Siamo così restituiti di colpo al livello della poesia


1. «A Eugenio Montale / dal suo fedele / Giorgio Orelli / Milano, aprile ’77»: la dedica si legge sull’esemplare di Sinopie conservato tra i libri di Montale, nel fondo a lui intestato presso la Biblioteca Sormani di Milano. È una traccia minima ma significativa, perché colloca la relazione di Orelli con il più anziano “maestro” all’insegna di una fedeltà discreta e insieme allusiva. “Fedeltà” è infatti un campo semantico centrale nella poesia del Montale maggiore – quello più caro a Orelli e più influente per la sua generazione – specialmente tra Occasioni (il «gorgo / di fedeltà, immortale» del secondo mottetto; «la fedeltà che non muta» in Tempi di Bellosguardo, II) e Bufera (il «latrato / di fedeltà» dell’Arca; e poi, quasi a sigillare il “canzoniere” del Montale tragico, la «fede che fu combattuta» testimoniata dal segno dell’«iride», in Piccolo testamento).
D’altra parte, il richiamo alla fedeltà può implicare il dialogo tra Montale e un altro maestro di Orelli, il Contini di Una lunga fedeltà (Einaudi, Torino 1974). Orelli stesso ha testimoniato quanto il poeta di Mottetti e Finisterre e il filologo romanzo fossero legati nella memoria del suo apprendistato: «All’università capitava che Contini levasse di tasca inediti del grande poeta e me li facesse leggere. Ebbi più d’una “mamma”, più d’una “nutrice”, ma in Montale sentivo rivivere l’oggetto con un che d’elettrico che non trovavo in nessun altro poeta contemporaneo». Dal canto suo Montale, scrivendo delle Poesie scelte di Goethe in una Lettura del 1957, ne lodava il traduttore Giorgio Orelli, definendolo «poeta tra i migliori della nuova generazione» (riferendosi, beninteso, non «ai soli poeti ticinesi»).
Per entrambi – Contini e Orelli – la fedeltà a Montale è stata un’inclinazione non solo critico-letteraria o filologica, ma anche personale (per il primo) e soprattutto poetica (per il secondo). Cercherò qui appunto di illustrare le forme e i modi in cui la lettura di Montale può aver inciso sulla poesia di Orelli, lasciando tracce più o meno marcate di un’influenza abbastanza costante nel tempo: dalla prima stagione di Né bianco né viola (1944), plaquette uscita nella medesima “Collana di Lugano” di Pino Bernasconi in cui, un anno prima, era apparsa Finisterre; al consuntivo dell’autoantologia L’ora del tempo (1962); fino a Sinopie e, in forme ormai autonome e peculiari, ai libri successivi, passando anche attraverso la critica verbale esercitata negli Accertamenti montaliani (1984) e nei molti interventi critici dedicati a Montale nel corso dei decenni.
2. «In Montale sentivo rivivere l’oggetto», ha scritto Orelli. E proprio la “vita” dell’oggetto nella poesia orelliana è quanto si richiama più fortemente al magistero montaliano. Come già per il poeta delle Occasioni, infatti, in Orelli gli oggetti nominati valgono non tanto o non solo come proiezione di un io turbato, che riversa nel simbolo la partecipazione a uno stato emotivo; quanto come elemento di una realtà effettivamente esperita, riconosciuta e resa esprimibile in poesia anche attraverso l’esempio di Montale. La verbalizzazione dell’oggetto è forse l’aspetto più generale ma anche più decisivo dell’influenza montaliana sul primo Orelli; un’influenza che non si misura solo in base alle pur numerose tessere intertestuali prelevate dai versi di Montale, ma che ha una portata stilistica più generale (intendendo per “stile” anche un atteggiamento conoscitivo che qualifica il nesso tra oggetto e parola). Quest’atteggiamento consiste nel percepire l’unità significativa dei fenomeni con l’io, senza subordinare simbolisticamente gli uni all’altro ma coordinandoli e accostandoli come per metonimia. Anzi, è stato notato che il soggetto orelliano non soltanto osserva quelle presenze oggettive, ma è come se ne fosse osservato di rimando; ciò obbliga, specialmente nei versi più maturi, a rinegoziare la posizione dell’io lirico rispetto alle cose. In questo risiede peraltro una fondamentale differenza rispetto a Pascoli, che pure senza dubbio rappresenta un punto di riferimento di Orelli, quanto a lessico e situazioni d’ambiente, nonché un oggetto privilegiato di «rimemorazione inconscia»; si deve però tener presente che il pascolismo di Orelli è «sostanzialmente filtrato attraverso Montale», dal quale parte il suo percorso di attraversamento à rebours della tradizione, fino a Dante e Petrarca.
