Per i nazisti il partigiano non era solo da sconfiggere, ma anche da distruggere, da annichilire

Abbiamo visto come la questione della valutazione del movimento partigiano fosse rilevante per la discussione sul preteso “diritto” di rappresaglia. La sentenza del processo a Kappler, pur affermando che le formazioni partigiane non erano organi belligeranti legittimi, sostenne al contempo che esistesse uno stretto legame fra esse e lo Stato italiano. La Corte ha affermato infatti, a proposito dei partigiani autori dell’attentato, che essi «facevano parte di una organizzazione militare inquadrata nella Giunta Militare. Questa, alla stessa stregua del Comitato di Liberazione Nazionale, per il riconoscimento implicito ad essi fatto, attraverso numerose manifestazioni, dal Governo legittimo e per i fini propri di quest’ultimo (lotta contro i tedeschi) che essa attuava in territorio occupato, si poneva come organo legittimo, almeno di fatto, dello Stato italiano» <417. Quella che può apparire come una contraddizione della Corte si può spiegare considerando le difficoltà interpretative che la cultura giuridica ha dovuto affrontare di fronte al fenomeno partigiano, come ha sottolineato Luca Baldissara: “rilevare come tali sentenze siano rivelatrici delle difficoltà di una specifica cultura giuridica e militare della guerra di misurarsi con i meccanismi della guerra totale appena conclusa. Non solo. Anche della difficoltà di comprendere quel fenomeno partigiano, esteso in forme diverse a molti dei paesi che avevano vissuto l’esperienza dei regimi d’occupazione, che le stesse motivazioni della sentenza Kappler definivano «una delle migliori manifestazioni dello spirito di resistenza delle popolazioni dei territori occupati», riconoscendo che «le formazioni partigiane, in genere, sono sorte spontaneamente, hanno agito nei primi tempi per necessità nell’orbita della illegalità fino ad assumere, come avvenne in proseguo di tempo anche per il movimento partigiano italiano, una organizzazione capace di acquistare la qualifica di organo legittimo belligerante». Ciò che veniva concesso sul piano delle considerazioni d’ordine generale e discorsivo veniva dunque negato attraverso la rigida e formalistica interpretazione legale dei trattati”. <418
La sentenza del processo a Reder rappresenta invece un passo in avanti in questo senso. Essa contiene infatti, oltre a un esame più completo del diritto di rappresaglia, una valutazione storica del fenomeno partigiano degna di nota, ben più complessa di quella contenuta nella sentenza di Kappler. La Corte del processo a Reder affermava infatti: “Alla luce delle esperienze della recente guerra, il fenomeno del partigianesimo non possa più riguardarsi secondo criteri desunti dalla guerra 1914-18. Esso rappresenta ormai una realtà storica le cui concrete proporzioni non debbono essere trascurate da chi è chiamato a giudicare fatti che vi si ricollegano. È un fenomeno vasto, imponente; che è, per certo, entrato ormai a far parte dei criteri che informano la guerra moderna. Se ciò, rileva il Collegio, non comporta attualmente una disciplina di questo fenomeno nel diritto internazionale sino a che non si sia internazionalmente convenuto sulla materia, o non si sia formata una consuetudine al riguardo, non è men vero che, poiché nulla autorizza a considerare il fenomeno partigiano come illecito internazionale, nel silenzio delle norme internazionali è arbitrario ricercare motivi per una affermazione di illiceità. E questa arbitrarietà, oltre che al di fuori di ogni regola giuridica, urta contro la fondamentale esigenza di evitare sfasamenti tra la realtà ed il diritto”. <419
Per la prima volta, nella sentenza del processo a Reder, si riconosceva il movimento partigiano come un organo belligerante legittimo, che era entrato a far parte a tutti gli effetti della guerra moderna. È interessante notare come il tentativo di dimostrare esattamente l’opposto, ovvero il fatto che i partigiani fossero dei combattenti irregolari, che assumevano l’immagine di minacciosi franchi tiratori, fosse alla base della difesa di Reder.
