Sturzo respinse le teorie di molti intellettuali fascisti come quella di Arrigo Serpieri

Un punto di cesura nella storia della partecipazione dei cattolici alla politica è riscontrabile nell’avvento del fascismo, la cui nascita fu la causa principale della fine dell’esperienza del Partito popolare italiano e il cui tramonto determinò la spinta propulsiva che diede vita alla Democrazia cristiana.
Per quanto riguarda il Ppi, esso fu profondamente segnato dall’esilio di Sturzo, costretto a fuggire a Londra dalle minacce personali ricevute da Mussolini. Quest’ultimo, in seguito al delitto Matteotti e alla secessione aventiniana, dichiarò al cardinale Gasparri che, qualora il sacerdote siciliano non avesse lasciato l’Italia, egli non avrebbe potuto rispondere della sua incolumità <84. L’esilio di Sturzo, che sarebbe potuto apparire come una soluzione provvisoria, si tramutò in una condizione permanente quando, con il discorso del 3 gennaio del 1925, il leader del Partito nazionale fascista rese manifesto il carattere violento ed autoritario del suo regime, annunciando la soppressione di tutte le opposizioni <85.
Nonostante la consapevolezza dell’impossibilità del suo ritorno, Sturzo non rinunciò mai a partecipare alla vita del suo partito, né a conservarne il ruolo di guida <86. Egli, infatti, durante gli anni dell’esilio londinese, mantenne una fitta rete di corrispondenze epistolari con gli esponenti del Partito popolare italiano, in particolare con Alcide De Gasperi <87. In una di queste lettere, indirizzata ai popolari, Sturzo fornisce un’analisi dei punti di forza dell’esperienza popolare e delle debolezze che, insieme alla repressione fascista, portarono al suo fallimento <88.
In primo luogo, Sturzo rivendicò la natura profondamente democratica del suo partito, caratterizzato da una solida base ideologica in contrasto con il «monopolio socialista» <89 in campo sociale e con «il monopolio democratico-liberale» <90 in campo scolastico, amministrativo, economico e religioso. La stessa vitalità, secondo Sturzo, sarebbe mancata al partito nel suo tentativo di opposizione al regime fascista. La ragione della debolezza del Ppi, un partito «divenuto grande appena nato» <91, si sarebbe dovuta ricondurre alla mancanza di «quella unificazione ideale che forma la vera personalità di partito» <92 che, invece, avrebbe costituito il punto di forza del fascismo.
Nella lettera ai popolari, Sturzo rimarcò la forte antitesi tra il suo partito e quello di Mussolini, da lui considerato un regime repressivo in tema di diritti civili e politici. Da qui, l’assoluta inconciliabilità del fascismo con il popolarismo, che sui princìpi di libertà era fondato e nei quali trovava la sua ragion d’essere <93.
In quest’ottica, Sturzo respinse le teorie di molti intellettuali fascisti come quella di Arrigo Serpieri, secondo cui l’avvento del fascismo avrebbe contribuito a risollevare le sorti del ceto agricolo italiano <94. Sturzo confutò la visione «paternalistica» <95 del fascismo di Serpieri tramite un articolo, definito da De Rosa uno «fra i testi più chiari e lucidi per acume politico e storico della sua ampia produzione pubblicistica» <96, nel quale il sacerdote siciliano rimarcò l’importanza della democrazia e dell’antagonismo di classe nella definizione del ruolo del ceto contadino. Il fascismo, uniformando le coscienze e indirizzandole verso l’archetipo di una società agraria statica e immutabile, avrebbe impedito lo sviluppo di una coscienza di classe, senza la quale l’agricoltura non sarebbe mai approdata alla modernizzazione.
Serpieri sosteneva, inoltre, che l’eliminazione dei contrasti tra capitale e lavoro operata dal fascismo avrebbe favorito la crescita industriale e prodotto un’armonia di intenti anche nel ceto operaio. Sturzo ribaltò completamente anche questo assunto, reputando la lotta sociale di vitale importanza nella formazione politica dei ceti più bassi che il fascismo pretendeva di rappresentare <97.
In sintesi, si potrebbe affermare che Sturzo si discostò radicalmente dal fascismo sul terreno politico, criticandone i mezzi di acquisizione del potere e di mantenimento del consenso, ma anche e soprattutto sul piano sociale <98.
Sturzo, che pure non desistette mai dall’opporsi alla dittatura fascista anche durante il suo esilio, costituisce l’emblema dell’esclusione dei popolari dalla vita politica durante il ventennio. La sua posizione, tuttavia, non è identificabile con quella della totalità del mondo cattolico, del quale una parte consistente scelse di adottare una linea di collaborazione con il fascismo <99.
I motivi dell’allineamento dei cosiddetti “clerico-fascisti” al regime risultano esposti chiaramente in una lunga lettera scritta nel dicembre 1928 da Filippo Crispolti al direttore del giornale «Momento» di Torino, Gennari. In quel documento, l’autore, con un excursus, ripercorre le vicende politiche di cui era stato partecipe dall’affermarsi del fascismo in poi <100.