Il trattamento dell’oggetto da parte del primo Orelli si basa su un processo di surdeterminazione, simile alla tecnica di certi Mottetti, come «Il saliscendi bianco e nero…» («Già profuma il sambuco fitto su / lo sterrato; il piovasco si dilegua»), a cui accostare, ne L’ora del tempo, versi e immagini come:
La cote è nel suo corno.
Il pollaio s’appoggia al suo sambuco
(Nel cerchio familiare)
Neve rappresa ai cigli delle case,
nell’orto il sambuco in gramaglie.
(Prima dell’anno nuovo)
In questi esempi, il contatto è accreditato anche dall’identità di un referente come la pianta del sambuco, che ricorre in diversi luoghi dell’opera di Orelli, almeno fino ai versi di A Lucia, poco oltre i tre anni (in Sinopie) dove viene quasi tematizzato («“Questo odore è del sambuco.” “Del san cosa?”»): passaggio emblematico per cogliere l’evoluzione tra il giovane Orelli e il poeta maturo che rielabora i propri motivi.
A sua volta, la surdeterminazione dell’oggetto fa sistema, nel primo Orelli, con un altro elemento decisivo della poetica montaliana, il modulo epifanico attraverso cui si realizza la conoscenza intuitiva o piuttosto il presentimento euforico avvertito dal soggetto. I versi di Lo stagno (confluiti in L’ora del tempo) sembrano tra i meglio implicati nella dinamica dell’occasione di ascendenza montaliana:
Se torna il tempo della primavera,
come un compianto sale dallo stagno
dove incupisce nel suo verde il pino
e un sole silvestre s’avvera.
Il mio cielo! che a un tratto il picchio fruga;
spare dirotto: n’esulta il turchino.
Oh non schivare di specchiarti, cara.
Qui, peraltro, non solo la struttura concettuale ma anche quella retorica-sintattica aderisce alle formulazioni montaliane: per esempio nell’uso della frase condizionale, con sfumatura per lo più temporale, la cui «variabilità di posizione […] è uno tra i fenomeni più tipici dello stile montaliano». Frequente e marcato nell’Opera in versi (l’occorrenza più emblematica è forse nel nono mottetto: «Il ramarro, se scocca / sotto la grande fersa / dalle stoppie»), lo stilema sintattico è adottato volentieri da Orelli; oltre che Lo stagno, si può citare A un giovane poeta cacciatore (ancora in L’ora del tempo), dove le due frasi condizionali si succedono giustapposte, senza l’adempimento di una principale, rimandata (si considerino i punti finali di sospensione) e di fatto assente – un tratto anche questo che deriva da una forma sintattica montaliana, quella che consiste appunto nel ritardare o eludere la reggente (come, nella Bufera e nell’Anguilla, testo emblematico caro e presente a Orelli):
Ma se lo scoiattolo muore
con la nocciuola in bocca e lo raggiunge
nel folto del mattino un sole
come appena risorto, accendendolo
un attimo che durerà non meno d’un rimorso
(non un filo di sangue, e quel trambusto
per cui ti volgi invano, e, di là, nella radura,
quelle palate, non d’uccelli); se quella che ti passa accanto
nel silenzio che succede allo sparo,
non sai di chi nel calanco,
pernice troppo pesa, ferita,
che precipita sì che tu la vedi
scendere vicinissima in un vuoto
concesso dalle pietre, zampettare, tacere…
Risonanze montaliane, nei versi citati da Lo stagno, producono infine la sequenza trimembre di frasi brevi «a un tratto il picchio fruga; / spare dirotto: n’esulta il turchino», da confrontare ad esempio, anche per la forma verbale («spare»), con il finale dell’osso breve «Il canneto rispunta i suoi cimelli…»: «e però tutto divaga / dal suo solco, dirupa, spare in bruma»[…]
Niccolò Scaffai, Un’altra fedeltà: Orelli e Montale, in Giorgio Orelli e il “lavoro” sulla parola, Atti del convegno internazionale di studi, Bellinzona 13-15 novembre 2014, a cura di Massimo Danzi e Liliana Orlando, Interlinea, 2015

Nata nel 1979, la rivista «Bloc Notes» è giunta ai suoi 35 anni di vita: un’età ragguardevole per una rivista. Nel Ticino, solo «Cenobio», di una generazione più antica, ha maggiori titoli nell’ambito della letteratura. Il numero in questione, 64 del 2014, importa per il «dossier», di poco più di 100 pagine, dedicato a Giorgio Orelli scomparso a novantadue anni il 10 novembre 2013.
