Scialoja poeta del nonsense

 

Tralasciando le prove giovanili degli anni del ginnasio o immediatamente successive, Toti Scialoja comincia a scrivere le sue poesie-filastrocche ispirate ai nonsense verses di Edward Lear e Lewis Carroll durante il soggiorno parigino degli anni 1961-1963. È dalla capitale francese, infatti che l’artista romano indirizza al nipotino James (e, più tardi, alle nipoti Barbara e Alice Drudi) lettere ricche di versi giocosi e scioglilingua, accompagnati spesso da gustosi disegni alla maniera dei limericks e delle poesie nonsensiche di tradizione anglosassone.
In tutto, tra il 1961 e il 1969, Scialoja scrive 53 «poesie con animali», che, nate per divertire i bambini, furono subito apprezzate anche da lettori adulti (Calvino, in particolare, ne lodò l’eccezionale «forza comunicativa»).
Nel 1971 Scialoja riunisce questi versi nella raccolta Amato topino caro, edita da Bompiani, cui seguiranno negli anni successivi: Una vespa! Che spavento (Einaudi, 1975), La stanza, la stizza l’astuzia (Cooperativa scrittori, 1976), Ghiro ghiro tonto (Stampatori, 1979), La mela di Amleto (Garzanti, 1984), Tre lievi levrieri (l’Attico, 1985).
Questi volumi raccolgono l’intera produzione nonsensica di Scialoja, confluita nel 1989 nel volume mondadoriano Versi del senso perso (ristampato da Einaudi nel 2009).
Si tratta di poesie brevi, nelle quali il gioco insistito delle rime, delle allitterazioni, delle consonanze e assonanze, delle parole spezzate, ribaltate, anagrammate creano «paesaggi di parole», popolati da topi, zanzare, lepri, tartarughe, corvi, rinoceronti, marmotte, ecc.: animali che parlano, danzano, mangiano, dormono, animati dagli stessi comportamenti, vizi e virtù degli uomini.
Vi è la lumaca pigra («Batte la fiacca, a Cuma, una lumaca; / consuma la giornata sull’amàca, VSP, p. 11), l’ape apatica («Se l’ape apatica / posa una natica / sul fior del cardo / diventa un dardo», ivi, p. 19), il «micio d’agosto / che dorme / di gusto / su un cencio / all’ombra / di un busto / del Pincio» (ivi, p. 59), e addirittura dei pesci rossi che «piccoli e grossi / son tutti rosi / dalla nevrosi» (ivi, p. 97).
Ad ogni bestiola è associato il nome di una nazione, di una città, di una piccola località, nomi scelti dal poeta solo per la loro particolare sonorità e dunque per salvaguardare il gioco fonico e ritmico dei versi.
Ecco allora i topi alle Termopili, le marmotte sul Mar Morto, le cimici in Cina o a Micene, la triglia di Marsiglia, il mastino ad Asti, ecc., ecc.
Come ha giustamente rilevato Anatole Pierre Fuksas «la localizzazione geografica dell’animale» è decisamente «incongrua dal punto di vista zoologico, ma certamente pertinente da quello poetico». <1
Non solo i luoghi, ma anche gli atteggiamenti, i sentimenti e le azioni degli animali sono dettati dalla fonetica del nome, come nel caso della «sarta tartaruga»:
Questa sarta tartaruga
Fa modelli in cartasuga,
sotto gli occhi a qualche ruga
con due foglie di lattuga
se le bagna, se le asciuga,
ma non sogna che la fuga.
(VSP, p. 8)
o anche della «savia salamandra»:
Siede sola in una sala
Dove regna la penombra
Una savia salamandra:
sogna il sole e si consola
infilando chicchi d’ambra
(ivi, p. 17)
e degli immancabili insetti:
La zanzara, per decenza,
ha una tunica di organza,
quando è sbronza vola senza
a zig zag per la Brianza
(ivi, p. 38)
Ahi, la vespa
Com’è pesta!
Era vispa
Non fu lesta.
