Sole nero

Fonte: Marco Baliani

Un’attrice si fa veicolo di una memoria autobiografica e percorre le tappe che portano una donna dall’infanzia verso la scelta di divenire combattente per la Resistenza, percorrendo paesaggi interiori e pianure reali, la fame vera e quella più nascosta di una giustizia che non si vede ma che si percepisce come cibo necessario, una voglia di libertà solo intuita, non ideologica ma concreta terrena e soprattutto femminile. Questo percorso attorale è infatti in primo luogo il tentativo di dare voce al contenuto femminile del resistere, ben oltre i limiti della guerra e della persecuzione. Come a cercare uno sguardo diverso su vicende a noi ancora prossime e però quasi sempre lette attraverso filtri politici, ideologici e comunque maschili. Qui c’è all’opera un agire femminile che è innanzitutto una storia, una storia umana che attraversa quegli anni col passo necessario al vivere e sopravvivere quotidiano: dalla condizione di un sottoproletariato urbani in quartieri degradati di Bologna ai primi sussulti adolescenziali, all’istinto che porta la narratrice verso quegli strani tipi che si chiamano partigiani, ad una iniziazione rocambolesca e tragica, al ruolo di staffetta e via via alla fine della guerra, all’amore per un soldato russo, al sogno di un’altra terra e un’altra libertà, alla delusione cocente quando tutto torna come prima, ai sogni di colpo sottratti, all’ultima odissea attraverso un’Europa dilaniata e ferita, per un ritorno a casa che non ha nulla di eroico.
È una storia così intrisa di vita che basta da sola a narrare un intero periodo del nostro passato prossimo, lasciando in sospeso domande che ancora oggi non hanno avuto risposta.
Marco Baliani

Le memorie di Gina Negrini (Sole Nero, Cappelli, Bologna 1969) trasmettono il percorso significativo di una giovane operaia bolognese, segnato dalla Resistenza. Coinvolto nelle tragedie del mondo – il nero – Gina sentì allora possibile un cambiamento radicale – il sole -, si produsse così oltre a una persistente passione politica, un bisogno di creatività che si sarebbe espresso anche nella pittura.
Aveva diciotto anni quando partì nel settembre 1944. Quell’appuntamento lo aveva fortemente voluto: le sofferenze patite in collegio come figlia illegittima e poi le fatiche mal retribuite in una piccola fabbrica avevano temprato il suo carattere; la disperazione l’aveva portata a volere tanto ardentemente un’altra realtà, che arrivava a “sdoppiarsi”. Ed entrando in una base “gappista” effettivamente iniziò una seconda vita, assumendo come nome di battaglia Tito, per ammirazione nei confronti di un “guerriero che aveva fatto tutto da solo”, senza aspettare l’aiuto degli Alleati.
Il desiderio di essere indipendente le veniva dalle donne della sua famiglia: dalla nonna autodidatta, dalla zia Armida che aveva sparato ai fascisti per difendere il fratello e si era gettata in un macero per non sposarsi, dalla madre amatissima che le aveva insegnato il piacere dei libri.
Quando la sede della brigata, occupata dai repubblichini, divenne teatro di una sanguinosa battaglia, Gina Negrini rischiò la vita per salvare un compagno ferito e poi scampò miracolosamente alla morte, ricorrendo alla simulazione.
Allontanatasi dal luogo del massacro, si lasciò andare in un fosso, mestruazioni improvvise le ricordarono allora il confine oltrepassato dalla morte alla vita, da una condizione estrema alla sua “natura” di donna. Entrò poi nel Comando Divisione Staffette e nell’aprile 1945 fu arrestata: “per non parlare” cancellò la sua memoria. Può capitare quando “uno ha una volontà molto forte”.
La sua Resistenza fu un insieme di esperienze assolute, a cui era difficile dare un seguito altrettanto avventuroso. Elaborò un nuovo sogno, andare nella patria del socialismo. Sposò un giovane russo che la convinse a lasciare l’Italia e insieme furono bloccati in un campo di concentramento e lei sola fu rimandata indietro.
Qui termina il libro: Gina, che aveva la licenza elementare, aveva deciso di scrivere per reagire alla situazione familiare che la mortificava (si era risposata nel 1949) e a una malattia che la minacciava. “Non volevo – dice – che morisse con me quella ragazza che ero stata, volevo che qualcuno poi negli anni leggendomi l’avesse fatta resuscitare”.
Ora un’attrice fa resuscitare quella ragazza che il libro ha fissato e Gina Negrini può rivedersi partigiana non solo in un gioco solitario fra sé e la pagina da riempire: il suo teatro mentale di memoria si materializza e dalla lontananza di quel passato nasce fisicamente un’altra Gina. Le dà corpo Maria Maglietta, un’attrice potente che ha saputo legare teatro e politica, teatro e vita, e si è distinta per come ha lavorato creativamente su relazioni femminili e su vissuti memorabili, a noi contigui. Tra biografia e sua recitazione in scena si verifica necessariamente un salto mortale, e il problema non è immediatamente riconoscersi e riconoscere. Mettere in scena un libro, ritrovare l’energia sepolta nella storia: a queste sfide il teatro è abituato e in particolare quello impegnato di Baliani e Maglietta; ma per Maria non si è trattato tanto di collegare diverse generazioni di donne attraverso un nodo centrale per l’Italia in un secolo di fatto già concluso, quanto di rintracciare fili più sottili di una tela comune che ancora andiamo intrecciando.
Laura Mariani in Marco Baliani

