
Lo scandalo SIFAR
I fascicoli SIFAR ebbero un ruolo fondamentale per la conquista del potere di Gelli e della P2. Questi furono ordinati del generale Giovanni De Lorenzo nel corso del suo direttorato del SIFAR tra il ’55 e il ’63. Lo stesso De Lorenzo ottenne l’incarico su nomina dell’allora Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi, per bilanciare l’orientamento istituzionale che in quel momento stava spostando gli equilibri politici verso sinistra. Inizialmente vennero stese schedature di ogni singolo parlamentare, per poi estendere l’attività a sindacalisti, industriali, dirigenti di partito, intellettuali, uomini religiosi e d’affari e soprattutto militari, raccogliendo informazioni circa le frequentazioni pubbliche e private, amicizie e preferenze politiche. Si stimarono all’incirca più di 150.000 fascicoli, scoperti dalla magistratura durante l’inchiesta sui fatti di giugno-luglio del 1964 e, durante l’inchiesta parlamentare sul Piano Solo, se ne decise l’illegittimità e la conseguente distruzione. L’inchiesta guidata dall’onorevole democristiano Giuseppe Alessi assegnò questo compito all’allora ministro della Difesa Giulio Andreotti <43.
Il dibattito della commissione si concentrava sul possibile utilizzo di questi fascicoli, si sospettò che fosse «finalizzata ad evidenti intenti ricattatorii, sia nelle illegittime modalità di esecuzione, sia nell’intenzionale travisamento dei fatti preordinato al raggiungimento di conclusioni quanto più svantaggiose per il vigilato». <44 L’evento più rappresentativo del potere di questi fascicoli fu la capacità di riuscire a manovrare addirittura l’elezione del Presidente della Repubblica Mario Segni, con una campagna diffamatoria nei confronti del rivale Giovanni Leone, basata totalmente su informazioni personali del futuro Presidente e della sua famiglia <45. In alcuni casi, però, questi dossier furono utilizzati in modo benefico, riuscendo a scovare gli inclinamenti eversivi di alcuni soggetti pericolosi che avrebbero potuto influenzare i destini e le quotidianità dello Stato, primi fra tutti alcuni esponenti della “Federazione anarchica italiana”.
Il caso SIFAR, come denominato da “l’Espresso”, mise a nudo il funzionamento marcio dei servizi italiani, i loro obiettivi e gli strumenti utilizzati. Allavena fu il cavallo di Troia e alla sua uscita di scena dal SIFAR rimosse alcuni fascicoli e li consegnò a Gelli che, grazie a questi, mantenne un potere spropositato nei confronti del successivo SID e riuscì a controllare dall’alto, generali e direttori, uno fra tutti il già citato Vito Miceli, senza intermediari. Lo scandalo SIFAR sollevò polemiche sterili, ferme alla sola apparenza, che vennero calmate con la cacciata di esponenti considerati a rischio ma, non si affrontò il reale problema: l’estirpazione del male che affliggeva la struttura stessa dei servizi, troppo delicata e composta da uomini che la utilizzavano come strumento per i propri bisogni. Pur cambiando pelle il SID mantenne l’ossatura marcia del SIFAR e continuò sulla strada solcata in precedenza <46. La collaborazione tra i servizi e la loggia diede vita, nel corso degli anni, a colpi di Stato e centinaia di attentati, sfruttando come esecutori materiali i gruppi neofascisti, con l’obiettivo di incolpare il mondo extraparlamentare di sinistra.
Dal golpe Borghese alla strage di Bologna
La stagione delle stragi e dei tentativi eversivi prese il via con la crisi dell’esperienza dei governi di centrosinistra. L’instabilità politica era evidente: 5 crisi di governo dall’estate del ’68 a quella del ’70 <47. A calcare ancora di più la paura della società civile furono le dimissioni di Rumor, che lasciò la Presidenza del Consiglio poiché incapace di scongiurare uno sciopero generale e le coalizioni tra PCI e PSI nelle elezioni regionali. Lo scenario era completo: governi allo sbando, società borghese alla ricerca di stabilità e nuclei terroristici pronti all’azione.