La vita delle riviste, mai facile, impone sempre più, anche da noi, di organizzare tematicamente i numeri, facendo del «dossier» un valore aggiunto. E dossiers sono stati, negli anni, dedicati a Giovanni Bonalumi (46), Giorgio Bassani (60), Remo Fasani (61) o Robert Walser. Nel caso di Orelli, questo «dossier» cristallizza, tuttavia, frammenti di un discorso critico sul poeta, che mostra di essere ben vivo, a beneficio di tutti. Si tratta di 13 interventi, che uniscono lettori di tre generazioni: dai più giovani Sveva Frigerio e Yari Bernasconi al decano Giovanni Orelli, passando per la generazione che è quella di Pedroni e De Marchi. Una continuità di interessi, attraverso le generazioni, per un poeta che, oltre a esserci caro, è anche soprattutto l’ultimo grande testimone di un Novecento poetico italiano. Coetaneo di Andrea Zanzotto, che come lui è del ’21, Orelli gli è sopravvissuto di un decennio.
Jean-Jacques Marchand, che ha riunito gli interventi, ricorda in apertura la stagione particolarmente felice e promettente che visse il Ticino al tempo dell’esordio di Orelli, grazie alla presenza di uomini come Pino Bernasconi e Giovan Battista Angioletti, animatore l’uno della «Collana di Lugano», che nel ’44 di Orelli pubblica Né bianco né viola (immediatamente accanto a Finisterre di Montale e Ultime cose di Saba, per non fare che due nomi dei più noti), l’altro di un attivo «Circolo italiano di lettura».
[…] L’unità tematica di questo dossier di «Bloc notes» non fa passare inosservata la diversità degli ambiti toccati né la varia formazione dei suoi protagonisti. Non siamo di fronte a un libro unius auctoris, ma a 13 accessi diversi all’opera. Tenterò dunque di parlare di ognuno, mediando tra la specificità degli interventi e le ragioni dell’opera di Orelli, che nei quattro ambiti detti risulta da settant’anni di «lavoro» appassionato (1944-2013).
Letture di testi poetici danno qui Yari Bernasconi, Flavio Medici, Pier Vincenzo Mengaldo e Aldo Menichetti. Bernasconi, addottoratosi a Friborgo sotto la guida di Alessandro Martini proprio sull’Ora del tempo di Orelli (1962), lavora al commento della raccolta. Nel frattempo ha pubblicato L’abbecedario, sorta di intervista proposta al poeta su singoli temi e parole. L’analisi che propone della poesia Nel dopopioggia procede cogliendo echi da Montale (è il titolo di una poesia nel suo tardo Quaderno di quattro anni), Leopardi (che sul ‘dopopioggia’ ha un celebre canto pisano-recanatese), ma anche sottolineando la distanza di Orelli da quelle visioni del mondo. Anche con Sereni, che pur usa quel raro sintagma (aggiungo che lo inaugura Montale negli Ossi, lo riceve il poeta di Frontiera e lo ritrovo in Orelli che scrive su Ubaldo Monico il 4 novembre 1950), è rilevata la distanza. Sul demone dell’analogia trionfa dunque la differenza, su cui si fa storia altrettanto. Uno dei tratti peculiari della poesia di Orelli è, certo, l’inserzione di citazioni letterarie o dotte entro una lingua invece, fino a quel punto, altra e più comune. In Dopopioggia ciò accade trasferendo a una suora un verso che, nel Paradiso di Dante, definiva il personaggio di Catone: come dire da un antico pagano, per di più suicida (ma Dante lo ammira tanto da collocarlo in paradiso), al suo contrario.