Forse Sole nero di Gina Negrini è il tentativo di scorgere il disegno della cicogna, di riallacciare i fili dispersi di un’esistenza densa di conflitti e di vita. Tre anni fa con Alessandra Ghiglione e altre attrici, al festival di Dro cominciammo a lavorare intorno al tema del resistere femminile.
Laura Mariani ci fece incontrare la scrittura di Gina Negrini. Da allora quella storia misteriosamente ha continuato a pulsare dentro di me. Quello che ho tentato di compiere con questo spettacolo è ripercorrere le tracce di quel possibile disegno ma, a mia volta, disegnando forse un’altra cicogna, o meglio: attraverso quel particolare rivivere le esperienze che è il teatro, poter illuminare zone di un mio tracciato. Alla fine, nel tempo, si lascerà guardare?
Maria Maglietta in Marco Baliani

Gina Negrini è stata autrice di libri autobiografici dove, oltre alle proprie esperienze di vita, raccontò anche i terribili anni della Seconda guerra mondiale in una Bologna che lottò con tutte le sue forze per liberarsi dall’oppressione nazifascista. ‘Il sole nero’, ‘Il nome sulla pelle’ e ‘Nei panni dell’eroe’, le opere in cui traspare la grande personalità che aveva la Negrini, anche apprezzata artista. Compiuti i 60 anni, infatti, decise di dedicarsi alla pittura e con il ricavato della vendita delle sue opere sostenne anche le spese del comitato alla ricerca della verità sulla tragedia di Ustica.
HA MESSO la parola fine nell’ultimo capitolo del libro più importante che ha scritto: quello della propria vita. Gina Negrini, storica staffetta partigiana, si è spenta proprio mentre la figlia Flavia stava incontrando i familiari dell’uomo che ha segnato per sempre la sua esistenza: Nuri, il soldato sovietico che l’aveva fatta perdutamente innamorare portandola a lasciare l’Italia alla volta di quello che doveva essere il ‘paradiso del socialismo’. Quella Russia comunista che, invece, ha spezzato i sogni di una giovane donna, all’epoca innamorata di una ideologia che si è trasformata in rimorso. Gina, infatti, dopo essersi sposata a Bologna con rito ortodosso sul finire della guerra, in Russia non ci arrivò mai. Fu fermata assieme al suo Nuri a Linz dall’Armata Rossa che arrestò il soldato. Nuri era stato catturato nel ’43 sul fronte di Leningrado dall’esercito tedesco, era riuscito a liberarsi e a fuggire in Italia dove combattè con i partigiani. Ma ciò gli valse l’accusa di diserzione e così, a Linz, Nuri fu mandato in Unione Sovietica e Gina fatta salire sul primo treno verso l’Italia.
Marco Signorini, Addio alla partigiana Gina Negrini: è morta sapendo che il suo Nuri si salvò, Il Resto del Carlino, 18 maggio 2014