Il golpe Borghese
Il golpe Borghese avvenuto nella notte tra il 7 e l’8 dicembre 1970, fu il primo evento eversivo straordinario da quando Licio Gelli assunse la guida della loggia; fu organizzato da Junio Valerio Borghese ex comandante della Decima Mas <48 durante la Repubblica Sociale Italiana, fondatore nel ’68 del “Fronte nazionale”. Borghese ritenne necessaria la costruzione di uno Stato forte, che adottasse un sistema di governo autorevole ed efficiente, a salvaguardia degli interessi nazionali. In politica interna aspirò alla coesione in difesa della legge e della moralità. Per lo sviluppo del suo movimento, Borghese giudicò essenziale l’appoggio delle Forze Armate e il finanziamento da parte di gruppi industriali. Il SID reputò il movimento come soggetto interessante, poiché rappresentava il primo vero tentativo di penetrazione nell’ambiente militare come soluzione all’instabilità politica italiana.
Borghese, infiltrandosi nelle forze armate, parlava lo stesso linguaggio di Gelli, ne condivideva ideali e metodi e molti fedeli del venerabile maestro si trovarono a coprire ruoli chiave nel piano eversivo. Tra tutti il colonnello Lo Vecchio meritevole di aver fatto avvicinare gli alti gradi militari alla causa pidduista e golpista che, nel corso del colpo di Stato, avrebbe preso parte al comando politico dell’operazione. Il Generale Giuseppe Casero, massone e braccio destro di Borghese, avrebbe dovuto scortare il futuro ministro della Difesa Fanali, uomo scelto come il più adatto per prendere in mano le forze armate. Lo stesso Gelli sarebbe dovuto intervenire in prima persona, capeggiando un comando, con il compito di catturare il Presidente della Repubblica Saragat. <49
Il fallimento, maturato nella notte del 7 dicembre causò delusione, rabbia e paura. Lo stesso Gelli fu messo in discussione dalla sua loggia e, per evitare indagini sui “fratelli” in difficoltà, si affidò al suo braccio destro nella magistratura: Carmelo Spagnuolo avoco a sé il processo e lo nascose nei suoi cassetti, bloccando l’inchiesta per mesi e riuscendo a proteggere tutti, tranne gli indifendibili. <50 Degli iniziali 78 imputati, soltanto 46 vennero condannati. Il progetto presidenzialistico di Gelli ripartì trovando terreno fertile in un clima sempre più violento, caratterizzato da un alternarsi di attentati promossi da movimenti eversivi di destra e di sinistra.
L’arsenale di Svolte di Fiungo
Una mattina di novembre 1972 a Svolte di Fiungo, una frazione di Camerino, i carabinieri scovarono un arsenale incredibile: decine di bombe a mano, armi da fuoco, migliaia di pallottole ed esplosivi di vario tipo. Il deposito di armi fu associato all’estremismo di sinistra e in tutta Italia scattarono proteste, manifestazioni e decine di perquisizioni. Furono incriminati tre giovani extraparlamentari e, solo dopo il sequestro delle carte di Gelli, si scoprì che i provocatori, non solo erano ufficiali, ma appartenevano alla loggia P2. Finirono inclusi nello scandalo Vito Miceli, Gianadelio Maledetti, Antonio La Bruna e Giancarlo D’Ovidio <51. Nel ’76 il golpista Stefano Delle Chiaie illustrò il modus operandi del sistema, che puntava ad agitare le masse contro la sinistra extraparlamentare, come avvenne già in precedenza con l’attentato di piazza Fontana. Nella strategia della tensione, la P2 ebbe un ruolo ancora più importante, manovrando gruppi eversivi neofascisti tosco-emiliani <52. La collaborazione tra la loggia e i nuclei extraparlamentari si macchierà di molteplici attentati dinamitardi ferroviari: i neo fascisti svolsero, come di consuetudine, il ruolo di esecutori materiali, i massoni coprirono loro le spalle da qualsiasi stretta giudiziaria.