[…] Studioso di medioevo romanzo, amico di Giorgio da sempre, Menichetti segue il filo del contrafactum anche in altre poesie di Orelli. Ricordo qui solo quella che inizia: «Se Pippo amico sei tu che mi leggi» e si dipana nei modi del saluto epistolare, con evidente parodia del tema stilnovistico dell’amicizia, che in Orelli si fa invece scherzo familiare e giocoso con un bimbo, di stanza a Semione in Val di Blenio. Cosicché la memoria (e Orelli è certamente anche un poeta della «memoria») si decanta oltre che per verba nel ritmo stesso del verso, che per Orelli (lo ha costantemente ripetuto) è, della poesia, il fattore capitale.
Al proposito, non mi pare abbastanza sottolineata in questo «dossier», e mi piace ricordarla, una bella definizione di ritmo che Orelli ci regala fin dai primi Accertamenti verbali del 1984, e che reclama l’insufficienza di un’anamnesi puramente accentuativa invocando l’implicazione della materia fonica del verso. Così leggo, brevemente, a proposito della celebre poesia di Montale, intitolata L’upupa: «A livello lessicale ci balzano incontro alcune parole che, mentre documentano la fedeltà di Montale ai «poeti conosciuti» […], assumono un ruolo semanticamente ricco generando con la loro particolare struttura morfo-fonematica (in stretta connessione, non si dimentichi, con il ritmo) una tensione che non è soltanto vagamente suggestiva e pittoresca, bensì profondamente drammatica» (Accertamenti, p. 177). La parentesi importa, qui, più del resto. Il ritmo è, dunque, per Orelli non solo dialogo costruito sulla «sottile rete di relazioni reciproche» generata dagli elementi che formano il testo, maproprio «varia corrispondenza di accento e struttura morfofonematica del verso» (ibid. p. 111).
Ritmo, insomma, come sistema accentuativo che solo può cogliersi in unione alla materia verbale (appunto «fonico-ritmica») su cui si esercita.
Gli interventi di Aurelio Buletti e Alberto Nessi ci aiutano a trascorrere dalle ragioni della critica a quelle della scrittura. Buletti, che conosciamo per la verve familiare surrealistica delle prose, affida l’omaggio all’amico a un sonetto bellissimo. La sua è una preghiera rivolta a San Pietro, perché accolga il poeta in Paradiso, senza vessarlo con inutili liturgie. Connaturata al genere, è la richiesta di intercessione: possa finalmente il poeta conoscere il nome di colui che, di quando in quando, lo fermava per chiedergli della moglie di Dante, allusione alla poesia di Sinopie analizzata da Mengaldo e che così iniziava: «Ce n’è uno, si chiama credo Marzio, / ogni due o tre anni mi ferma che passo / adagio, in bicicletta, dal marciapiede mi chiede / se Dante era sposato e come si chiamava sua moglie».
[…] Alla fine, il titolo de Il collo dell’anitra appare per quello che è: certamente fuori dal comune, ma fortemente radicato in una memoria familiare. Quasi, insomma, un estremo ricupero di un rapporto che, diversamente da quello materno, appariva increspato nei racconti. L’immagine apre anche altre prospettive, perché Pedroni dimostra che essa – con le striature che sono sue – è per il poeta emblema di «espressività» linguistica: colora di sé – ci dice Orelli – la definizione della stessa espressività dantesca.
«Non posso aprire il Canzoniere – si legge nel libro su Petrarca – senza toccarvi la viva presenza di Dante, il merito del suo linguaggio, il collo dell’anitra della sua espressività» (p. 131: mio il corsivo). È immagine densa, che va spiegata. In natura, il «collo dell’anitra» costituisce infatti una sorta di equivalente cromatico (l’analogo di un ‘correlativo oggettivo’) del concetto per Mallarmé alla base del ‘proprio’ del linguaggio poetico di «transition / transmutation» (lettera a F. Coppée del 5 dicembre 1866: cit. in Il suono dei sospiri, p. 19 n. 15).
