Significativo che Silvia Rivera Cusicanqui abbia voluto tradurre il lavoro degli studi subalterni indiani in spagnolo

Mentre gli studi postcoloniali sono andati sviluppandosi, a partire dalla pubblicazione di “Orientalismo” di Said nel 1978, soprattutto nel corso degli anni ’80, ’90 e 2000, intercettando diverse discipline e affiancandosi al lavoro degli studi culturali inglesi, la corrente degli studi decoloniali è invece di più recente introduzione, e si pone come superamento critico degli studi postcoloniali. In particolare, gli studi decoloniali rimproverano a quelli postcoloniali diverse lacune. Innanzitutto, gli studi decoloniali, sviluppandosi originariamente in America Latina, rimproverano agli studi postcoloniali di ignorare precisamente questa regione, dato il loro focus esclusivo sulle colonizzazioni del subcontinente indiano e dell’Africa. In effetti, ancor prima dell’affermazione degli studi decoloniali, questa mancanza era già stata individuata e risolta in almeno due momenti. Innanzitutto, è da ricordare l’intervento di traduzione di alcuni testi degli studi subalterni indiani in Bolivia, in particolare attraverso una raccolta curata da Silvia Rivera Cusicanqui e Rossana Barragan, nell’ambito di un collettivo di studi boliviano, il “Taller de Historia Oral Andina”, fondato nel 1983: riunendo diversi intellettuali e attivisti di provenienze indigene, e lavorando in lingue indigene, il laboratorio approntò un metodo e un indirizzo di ricerca di storia orale, atto a
contrastare la narrazione dominante sulla colonizzazione e sull’indipendenza boliviana, grazie alla raccolta di testimonianze e memorie orali indigene, in grado di restituire ed elaborare la conoscenza e la resistenza indigene alla colonizzazione e al suo perdurare, a fronte di una forte insoddisfazione rispetto alla narrazione e alla costruzione del sapere nell’università. È significativo che, nell’ambito di questo progetto, una delle fondatrici del laboratorio, Silvia Rivera Cusicanqui, abbia voluto tradurre il lavoro degli studi subalterni indiani in spagnolo, per un’edizione boliviana che, fin dal titolo, “Debates post coloniales”, facesse riferimento diretto al dibattito postcoloniale (Rivera Cusicanqui e Barragán Romano 1997). Il secondo momento è da collocarsi quando, nel 1992, venne fondato negli Stati Uniti il “Latin America Subaltern Studies Group”, che intese traghettare il progetto dei Subaltern Studies indiani in America Latina, sia per quanto riguarda il modello di un gruppo di studiosi coeso attorno a uno stesso problema, sia quanto alle tematiche da questo gruppo affrontate, ovvero quelle riguardanti lo statuto e il ruolo storico delle “masse subalterne” in un contesto coloniale e postcoloniale, regionalmente specifico. Sviluppatisi in India con un imponente lavoro storiografico che, prevedendo originariamente la pubblicazione di tre volumi, ne pubblicò poi ben undici fra il 1982 e il 2000, i Subaltern Studies indiani si proposero l’obiettivo di rintracciare e ricostruire l’apporto delle masse contadine alla lotta anticoloniale indiana, mettendo a punto, a tal fine, una nozione di “coscienza subalterna” definibile per via negativa, atta a contrastare l’elitismo della storiografia indiana che aveva, finora, ignorato del tutto l’agency storica delle masse subalterne, concentrandosi solo sull’azione politica delle élite indigene. Il lavoro di questo gruppo di storici, dichiaratamente, si propose di usare categorie gramsciane per studiare la storia delle masse subalterne indiane, a partire dallo stesso recupero della categoria di “subalternità”, facendo dei subalterni il soggetto della loro storia <7; in questo, il gruppo fu direttamente influenzato dal recupero di Gramsci nel marxismo e nella storiografia inglesi degli anni ’70-’80. Quando, a partire dal 1988, il lavoro del gruppo ebbe
diffusione e conobbe apprezzamento negli Stati Uniti, il progetto dei Subaltern Studies incontrò, influenzò e fu a sua volta influenzato dagli studi postcoloniali, intercettando e incorporando quindi elementi di critica culturale e di “discourse analysis” nel proprio lavoro (Chaturvedi 2000), e dando così adito a interpretazioni che inclusero il lavoro dei Subaltern Studies a pieno titolo nel seno della critica postcoloniale (Prakash 1994).
