenti e di coloro che li aiutano. E’ Piazza la guida ed l’informatore (con Adelmo Caneva) che l’8-10/3/45 accompagna il reparto della polizia altoatesina di Roncegno nell’azione che porta all’uccisione di “Freccia”. E’presente all’eccidio di Pedescala in divisa da maresciallo tedesco: “La sera di domenica 29 aprile, Giovanna Dal Pozzo vide in paese anche Victor Piazza, in «divisa di S.S. Criminal Polizei», davanti alla sua porta, mentre parlava con un comandante tedesco. Glielo aveva indicato suo marito. Invece al mattino di quella domenica, tre persone, vestite con abiti civili, erano entrate nell’albergo-trattoria Al Grillo d’oro, in Piazza Prima Armata, gestito da Manilla Leoni, la matrigna dei partigiani Giorgio (Walter) e Nicola (Pippo) Pretto. «Mi chiesero dove fosse il comandante Piazza» depose Manilla agli inquirenti americani «e io risposi loro di chiedere ai loro camerati. Uno di loro lasciò l’edificio. Nello stesso tempo apparvero alcuni aerei. Salirono sui loro veicoli e scapparono». Manilla conosceva bene Victor Piazza perché aveva arrestato e portato via il figliastro Giorgio, nel marzo precedente. Victor Piazza fu visto andare avanti e indietro per il paese durante tutta la giornata di domenica. Pure Carlo Moro vide in paese Victor Piazza quella domenica: «Egli fu per tutto il giorno in paese. La sera insieme con un suo amico che non conosco andò per la strada che va a Rotzo». Victor Piazza e Antonio Caneva erano certamente presenti in Valdastico per tutta la giornata del 29 aprile.”
Arrestato dopo la Liberazione è giudicato dalla CAS di Vicenza il 29.1.47 e condannato a 29 anni; il 19.12.47 la Corte Suprema di Cassazione di Roma annulla la sentenza e rimanda alla CAS di Brescia, poi è amnistiato.
Anton Deutsch e Silvio Varotto.
“dai documenti emerge che Anton Deutsch e Silvio Varotto erano tutt’altro che «persone pacifiche e perseguitate», si trattava di uomini che «appartenevano a un gruppo di SS italiane affiliate alla banda Carità con sede in Padova nel quartiere Città Giardino», in via Diaz. «A capo del reparto di SS erano Desiderio Lotto e certo Panchieri. A Padova in quel tempo il Deutsch, che parlava bene l’italiano, si faceva chiamare “dottor Antonio”». Le poche notizie raccolte fanno supporre che Deutsch, Lotto e il Varotto facessero parte, a Padova, di una scuola di spionaggio di SS italiane diretta dal ten. Loss, costituita da volontari che avevano il compito di infiltrarsi alle spalle degli angloamericani e poi rientrare per riferire quanto avevano osservato. Le SS tedesche li preparavano «anche a sostenere un interrogatorio, nel caso vengano catturati e persino ubriacati. Portano con sé un sacchetto nel quale hanno diecimila lire in biglietti di banca nuovi da mille e una carta d’identità: nient’altro, né un pezzo di carta e neppure i fiammiferi». Questo reparto di SS italiane, di fatto, collaborava attivamente con il maggiore Carità: Enrico Parnigotto, scultore padovano e insegnante di disegno, ai primi di aprile fu arrestato e condotto a palazzo Giusti, sede della banda Carità, e fu interrogato e torturato da Desiderio Lotto con Elio Cecchi, uomo nell’organico della banda Carità. Con l’avvicinarsi degli alleati, il gruppo di SS italiane fu costretto ad interrompere la «brillante» attività nella quale si era «distinto» (il solo Lotto era responsabile di cinque omicidi, sevizie escluse). Prima di sciogliersi aveva organizzato un «gruppo di sabotatori» con il compito di disturbare in tutti i modi l’occupazione alleata. A capo del gruppo vi era il «dottor Antonio» e certo tenente De Paolis, domiciliato a Vanezze di Trento. Quasi sicuramente, il «dottor Antonio», alias Deutsch, in compagnia del Varotto, quando furono fermati dai partigiani della Valdastico «erano diretti a Vanezze di Trento». Nella stessa località si stava recando anche Desiderio Lotto ma per altra strada e in Valsugana fu raggiunto dai partigiani che lo inseguivano e giustiziato. Il denaro trovato in possesso del Deutsch e del Varotto ammontava, secondo una dichiarazione diffusa a mezzo stampa dall’ANPI provinciale di Vicenza nel dopoguerra, in 412.500 lire in contanti mentre l’importo degli oggetti d’oro (anelli, orologi e catenine) rimaneva imprecisato, ma tutto era stato repertato e consegnato al Cln di San Pietro Valdastico che a sua volta informò l’Intendenza di Finanza. Si trattava, comunque, di denaro e valori che avrebbero dovuto finanziare il gruppo di SS italiane di sabotatori per formare gruppi di resistenza.” (da Niente altro che polvere di S. Residori).