Siamo così restituiti di colpo al livello della poesia.
L’«anitra» di Dante trionfa sull’«anima» e, per via di parodia, segna il ricupero dell’immagine paterna.
Anche Alberto Roncaccia, Sveva Frigerio e Georges Güntert affrontano aspetti del metodo critico di Orelli. Roncaccia ci trasferisce entro il quadro più ampio delle dottrine linguistiche novecentesche, sottolineando la distanza di Orelli dai formalisti russi e dagli strutturalisti sulla questione, per lui centrale, del «giudizio di valore». Lontano anche dalle preoccupazioni che furono di due importanti esponenti del circolo di Praga, Trubezkoy e Jakobson (ma per quest’ultimo le cose andrebbero, a mio avviso, attenuate), Roncaccia segnala l’importanza per Orelli del polacco Jean Baudoin de Courtenay, esponente della slavistica tra Otto e Novecento e precursore (morì nel ’29), con le sue teorie, di quel circolo. Può darsi. Certo quel nome, diversamente per esempio da un Tynyanov (presentissimo a Orelli con i suoi scritti sul ritmo del verso: a partire da Il problema del linguaggio poetico, Milano Il Saggiatore, 1968) o da un Lotmann, non compare mai negli scritti di Orelli. Che invece sottolinea spesso l’importanza, per esempio, di un Sapir (o su altro piano di un Northrop Frye o di un Fonagy) per l’idea che la poesia attualizzi e elevi le potenzialità insite nel linguaggio naturale (una teoria, del resto, che sarà anche dei praghesi). Ma è poi, credo, soprattutto la linea francese che andrebbe ricordata: quella che dai Projets de préface di Baudelaire giunge al Mallarmé dei Mots anglais e al Valéry dei Cahiers e dei Variétés, due autori carissimi anche a Contini ma da Orelli fatti propri in modo diverso. Il discorso è complesso e richiederebbe uno spazio opportuno […]
Massimo Danzi, A proposito di un «dossier» su Giorgio Orelli (con qualche spunto interpretativo), Quaderni grigionitaliani 84 (2016/1)

Ne L’ora del tempo, dicevamo, la presenza di Montale, e in particolare del suo lessico (spesso già dantesco), è continua: le «squarciate risa» (Vigna) sembrano ricordare le «ore / bige e squarciate» di Delta; il «dirocca» di Colgo questo paese è già in Falsetto; le «lepri» di cui «restano dell’orgia/ silenziosa i discreti disegni» (Carnevale a Prato Leventina) ricordano la «danza di conigli» di «Ma dove cercare la tomba»; il «muso aguzzo» del Frammento della martora è già binomio montaliano, con i «musi aguzzi» de L’arca; se in Di gennaio «la banderuola non si muove più», ne La casa dei doganieri «la banderuola / affumicata gira senza pietà»; in La trottola, il «primo lampo» e il «primo tuono» esplicitano l’allegoria montaliana della «bufera» <85; «Ma qui la neve orma alcuna non serba» (Natale 1944) sembra il verso gemello – con la neve opposta a nerofumo e orma quasi anagramma di ombra – dell’incipit de Gli orecchini, dove «Non serba ombra di voli il nerofumo/ della spera»; il primo verso de Il viaggio, «Bastano pochi minuti», ricorda «bastano pochi stocchi d’erbaspada» di «Riviere»; il sostantivo «dopopioggia», che troviamo in un titolo orelliano (Nel dopopioggia), è invenzione di Montale, in Delta; i «prati intirizziti» di Nel cerchio familiare sono «nel Montale di Farfalla di Dinard, nel libro eponimo» <86; l’«acetilene» di Prima dell’anno nuovo è anche in Arsenio; e, per finire, a proposito dei versi «E te ne meravigli? Si districa nel turbine/ di foglie la vecchina, porta il suo secchio colmo» (in «Se fai come il vecchio sartore, vedi»), possono dirsi montaliani sia «districa» che «turbine» (pensando per il primo a Clivo e per il secondo a L’arca), anche perché il «secchio colmo» pure ricorda Montale con «Trema un ricordo nel ricolmo secchio» («Cigola la carrucola del pozzo»).