Care amiche e cari amici di RadioEmiliaRomagna, la protagonista di cui oggi vi narriamo la storia detestava la retorica ufficiale. Si può supporre, senza andare molto lontani dal vero, che non avrebbe gradito di essere trattata come un simbolo, neanche in occasione di una festa come quella odierna, dedicata alle donne e alla loro capacità di resilienza. Si può supporre che, piuttosto, avrebbe preferito essere raccontata come una donna che ha saputo vivere la sua vita nonostante le difficoltà e le insensatezze della storia, e come tale tenteremo di renderle omaggio a partire dal libro in cui ha riassunto la prima parte della sua vita.
Gina Negrini nasce il 25 agosto 1925, in via Sant’Apollonia, una stradina nel cuore di San Vitale, un quartiere popolare del centro storico di Bologna. “Sporco e decrepito”, come ricorderà a distanza di anni, “litigioso e sfottente e, nonostante gli stracci, allegro dell’amara allegria della miseria”. Fin da piccola dimostra di avere un carattere deciso e poco disposto alle mezze misure. Abbandonata dal padre, è sua madre a tirarla su come può, nonostante la povertà e i periodici ricoveri in sanatorio causati dalla tubercolosi. Quando la bambina ha sette anni, suo malgrado, è costretta a mandarla in un collegio femminile.
Dopo una burrascosa “cattività” durata un quinquennio, non ancora quattordicenne, Gina trova lavoro nella fabbrica dove è impiegata anche sua madre. Producono astucci per gioielli: un ambiente malsano, avvelenato dalle esalazioni delle colle e dalle angherie della padrona. La ragazza ha lasciato la scuola prima del tempo, ma, appena riesce, utilizzando i suoi risparmi, prende a noleggio dei libri da una biblioteca circolante. Ama le storie di avventura e di rivalsa raccontate da Puskin, Kipling e Salgàri, adora le ricostruzioni storiche di Victor Hugo, così piene di passione, ma non si fa alcun problema a mescolarle con le passioni più semplici e immediate di un’autrice “per sole donne” come Liala.
È cresciuta in fretta la bambina di via Sant’Apollonia ma, anche come giovane donna, è costretta a dimenticare la spensieratezza. C’è un padre che si rifà vivo dopo anni di assenza e tenta di abusarla. E poi c’è la guerra, con i suoi piccoli e grandi orrori quotidiani. Quando un bombardamento sulla stazione di Bologna devasta un treno carico di cibo in scatola per il fronte e la gente affamata si riversa sui binari per portar via qualcosa, la polizia spara a vista. A terra, uccisa, rimane una giovanissima operaia che lavora con Gina. È come una scossa di terremoto: “Per la prima volta pensai agli altri”, racconterà. “Mi resi finalmente conto di non avere il monopolio di tutte le disgrazie. Anche chi mi stava attorno soffriva come me e più di me. E moriva!”. Se già da tempo sopportava male una società che faceva propri dei principi che la umiliavano come donna e come essere umano, ora l’insofferenza covata dentro lascia il posto alla rivolta aperta.
Dopo l’armistizio firmato con gli anglomericani l’8 settembre 1943 e l’inizio della guerra civile, la diciottenne Gina Negrini si unisce ai partigiani della brigata comandata da Aroldo Tolomelli. Il nome in codice che le viene assegnato è “Tito”. Scamperà per due volte a una morte che sembrava certa. La prima nell’ottobre del 1944, vicino a Castelmaggiore, quando la casa colonica in cui si trova insieme ai suoi compagni viene circondata da fascisti e tedeschi; esce indenne dalla strage. La seconda a pochi giorni dalla fine della guerra, ai primi di aprile del 1945: questa volta è da sola e sta battendo a macchina gli ordini di insurrezione per tutte le brigate della città in un appartamento che si trova a pochi metri dalla questura. Viene catturata dalle brigate nere, picchiata e incarcerata. Nonostante le minacce e i maltrattamenti, non parla, tiene duro. A risparmiarle la vita è solo la fuga precipitosa dei fascisti dalla città ormai liberata.