Crispolti asseriva che, fin dalla nascita del fascismo, i «cattolici secessionisti» <101 del Partito popolare italiano intuirono immediatamente che il regime fascista non sarebbe stato un fenomeno transitorio e, di conseguenza, ritennero preferibile militare all’interno di esso. A ragioni meramente strumentali, tuttavia, si univano motivi di carattere razionale. Crispolti considerava i difetti del regime fascista accettabili se comparati ai suoi meriti, in primis il fatto che il fascismo avesse «salvato l’Italia dall’anarchia» <102. Crispolti, inoltre, evidenziava la totale assenza di un’opposizione che fosse in grado di costituire una valida alternativa al fascismo, muovendo una critica agli antagonisti del regime, considerati incapaci di proporre un modello di governo atto a sostituire quello contro il quale stavano combattendo <103.
Crispolti prendeva atto dell’avvenuta limitazione delle libertà civili operata dal fascismo; la considerava, tuttavia, un fenomeno passeggero dovuto alla transizione dal vecchio al nuovo assetto politico che si sarebbe attenuato nel corso del tempo <104.
I clerico-fascisti si dimostrarono favorevoli al corporativismo fascista, benché esso avesse natura coattiva, in quanto lo consideravano di gran lunga preferibile a «quel libero e spontaneo accorrere dei cittadini a corporazioni da loro preferite» <105 fino ad allora professato dai cattolici. Il corporativismo, inoltre, avrebbe sottratto consensi alle associazioni socialiste, scongiurando, così, il pericolo dell’avanzata di coloro che i clerico-fascisti reputavano dei «sovversivi» <106.
Rispetto agli accordi stipulati tra la Chiesa e il governo fascista, Crispolti si mostrò consapevole del fatto che essi potessero essere assimilati ad una strategia politica piuttosto che ad un’autentica adesione religiosa da parte del regime. Ciononostante, i clerico-fascisti li ritennero l’espressione di un nazionalismo che intendeva rievocare il carattere più profondo dell’identità italiana, la quale era fondata anche e soprattutto sulla religione cattolica <107.
Essi consideravano il partito fascista l’unico in grado di rapportarsi alla “questione romana” senza lasciarsi travolgere dalle proteste dei partiti difensori della separazione tra Stato e Chiesa, i quali avevano tentato di rovesciare i governi precedenti ogni qual volta questi ultimi avessero mostrato di volersi approcciare al problema <108.
Dallo scritto di Crispolti risulta chiaro, dunque, come i clerico-fascisti avessero compreso a fondo la pericolosità della concentrazione del potere nelle mani di un solo uomo e dell’«onnipotenza monopolizzatrice» <109 della formula del partito unico; ciononostante, essi intrapresero una politica fiancheggiatrice, ritenendo il fascismo «una realtà, nata indipendentemente da loro, e della quale non appartiene a loro la responsabilità» <110, dalla quale avrebbero potuto ottenere, in futuro, la possibilità di una contrattazione con la Santa Sede, che costituiva il loro obiettivo più importante <111.
[NOTE]
84 G. Antonazzi, Luigi Sturzo – Alcide De Gasperi. Carteggio, Istituto Luigi Sturzo, Roma, 1999
85 Ibidem
86 E. Aga Rossi, Dal Partito popolare alla Democrazia Cristiana, Cappelli, Bologna, 1969
87 G. Antonazzi, Luigi Sturzo – Alcide De Gasperi. Carteggio, Istituto Luigi Sturzo, Roma, 1999
88 Il testo della lettera, trovato da Gabriele de Rosa tra le carte dell’archivio Ruffo della Scaletta, è stato pubblicato in «Civitas», nn. 4-5, 1960, ed è contenuto in E. Aga Rossi, Dal Partito popolare alla Democrazia Cristiana, Cappelli, Bologna, 1969
89 Cfr. E. Aga Rossi, Dal Partito popolare alla Democrazia Cristiana, Cappelli, Bologna, 1969, pag. 245
90 Cfr. Ivi, pag. 246
91 Cfr. Ivi, pag. 247
92 Cfr. Ibidem
93 Si veda E. Aga Rossi, Dal Partito popolare alla Democrazia Cristiana, Cappelli, Bologna, 1969
94 Si veda G. De Rosa, Il partito moderno nel pensiero sturziano, «Sociologia», n.2, 1986, pp. [37]-56
95 Cfr. Ivi, pag.10
96 Si veda G. De Rosa, Il partito moderno nel pensiero sturziano, «Sociologia», n.2, 1986, pp. [37]-56
97 Ibidem
98 Ibidem
99 Si veda E. Aga Rossi, Dal Partito popolare alla Democrazia Cristiana, Cappelli, Bologna, 1969
100 Ibidem
101 Cfr. Ivi, pag. 273
102 Cfr. Ivi, pag. 274
103 Ibidem
104 Ibidem
105 Cfr. Ivi, pag. 274
106 Cfr. Ivi, pag. 275
107 Ibidem
108 Ibidem
109 Cfr. Ivi, pag. 276
110 Cfr. Ivi, pag. 277
111 In proposito, si veda E. Aga Rossi, Dal Partito popolare alla Democrazia Cristiana, Cappelli, Bologna, 1969
Laura Broccoletti, Sturzo e De Gasperi: due visioni della partecipazione dei cattolici alla politica, Tesi di laurea, Università Luiss “Guido Carli”, Anno accademico 2013/2014

L’uomo che più rappresenta l’azione del progetto fascista per la modernizzazione delle campagne è Arrigo Serpieri, di cui diremo meglio più avanti parlando di bonifica integrale.