Il tema della guerra partigiana era quindi al centro di un altro tipo di argomentazione, quello della difesa dei criminali di guerra tedeschi. Non a caso, un memoriale di Reder precedente al rinvio a giudizio del giugno 1951 si intitolava “La guerra partigiana”. Il perno attorno a cui ruotava il tentativo di discolparsi dell’imputato era proprio la dimostrazione dell’illiceità della guerra irregolare, che avrebbe giustificato, in risposta a quest’ultima, la legittimità della controguerriglia. Nel memoriale di Reder si legge che i partigiani, descritti come fanatici comunisti ben armati, ricorrevano a metodi di combattimento senza scrupoli: essi sparavano con raffiche di mitragliatrici alle spalle delle truppe tedesche che passavano utilizzando le case dei civili come fortezze. A questo modo di combattere dei partigiani si dovrebbe addebitare le perdite nella popolazione civile, mentre le operazioni delle truppe tedesche sarebbero state originate solamente dalla necessità militare. Non vi era modo di dimostrare, secondo Reder, che egli avesse ordinato una spedizione punitiva contro la popolazione. L’imputato rivendicava dunque di aver combattuto secondo le leggi internazionali di guerra, accusando i partigiani di aver agito da «franchi tiratori» e dunque di essersi posti al di fuori di ogni regola del diritto bellico. Da questa violazione del diritto di guerra da parte dei partigiani conseguiva l’ammissione della legittimità della repressione tramite rappresaglia.
L’immagine stereotipizzata del partigiano, nascosto nelle abitazioni ad aspettare il passaggio dei soldati tedeschi per colpirli alle spalle, ben presente nel memoriale di Reder, è interessante perché si richiamava a quella del franc tireur. La paura dei tedeschi per la guerra di popolo si rifaceva a quella per il franco tiratore, che si era alimentata nei conflitti precedenti, dalla guerra franco-prussiana alla Grande Guerra, era aggravata nel secondo conflitto mondiale anche dal fattore ideologico e dagli stereotipi razzisti del nazismo (contro gli ebrei, contro gli slavi, contro i comunisti). Ciò contribuì a trasformare il partigiano in un nemico assoluto, il quale non era solo da sconfiggere, ma anche da distruggere, da annichilire. Questa evoluzione aiuta a comprendere «il come fu concepibile materialmente praticabile l’uccisione di persone inermi, spesso di bambini, spesso con un accanimento e una brutalità che esulavano dalla pur sanguinosa rappresaglia» <420. Oltre al fenomeno della brutalizzazione della guerra, doveva incidere «una sedimentata pratica di disumanizzazione progressiva del nemico, combinata a una specifica visione negativa della guerra di popolo, cui si riconduceva la guerra partigiana combattuta sul suolo italiano» <421.
Nella difesa di Reder, la tesi dell’illegittimità del movimento partigiano rappresentava dunque un’argomentazione fondamentale per la giustificazione del proprio modo di combattere e degli atti di rappresaglia da lui ordinati. Allo stesso tempo, è interessante notare nel suo memoriale la rilevanza di due elementi radicati nella cultura militare nazista, ovvero la visione negativa della guerra di popolo e il timore per il partigiano. Nel prossimo paragrafo vedremo come il fenomeno della brutalizzazione del nemico incise profondamente sulle numerose violenze contro i civili, i quali furono indiscriminatamente uccisi per il fatto di essere stati associati al movimento partigiano, nonostante la loro innocenza.
[NOTE]
417 Cit. in De Paolis e Pezzino, La difficile giustizia cit., p. 66.
418 Luca Baldissara, Giudizio e castigo. La brutalizzazione della guerra e le contraddizioni della “giustizia politica”, in Baldissara, Pezzino (a cura di), Giudicare e punire cit., p. 55.
419 Testo della sentenza del processo a Reder.
420 Baldissara e Pezzino, Il massacro cit., p. 456.
421 Ibidem.
Claudia Nieddu, Il dibattito in Italia sui criminali di guerra (1945-1951), Tesi di Laurea, Università degli Studi di Pisa, Anno accademico 2017-2018