Estremi e Note sui procedimenti:
“Il 7 giugno 1945 fu formata la Commissione che si recò non solo a Pedescala e a Settecà per interrogare i testimoni e far luce sulle due stragi, ma anche a Treschè Conca, una località vicina, frazione del comune di Roana sull’altopiano dei Sette Comuni, per indagare sull’eccidio compiuto dai tedeschi in quel luogo solamente tre giorni prima, il 27 aprile 1945. Dalla posizione dei documenti all’interno del materiale archivistico, appare evidente che la Commissione alleata riteneva collegate tutte e tre le stragi, ma la convinzione rimase un’idea non corroborata da nessun elemento valido né dalle prove materiali né dalle testimonianze assunte. Di fatto, però, il 5 dicembre 1946 il col. JAGD Tom H. Barratt comunicava al War Crimes Branch che le indagini erano state chiuse il precedente 2 maggio 1946 dal momento che non risultava coinvolto personale americano o inglese e che era stato trasmesso il materiale al Governo italiano. Sappiamo poi che una volta in Italia il fascicolo finì in quello che viene ormai comunemente chiamato “armadio della vergogna”, un armadio contenente centinaia di fascicoli processuali sui crimini nazisti, “dimenticato” per decenni nei locali della Procura Generale Militare, a palazzo Cesi a Roma. Il fascicolo relativo al massacro di Pedescala-Settecà (contente però anche i documenti relativi a quello di Tresche Conca) divenne il n. 2102 recante la triste intestazione di «Contro: Piazza, Caneda [sic] (Brigata Nera) e 33 militari saldatori [sic] delle SS», che il procuratore generale militare Enrico Santacroce archiviò provvisoriamente il 14 gennaio 1960 «poiché, nonostante il lungo tempo trascorso dalla data del fatto anzidetto, non si sono avute notizie utili per la identificazione dei loro autori e per l’accertamento della responsabilità». …Il procedimento aperto dalla Procura militare di Padova nel 1989 «nei confronti di ignoti militari della FF.AA. germaniche», su due istanze presentate da Giuseppe Stenghele, e ben presto chiuso, fu riaperto dapprima nel 1996 su richiesta di Francesco Stenghele, quando venne ritrovato in Argentina, Bruno Caneva, che la voce popolare indicava assieme a Victor Piazza, come uno dei due italiani, riconosciuti dai paesani e sicuramente presente al massacro e poi due anni più tardi su sollecitazione del Comitato vittime civili di Pedescala che aveva consegnato ulteriori documenti probanti. Il procedimento venne definitivamente archiviato dal procuratore militare Roberto Rivello il 21 luglio 2000, in quanto all’epoca dei fatti esistevano tre fratelli Caneva di Asiago, Bruno, Adelmo e Antonio, ma i sopravvissuti non erano riusciti ad identificare correttamente quale dei tre era stato visto in paese durante il massacro.” (da Niente altro che polvere di S. Residori) […]
Pierluigi Dossi, Episodio di Pedescala e Forni-Settecà 30/04 – 02/05/1945, Atlante delle Stragi Naziste e Fasciste in Italia