Nei primi mesi di libertà, Gina accusa il colpo degli stenti sopportati, a cui si aggiunge il peso della disillusione che, come lei, sperimentano molti altri protagonisti della resistenza. Viene ricoverata in una casa di cura per una pleurite, ma qui l’attende qualcosa di inaspettato. Sono gli occhi orientali e il sorriso timido di un ragazzo azerbaigiano, anche lui convalescente. Si chiama Nuri Alìev, ha fatto parte dell’Armata Rossa, è stato prigioniero dei tedeschi, ne è sfuggito e ha continuato a combattere con i partigiani italiani. I due scampati all’odissea della guerra si riconoscono e si innamorano. Lui vuole tornare nella sua terra, lei decide di accompagnarlo: vuole lasciarsi alle spalle un’Italia che sente ogni giorno più estranea al paese che aveva sognato di costruire con le sue lotte. Un’Italia opportunista, in cui tutti, a cose fatte, si scoprono antifascisti.
Ma il consolato dell’Unione Sovietica si oppone alle loro intenzioni: chi appartiene alla patria del comunismo, viene detto, non può sposare la cittadina di un altro paese. I due insistono, sposandosi a tempo di record e ripresentandosi coniugati al consolato, che prende tempo e mette al loro fianco un ufficiale dell’esercito russo: li accompagnerà nel viaggio verso l’URSS. Una guida ambigua, che una volta varcato il confine si rivelerà per quello che è. Arrivati a San Valentino di Linz, in Austria, i due ragazzi vengono chiusi in un campo di concentramento sovietico. Quando Gina mostra i documenti che attestano la loro partecipazione attiva alla resistenza contro i nazifascisti, il comandante del campo, sotto una grande foto di Stalin, li strappa davanti ai suoi occhi. Lei è costretta a rimpatriare, mentre Nuri viene arrestato: la sua colpa è non essere morto in combattimento ed essersi lasciato fare prigioniero dai tedeschi, senza togliersi la vita “come avrebbe fatto un vero soldato sovietico”.
Da quel giorno del 1946 Gina Negrini non ha più saputo nulla di Nuri, se non un messaggio in cui le diceva di trovarsi in Siberia e che avrebbe fatto di tutto per unirsi di nuovo a lei. Tornata a Bologna, ha vissuto, nonostante il dolore. La sua antica passione per i libri l’ha portata a diventare una bibliotecaria, la sua forza creativa l’ha portata ad esprimersi nell’arte di narrare storie e dipingere immagini. Alla fine degli anni Novanta tenta ancora di rintracciare Nuri attraverso la trasmissione televisiva “Chi l’ha visto”, ma senza risultati.
Una mattina di maggio del 2014 Gina ha chiuso gli occhi per sempre. Da qualche giorno, forse, quegli occhi così chiari avevano recuperato qualche raggio di luce dei suoi diciotto anni. Grazie all’inchiesta dello storico Mickhail Talalay aveva saputo finalmente che Nuri, dopo l’arresto, era stato prigioniero per dieci anni in un gulag sovietico. Ma era sopravvissuto e, come lei, aveva continuato a vivere. Si era fatto tatuare il suo nome sulle braccia. Quattro lettere, il nome di una donna, urlato in silenzio contro la stupidità degli uomini.
<Le informazioni su cui si basa questa scheda sono tratte dal libro di Gina Negrini “Il sole nero” (Imola, Bacchilega Editore, 1999)>
A cura di Vittorio Ferorelli, RadioEmiliaRomagna, 8 marzo 2016

Fonte: la Repubblica (Bologna)

Gina Negrini ha pubblicato “Ai bambini non bisogna dire bugie”, filastrocche didattiche per le scuole elementari a cura del Comune; “Il sole nero”, romanzo autobiografico pubblicato da Cappelli, Bologna, 1969, ripubblicato da Bacchilega editore. Da Il sole nero, la Compagnia Marco Baliani-Maria Maglietta ha tratto una versione teatrale; “Nei panni dell’eroe”, romanzo ambientato nel dopoguerra sull’emigrazione clandestina partigiana in Cecoslovacchia. Nel 2010 ha pubblicato un secondo racconto autobiografico dal titolo “Il nome sulla pelle”.
Gina Negrini. Un’incredibile storia di vita, la Repubblica (Bologna), 2 dicembre 2015