Il Latin American Subaltern Studies Group, recuperando questo progetto e traghettandolo nel continente sudamericano, si pose l’obiettivo dichiarato di “fornire una critica radicale di culture elitarie ed epistemologie e progetti liberali, borghesi e moderni, nonché della loro modalità di rappresentare i subalterni, con un tentativo postmoderno e postrivoluzionario di comprendere i limiti di precedenti ermeneutiche, sfidando così queste culture a ripensarsi dal punto di vista delle loro stesse negazioni” (Rodriguez 2001: 9), rispetto al continente sudamericano. Con quest’operazione, il gruppo intese traghettare gli studi subalterni indiani, al modo di una vera e propria “travelling theory” <8,
recependone, oltre alla stessa modalità collettiva di studio, innanzitutto il focus analitico su una categoria, quella di subalternità, tesa a evidenziare le insufficienze e le insoddisfazioni della categoria classica di “classe” (Rodriguez 2001: 5), rinvenendo quindi negli studi subalterni un’efficace “strategia per i nostri tempi”, nella direzione di un “nuovo umanismo” la cui esigenza era fortemente avvertita dal gruppo, di provenienza accademica marxista, in seguito al crollo dell’Unione Sovietica (Rodriguez 2001: 3).
Quest’operazione di traghettamento teorico è stata difesa dagli esponenti del gruppo in seguito alle critiche, loro rivolte, di applicare una teoria occidentale all’America Latina, col risultato di disconoscere le specificità e le esigenze particolari di quest’ultima: rispetto a questo punto, i “Latin American Subaltern Studies” risposero difendendo la felicità dell’opzione di mettere insieme analisi specifiche al continente sudamericano con apparati teorici di provenienza occidentale, come il marxismo, il post-strutturalismo o gli stessi studi subalterni, declinando quest’unione nei termini di un dialogo fra Nord e Sud. In questo, il gruppo affermò il proprio intervento critico come una presa in carico compiuta dell’ineludibile rapporto fra studi postmoderni, postcoloniali, culturali e subalterni (Rodriguez 2001: 6-7), accettando di “cavalcare i quattro cavalieri dell’apocalisse” (ovvero Foucault, Derrida, Gramsci e Guha; Rodriguez 2001: 4), e affermando altresì con decisione l’appartenenza dell’America Latina alle realtà postcoloniali (Rodriguez 2001: 8). Sulla scia di Das (1989), il gruppo ha inteso assumere nella subalternità non una categoria morfologica, ma una prospettiva, individuando una convergenza fra la subalternità indiana e quella sudamericana non sulla base di una comparazione analogica, ma su quella, indicata dallo stesso Guha (Guha 2001), di una convergenza di temporalità: vale a dire, la convergenza fra modernità e colonialismo, che fa del colonialismo uno dei principali problemi del nostro tempo, anche dopo la fine formale dei domini coloniali, nel subcontinente indiano come in America Latina, per quanto con cronologie diverse.
L’esperienza del gruppo degli studi subalterni latinoamericani si arrestò nel 2000, nel momento in cui la stessa categoria di subalternità iniziò a eccedere i confini d’area entro cui era stata finora indagata, segnalando un’insoddisfazione rispetto a una compartimentazione regionale così definita, nella direzione di lavorare piuttosto su un’idea di “subalternity at large”, seguendo in questo un’indicazione di Spivak (Rodriguez 2001: 30) ed evidenziando così un primo scarto fra la geografia degli studi subalterni e postcoloniali e quella definita dagli studi d’area. Da questo riassuntivo resoconto dell’esperienza degli studi subalterni latinoamericani, si evince la fondamentale continuità e affinità non solo fra gli studi subalterni indiani e quelli latinoamericani, ma anche fra questi ultimi e gli studi postcoloniali, nella misura in cui viene assunta programmaticamente la necessità di studiare il colonialismo dal punto prospettico dei suoi oppressi, attraverso un apparato concettuale forte del marxismo, come del postmodernismo e del post-strutturalismo, portati con forza a una critica del nesso fra modernità e colonialismo, che va nella
direzione dichiarata di un dialogo fra Nord e Sud. Di conseguenza, con quest’esperienza l’America Latina viene a pieno titolo riconosciuta come una realtà postcoloniale, nonostante le pur significative differenze che la distanziano da altre realtà postcoloniali, come quelle rispetto alle quali gli studi postcoloniali in prima battuta andarono articolandosi. Lo stesso non accade, tuttavia, con gli studi decoloniali. Infatti, se il rapporto fra teoria postcoloniale e America Latina, dopo che l’assenza della seconda dall’orizzonte teorico della prima è stata indicata e persino colmata, con il lavoro dei “Latin American Subaltern Studies” e, anche in seguito, con interventi che, da una prospettiva postcoloniale, si sono concentrati sulle categorie