In altri casi il rapporto è più profondo, ma mai di completa adesione; anzi, anche nei testi dove le premesse paiono simili, lo svolgimento e l’epilogo prendono strade diverse, se non opposte. Ne Il lago, per esempio, la chiusa «Io ti guardo da prua» sembra il rovesciamento della chiusa di Falsetto di Montale: «Ti guardiamo noi, della razza / di chi rimane a terra»; e se in Falsetto chi scrive è estraneo alla vitalità di Esterina e deve trovare una nuova voce per scriverne, qui Orelli e la sua poesia aderiscono invece naturalmente al mondo circostante <87. Oppure L’estate, che ri­ porta subito all’omonima poesia de Le occasioni, ma che ne è anche immediata­ mente in netta contrapposizione, con il suo quadro naturale pacifico e protetto, in cui animali e uomini si fondono serenamente. Ne L’estate montaliana, per esempio, l’instabilità negativa del «filo teso / del ragno su la spuma che ribolle» viene riproposta in chiave positiva da Orelli, per il quale «Ansia non c’è/ nella fatica dei contadini, / ma solo una speranza, tesa, com’è del filo / a sbalzo, quando un tronco scende»; e poi, allargando lo sguardo ad altri componimenti montaliani, la «dolce conca dove l’erba / s’arrende al taglio netto della falce / e più verde s’adagia» di Orelli sembra dare una nuova aria al categorico «taglio netto che recide» di Crisalide.
Da Eugenio Montale a Mario Luzi, la cui presenza è meno evidente, ma non per questo (come abbiamo letto) meno importante. Basterebbe pensare al fondamentale sintagma luziano «né giovane né vecchio», di cui abbiamo già discorso <88. Ne L’ora del tempo si trovano comunque altri dialoghi a distanza tra Orelli e Luzi. Tra questi, in Sera a Bedretto, «Le capre, giunte quasi sulla soglia/ dell’osteria» ricor­ dano il passaggio «si fermano le capre / umanamente al ciglio dei torrenti» (in Terra); il primo emistichio del secondo verso di Carnevale a Prato Leventina, «senza un grido né un volo», sembra il calco del secondo (e terzo) verso di Memoria di Fi­ renze, «Senza un grido / né un sorriso»; l’aggettivo «infingardi» di Dove i ragazzi ammazzano il gennaio è già in Luzi, in Già colgono i neri fiori dell’Ade; l’attacco di Dicembre a Prato, «Fruga il sole, che cosa non riaccende!», sembra ispirato da «fruga il sole i cespugli e le colonne» (in Terra); l’«issopo», da ultimo, citato in Prima dell’anno nuovo direttamente dal Miserere, è anche in A te più giovane («il succedersi in casa delle serve/ e in Padova il variare dell’issopo»).
Molte altre le intertestualità esterne che s’incontrano ne L’ora del tempo: in particolare da Saba (altra presenza fondamentale) e Cardarelli a Penna e Sereni, con alcune tessere ungarettiane (le «fiduciose mani» in La trottola, per esempio). Ma – fatte le debite eccezioni – pare trattarsi di incontri perlopiù fortuiti, incroci promossi da luoghi e sensibilità comuni.
85 Possiamo immaginare che Finisterre di Montale – apparso nella Collana di Lugano nel 1943, quindi un anno prima che vi uscisse Né bianco né viola – abbia goduto di grandissime attenzioni da parte di Orelli.
86 Massimo Danzi, Esegesi e memoria di sé…, p. 93.
87 Da notare che, restando a Il lago e Falsetto, c’è anche l’incontro tra il montaliano «t’avviluppano andate primavere» e gli orelliani «baccelli di morte primavere» che «non si sfanno».
88 Nei capitoletti Le stagioni e le sezioni del libro (p. V) e Le varianti (p. XVI).
Yari Bernasconi di Ligornetto, Giorgio Orelli. L’ora del tempo. Edizione e commento, Tesi di laurea, Università di Friburgo (Svizzera), 2013