Serpieri non era fascista; o almeno non fu iscritto al Pnf fino alla fine del ’24. Era un liberale, di estrazione nittiana; ed era un agronomo e un tecnico agrario. Serpieri vede nel ruralismo non tanto una ideologia “contadinesca” di cui cantare le lodi, ma una opportunità di modernizzazione sia del territorio che della produzione agricola attraverso il ruolo e l’opera fondamentale del contadino-imprenditore, protagonista di riferimento delle politiche di intervento statale intorno al quale vanno costruite le opportunità economiche di sviluppo. Oltre alla visione prettamente tecnica, Serpieri intende sostenere una battaglia politica all’interno di quelle stesse componenti retrive e conservatrici dei modelli agricoli, presenti tanto fra gli agrari che del fascismo si erano serviti, quanto fra i capi periferici del regime legati allo squadrismo e ancora movimentisti e che porranno problemi proprio quando si presenterà la necessità di trasformarsi da movimento in partito; in particolare i ras dello squadrismo come Farinacci.
Ma Serpieri crede nella rivoluzione fascista e si iscriverà al partito fascista, in quella fase di trasformazione, attratto dalla forza autoritaria propria di Mussolini.
Serpieri crede in Mussolini e crede nella possibilità di pieno coinvolgimento delle masse rurali a sostegno di una politica di sviluppo dell’agricoltura; e indica la strada:
“La nuova classe dirigente, per Serpieri, deve cercare nella realtà economica e sociale italiana una sua propria solida base, armonizzante con i suoi ideali politici. Essa è costituita unicamente dai ceti rurali, all’anticapitalismo dei quali il fascismo dovrà aderire se vuole costruire una nuova civiltà rurale, più equilibrata, più serena, più moralmente sana, solidamente vincolata alla terra e quindi alla patria”. <28
Dunque, quella di Serpieri è una visione anche sociologica, oltre che tecnica del ruralismo fascista; in perfetta corrispondenza con quella del capo del regime, il quale non tarderà a volerlo a capo del più importante progetto di opere pubbliche degli anni Venti: la bonifica integrale.
Sullo stato corporativo, altro tassello necessario alla trasformazione in senso totalitario della società, sempre il Serpieri trova un possibile equilibrio con la propria formazione e cultura scientifica. Questo appare un punto controverso nell’immagine dell’uomo.
Per un economista di estrazione liberale la conciliazione fra libera iniziativa e guida accentrata dello Stato si complica nel momento in cui si affronta il tema dell’intervento pubblico nell’economia e sui limiti di questo. La soluzione, per la verità poco convincente, su cui si regge a fatica il ragionamento del Serpieri è quella di un “relativismo finalistico”, se così possiamo dire, che mette in primo piano le esigenze collettive.
In sintesi, la sua mediazione consisteva nell’assumere che:
“Non solo i grandi economisti erano meno liberisti di quanto si sia fatto credere, bensì la stessa economia pura, intesa come “astratto schema della vita economica”, è concilia- bilissima con l’ipotesi di intervento statale. In altre parole, non contraddice un’azione di tipo monopolistico che risponda a determinati requisiti”. <29
In pratica, in questo schema possibilista, Serpieri afferma che in regime di monopolio non necessariamente si determinano danni per gli imprenditori. A patto che detto regime riesca a realizzare un vantaggio collettivo; cioè quando riesca a realizzare (qui giustifica, a nostro avviso anche il modello sociale, cioè la società corporativa) un costo più basso di quanto sarebbero in grado di fare quegli stessi imprenditori in situazione di libera concorrenza.
[NOTE]
28 C. Fumian, Modernizzazione, tecnocrazia, ruralismo: Arrigo Serpieri, in Italia Contemporanea, A. XXXI, ott-dic 1979, p.20
29 C. Fumian, modernizzazione, tecnocrazia, cit, p. 30
Walter Magnani, Fascismo e bonifica. La politica economica e sociale negli anni del regime, Tesi di laurea, Università degli Studi di Modena e di Reggio Emilia, Anno accademico 2013-2014