[NOTE]
43 VI legislatura. “Relazione della VII Commissione Permanente”, Doc. XXXIV n.1. http://legislature.camera.it/_dati/leg06/lavori/stampati/pdf/034_001001.pdf
44 Commissione parlamentare di inchiesta sugli eventi del giugno-luglio 1964. Relazione di minoranza, Roma, 1971. http://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/906935.pdf
45 Messina, Alessio. Come si fa un presidente «la Repubblica», 13 maggio 1999.
46 Ivi.
47 Barberini, Andrea e Pagani, Nazareno, Un’ombra da piazza Fontana a Pecorelli in L’Italia della P2, Mondadori, Milano, 1981.
48 Fu un’unità speciale della Regia Marina italiana, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, il comando passò a Junio Valerio Borghese.
49 IX Legislatura, Commissione parlamentare d’inchiesta sulla loggia massonica P2, documentazione raccolta dalla Commissione, pag. 325. http://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/909728.pdf
50 Barberini, Andrea e Pagani, Nazareno, Un’ombra da piazza Fontana a Pecorelli in L’Italia della P2, Mondadori, Milano, 1981.
51 Ibidem.
52 Ibidem.
Enrico Compalati, L’altra Italia, Tesi di laurea, Università Luiss “Guido Carli”, Anno Accademico 2019-2020

Le armi di Fiungo.
La vicenda delle armi di «Fiungo di Camerino» fu senza dubbio un esempio concreto di strategia di attacco che rientrava all’interno del più ampio piano generale di lotta non ortodossa e di contrasto al comunismo, da attuare con ogni mezzo, lecito e illecito.
La guerra rivoluzionaria, scriveva Giannettini, era «la principale, la più ampia forma di lotta del nostro tempo» <152. Essa doveva mobilitare costantemente le masse, fino a che nemmeno il nemico più forte sarebbe stato in grado di fermarle. Lo scopo della guerra rivoluzionaria era la conquista delle popolazioni: «si trattava non tanto di annientare i nemici, quanto il loro coraggio» <153, con ogni mezzo. Quindi, era necessaria una costante ed incessante azione di denuncia politica, al cui proposito Angelo Ventrone dice: “il ricorso alla propaganda e alla stampa doveva contribuire a costituire una sorta di gigantesco mantice capace di attizzare ogni scintilla della lotta di classe e dell’indignazione popolare per farne divampare un immenso incendio. L’obiettivo era quello di indebolire il nemico facendo sorgere nei suoi confronti dubbi, ostilità e sfiducia” <154.
Giannettini nel suo scritto “Tecniche della guerra rivoluzionaria” indicava chiaramente come organizzare una campagna di guerra non ortodossa suddivisa in quattro fasi: preparazione, propaganda, infiltrazione ed azione. Tali fasi furono distinguibili in tutta la vicenda delle Armi di Fiungo, che fu senza dubbio un’operazione da manuale di guerra rivoluzionaria.
Quell’operazione grazie alle risultanze emerse, nonostante non ci siano state condanne definitive, è sostenibile ritenere che fu pensata e realizzata dai servizi segreti italiani e dal personale dei carabinieri. L’azione andò oltre l’illegalità in quanto si sarebbe configurata come una meditata provocazione, concretizzata attraverso una massiccia campagna mediatica, denigratoria e giudiziaria.
[NOTE]
152 Guido Giannettini, Tecniche della Guerra Rivoluzionaria, cit., p. 9
153 Ivi, p. 12
154 Angelo Ventrone, La strategia della paura, cit., p. 68
Maurizio Petrocchi, Da Mario Moretti a Patrizio Peci: storia delle Brigate Rosse marchigiane, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Macerata, 2023