del colonialismo, dell’anticolonialismo e del postcolonialismo sudamericano (si vedano per esempio i lavori di Fernando Coronil 2000; 2015), successivamente gli studi decoloniali si sono concentrati su quest’area geografica, elaborando però un’agenda di ricerca e una metodologia ben diverse da quelle assunte dagli studi subalterni e postcoloniali latinoamericani. Gli studi decoloniali, infatti, hanno voluto fare dell’America Latina il punto prospettico privilegiato per analizzare il “sistema-mondo coloniale moderno” e mettere a punto la prospettiva decoloniale, con questo muovendo serie critiche agli studi postcoloniali: innanzitutto, retrodatando cronologicamente il colonialismo con la conquista europea delle Americhe nella prima età moderna e, in questo modo, teorizzando un complessivo “sistema-mondo coloniale moderno”, che precede cronologicamente ed eccede analiticamente i casi empirici su cui si concentrano gli studi postcoloniali, rivelando quindi in questi una sostanziale mancanza. Rispetto al passaggio dagli studi subalterni latinoamericani agli studi decoloniali, è da segnalare come alcuni studiosi, come ad esempio Walter Mignolo, abbiano partecipato di entrambi: già nel corso dell’esperienza degli studi subalterni latinoamericani (specificamente, in Mignolo 2001), Mignolo ha iniziato a mettere a punto, in modo polemico rispetto a Guha, alcune nozioni che costituiranno poi elementi forti della sua prospettiva decoloniale, come quella, di cui si dirà più avanti, di “colonialità del potere”, nonché la stessa nozione di subalternità, che tuttavia lui declina in modo piuttosto diverso dalla teorizzazione che ne è stata fatta in seno agli studi subalterni indiani e, soprattutto, da parte di Spivak.
[NOTE]
7 Tuttavia, l’uso delle categorie gramsciane da parte dei Subaltern Studies indiani è stato anche sottoposto a una critica di mal interpretazione: si veda Green (2002).
8 Quella di “travelling theory” è una nozione sviluppata da Edward Said nel corso di due testi, “Travelling theory” (1982) e “Travelling theory reconsidered” (1994), di cui il secondo riprende il primo per svilupparlo e tornare a riflettere sulla questione lì posta: cfr. Said (2000; 2008). In questi testi, Said indaga la circostanza per cui le teorie, al pari delle persone e degli oggetti, viaggiano e, viaggiando, necessariamente incorrono in trasformazioni, adattamenti, resistenze, addomesticamenti, che ne sfidano il dogmatismo adattando la teoria a un contesto e uno scenario nuovo, imprevisto nel contesto di formulazione originario della teoria stessa. Il viaggio delle teorie, infatti, necessariamente avviene con modi ed esiti non prevedibili dalla teoria originalmente formulata, rappresentando quindi una sfida alla chiusura dogmatica delle teorie (Said 2000: 210), mostrando l’impossibilità che queste racchiudano in sé, in nuce, tutte le loro possibili applicazioni (Said 2000: 210), e sfidando quindi la convinzione ossificante che una teoria insorgente rimarrà sempre tale (Said 2000: 216). In entrambi i testi, Said prende come esempio la teoria della reificazione e della coscienza di classe di Lukács, mostrando come essa, più che venire recuperata o recepita, viaggiò, adattandosi e subendo necessarie trasformazioni contestuali, nel pensiero di Goldmann e di Williams (Said 2000), di Adorno e di Fanon (Said 2008). Mentre però, nel primo testo, Said insiste sui processi di addomesticamento della teoria, ovvero il suo perdere il carattere insurrezionale e rivoluzionario, nel secondo egli si concentra su “un diverso modo di spostarsi” della teoria, nei termini di una “dislocazione inedita” che la fa “teoria trasgressiva”: “qualcosa che attraversa e contemporaneamente sfida l’idea stessa di una teoria che, muovendo da una dura contraddizione, approda alla promessa di una qualche forma di redenzione” (Said 2008: 491). Questo secondo caso è presente nel pensiero di Fanon, in cui la teoria del rapporto soggetto-oggetto di Lukács viaggia nel contesto della rivoluzione algerina per farsi qualcosa di diverso, una teoria ancora più trasgressiva e rivoluzionaria, incapace di redenzione e conciliazione. Fondamentale al concetto di “travelling theory” è il senso spaziale dello spostamento, l’urgenza di misurare la distanza e la localizzazione fisica delle teorie, per comprenderne le trasformazioni e gli usi antidogmatici. In questo, il concetto di “travelling theory” rappresenta, inoltre, un importante momento di riflessione spaziale del postcolonialismo, che il progetto dei Latin American Subaltern Studies recepisce appieno al momento di traghettare gli studi subalterni in un nuovo contesto, appunto come una travelling theory.
Isabella D’Angelo, Spazi postcoloniali: dislocazioni, diaspore, cartografie, Tesi di Dottorato, Alma Mater Studiorum Università di Bologna, 2023