(ivi, p. 47)
Al di sopra di tutti “volano” i famigerati corvi di Orvieto in competizione con quelli di Orte:
Il sogno segreto
dei corvi di Orvieto
è mettere a morte
i corvi di Orte
(ivi, p. 95)
È, quest’ultima, la quartina scialojana più famosa (e più citata dai critici), nella quale è stata ravvisata una geniale metafora della rivalità esistente a metà degli anni settanta tra i poeti della Neoavanguardia («i corvi di Orvieto» ai quali solo in parte è riconducibile l’esperienza poetica di Scialoja) e i poeti tradizionalisti («i corvi di Orte»). Il segreto di questi versi-scioglilingua – che continuano a ronzare nella testa del lettore in virtù della loro vacuità semantica – è tutto nella particolare «parola-melagrana» di Scialoja, «quella parola che […] contiene e fa germinare i semi sillabici e anagrammatici di tutte le altre», facendo scaturire quello che la poetessa Giulia Niccolai ha definito un «trompe l’oreille al cui meccanismo si reagisce come davanti a un esercizio d’illusionismo verbale». <2
Ma qual è il modo corretto di leggere queste poesie nonsensiche? Fino a che punto è lecito dire che in esse il significante è del tutto svincolato dal significato in nome del puro «gioco fonemico e allitterativo»? A ben guardare un racconto, una narrazione minima c’è sempre in queste poesie; una piccola storia, avventura o disavventura, che il poeta riesce ad ambientare «nello spessore di un nome o di un aggettivo, nell’intercapedine fra due sillabe o nella coniugazione di un verbo, con l’agio e la naturalezza con cui altri li ambienterebbero in una città, in una stanza, in una foresta.» <3
Il gioco sillabico di Scialoja, dunque, non è mai semplice girotondo di parole, è semmai «musica concettuale» <4 generatrice di sensi plurimi che a volte possono “scartare” in direzioni alternative rispetto alle attese di chi legge e anche rispetto alle intenzioni iniziali di chi scrive. Ciò accade perché la parola poetica è «un’entità a sé, come il colore di un quadro, come una pennellata su una superficie. Si fonda sul suo essere forma» («È chiaro che poi essa [la parola] ha anche un significato; ma esso riguarda anche ciò che appartiene al sentimento e a questa dimensione si perviene in seconda istanza, come ad una scoperta» <5). La parola così intesa, «nel suo valore formale, architettonico-pittorico», <6 è suscettibile di scomposizioni, segmentazioni interne, ribaltamenti e aggregazioni con altri gruppi di parole o di unità sillabiche. Le metamorfosi che essa può subire, allontanandosi dalla sua forma originaria, sono innumerevoli; all’inevitabile alterazione del senso dato (con indubbi effetti di straniamento e di comicità) corrisponde un potenziamento esponenziale della sua sonorità “concettuale”: “La parola indica. E però, esaltata come suono in poesia, indica qualcosa che non sempre coincide con il dato iniziale. In un verso una parola che indica orrore può suonare incantevole. Non mi riferisco alla lacaniana rete dei significanti, bensì alla complicazione sillabica, per cui il suono non coincide con la parola, come una mano con il guanto, ma contiene un quiddità di senso che appartiene alla sillabazione stessa, che si sparpaglia nelle sillabe, si mimetizza nelle sillabe”. <7
Le aggregazioni sillabiche all’interno dei versi provocano delle improvvise accensioni poetiche, proprio come gli urti casuali di particelle elementari che liberano enormi cariche di energia. È la parola-suono, dunque, che «accende l’epifania», che sprigiona significati inattesi, ma solo a patto che essa sia priva di «esperienza vissuta e personalistica», priva di «sofferenza lamentata», priva «di lordura»: <8 («La parola è parola di poesia se acquista un’immediata smemoratezza: smemoratezza di senso. Perché ogni parola in poesia si riappropria del suo originario enigma, fondato su una qualità fonico-sillabica» <9). La parola “smemorata” – con la sua «sonorità germinante, gremita di virtualità come un grido o gemito o canto» <10 – è una parola priva di sovrastrutture, di significati sedimentati, che ritrova il suo peso, la sua consistenza primitiva ed è quindi pronta ad essere catturata e manipolata dal poeta, scomposta nei suoi semi sillabici e combinata con altre in virtù delle sue qualità puramente sonore. Quando parla di «smemoratezza» della parola o «infanzia della parola», tuttavia Scialoja sa di poter dar luogo a fraintendimenti. Da qui l’esigenza di chiarire, di meglio specificare il suo pensiero: “Non parlo della sfera del fanciullino, dell’infanzia come innocenza, psicologia vergine, sentimento non contaminato. Piuttosto di infanzia infera, infernale regno di apparizioni”. <11
[NOTE]
1 A. P. FUKSAS, Locus in fabula, «Trame di letteratura comparata», rivista del Dipartimento di Linguistica e letterature comparate dell’Università di Cassino, 2001, 2, p. 164.
2 T. SCIALOJA, quarta di copertina di La stanza la stizza l’astuzia, Prefazione di A. Porta, Roma, Cooperativa Scrittori, 1976 (Cfr. VSP, p. 279).
3 G. RABONI, Prefazione a POE, pp. 7-8.
4 Cfr. T. SCIALOJA, Come nascono le mie poesie, in Toti Scialoja. Opere 1983-1997, Mostra alla Galleria dello Scudo, Verona, 9 dicembre 2006-28 febbraio 2007, Catalogo a cura di R. Lauter e M. Vallora, Milano, Skira, 2006, p. 223. Questo importante scritto autoesegetico, apparso la prima volta sulla rivista «Parlare & Scrivere Oggi» (Milano, settembre 1986, pp. 61-68) con il titolo Una grande voglia di poesia, fu ripubblicato con il nuovo titolo due anni dopo su «Il Verri», serie VIII, dicembre 1988, 8, pp. 9-20.
5 A. TINTERRI, Scialoja, il topino e i nonsense per il nipotino James (intervista a Toti Scialoja), «Il Secolo XIX», 21 agosto 1992.
6 Ibidem.
7 T. SCIALOJA, Come nascono le mie poesie, in Toti Scialoja. Opere 1983-1997, cit., p. 224.
8 Cfr. A lezione da Toti Scialoja, «Poesia», I, marzo 1988, 3, p. 7; poi in Toti Scialoja. Opere 1983-1997, cit., p. 227.
9 T. SCIALOJA, Come nascono le mie poesie, in Toti Scialoja. Opere 1983-1997, cit., p. 223.
10 Ivi, p. 224.
11 Ibidem.
Alessandra Ottieri, La poesia di Toti Scialoja. Dai versetti nonsensici agli “esametri” degli anni Novanta in MISURE CRITICHE, Nuova Serie, ANNO XI, n. 1-2, Gennaio-Dicembre 2012, Atti del Seminario di Studi, Salerno, 5 dicembre 2012