Per far pervenire notizie dagli Stati Uniti, si preferiva usare canali di informazione non ufficiali

Al di là del diretto intervento organizzativo nella pubblicità per il piano Marshall, l’USIS svolse un’attività di influenza meno diretta per influenzare l’opinione pubblica. Gli uffici di informazione USA prestarono attenzione ad evitare che la loro attività offrisse spunti per criticare l’ingerenza americana nelle faccende interne di altri paesi <144, e si affidarono in genere a canali non ufficiali o a mezzi di comunicazione locali. In Italia, come in gran parte dell’Europa occidentale, le informazioni e le notizie che l’USIS intendeva diffondere erano di solito affidate a giornali o case di produzione dei cinegiornali; le agenzie nazionali ogni giorno producevano e inviavano a oltre mille redazioni italiane un bollettino di circa seimila parole corredato di foto, informazioni grezze, biografie e curricula di politici e personaggi celebri o narrazioni già strutturate in forma di articolo <145.
Tali fonti, o le informazioni direttamente provenienti dai corrispondenti da Washington, erano preziose per i quotidiani che intendevano pubblicare notizie di politica internazionale, ed erano quasi le uniche se si intendeva trattare della politica sovietica o della situazione sociale oltre cortina. Nel dopoguerra, se si escludono le testate comuniste e socialiste, fino al 1955 nessun giornale italiano ebbe corrispondenti da Mosca; i giornalisti che si occupavano delle democrazie popolari erano i corrispondenti da Vienna, da Stoccolma o dalla Germania; solo nel 1951, dopo complesse trattative, Vittorio G. Rossi del Corriere poté visitare la Russia come inviato speciale <146. Inoltre migliaia di pubblicisti, intellettuali e uomini politici potevano mettersi in contatto con l’USIS e ricevere materiale da utilizzare per i propri interventi; uno dei compiti principali dell’agenzia americana era proprio quello di curare i rapporti con i più autorevoli «opinion makers» stranieri, così da orientare con loro tutta l’opinione pubblica del paese verso l’elaborazione di un’immagine positiva della democrazia americana e dell’American way of life <147.
Per far pervenire notizie dagli Stati Uniti, si preferiva usare canali di informazione non ufficiali, rispetto a quelli governativi. Strumenti utilizzati assai frequentemente furono le grandi agenzie di stampa private, come l’Associated Press e la United Press; esse erano voci autorevoli e credibili, e una delle preoccupazioni degli uffici USIS fu quella di non intaccare tale credibilità, ma anzi di farla propria; applicando gli studi relativi agli effetti della autorevolezza della fonte sulla ricezione del messaggio, sviluppati subito dopo la guerra dal gruppo di Carl Howland alla Yale University, essi fornirono in tutti i bollettini notizie attendibili e verificabili, accettabili dai network di comunicazione e da ogni tipo di pubblico <148. Già a partire dai tempi dell’OWI, e continuando nel dopoguerra, i rapporti di collaborazione tra uffici di informazione governativi e agenzie di comunicazione private furono rafforzati dal fitto interscambio di uomini tra le due realtà. Dal 1942 lavoravano alla propaganda di guerra tecnici provenienti dal giornalismo, dalla radio, dal mondo dello spettacolo <149; poi capitò spesso che gli inviati di un’agenzia di stampa in una capitale europea collaborassero con l’USIS, o come Berding a Roma lasciassero il loro lavoro un certo periodo per lavorare presso gli uffici di informazione e propaganda dell’ambasciata <150.
La serie di contatti e di aiuti reciproci così creata non appariva affatto strana, nel clima di scontro frontale degli anni intorno al 1950: secondo W. Scott Lucas in quel periodo ogni americano avrebbe sentito il dovere, avendone la possibilità, di cooperare per la sicurezza del suo paese <151. Un altro caso, in cui queste forme di collaborazione erano anche più frequenti e dirette, era quello delle varie edizioni nazionali del Reader’s Digest. In Italia, la sua Selezione iniziò ad uscire nell’ottobre del 1948: tramite i fondi dell’ERP, si aprì a Milano una redazione locale, che aveva il compito di scegliere, tradurre e adeguare al gusto dei lettori italiani i prodotti più indicati messi a disposizione dalla società. Il mensile, orientato verso lettori di media cultura che proprio alla fine degli anni Quaranta iniziavano a trovare nelle edicole i rotocalchi, ebbe tirature buone, sebbene non eccezionali: i suoi articoli sul piano Marshall furono comunque un modello per i settimanali italiani, e anche in Italia l’«innocente ottimismo» <152, che traspariva dai suoi articoli di costume, divenne la cifra stilistica con cui i media avrebbero educato il pubblico all’American way of life.
Allo stesso modo, per ogni intellettuale di convinzioni anticomuniste non costituiva un compromesso con la propria coscienza la collaborazione con organizzazioni culturali di simile orientamento, profondamente collegate all’intelligence americana. Siegmund Diamond, nel suo studio sulla vita culturale ad Harvard negli anni Cinquanta, ha messo in evidenza l’intensità dei rapporti tra i servizi di sicurezza di Washington ed i ricercatori di discipline politicamente “calde”; nei campus delle prestigiose università della East Coast, ambienti culturali maturati tra le due guerre con il contributo degli intellettuali europei fuggiti ai totalitarismi, il Dipartimento di Stato trovava specialisti qualificati, mentre dal governo ricercatori e docenti ricevevano fondi e strutture adeguate per lo sviluppo dei loro progetti. La sovietologia americana, ad esempio, nacque ed ebbe il suo più rigoglioso momento di sviluppo proprio negli anni immediatamente successivi al 1950, quando la conoscenza della società sovietica e la riflessione su di essa costituivano importanti armi di lotta <153.
Per quanto riguarda l’Europa occidentale, l’esempio più noto e più prestigioso delle associazioni culturali fiorite negli anni della cosiddetta “guerra fredda culturale” è senz’altro il Congresso per la libertà della cultura, sorto in seguito all’inasprimento del confronto propagandistico USA-URSS del 1950 grazie all’impegno di alcuni intellettuali di spicco come Raymond Aron e Nicola Chiaromonte, e soprattutto degli “ex” Angelo Tasca, Ignazio Silone e Arthur Koestler. Il Congresso, sostenuto dal denaro proveniente dagli Stati Uniti, iniziò subito una intensa attività editoriale, promuovendo la pubblicazione di riviste e monografie sulla mancanza di rispetto delle libertà individuali nel mondo comunista e sulle memorie degli ex comunisti (a questo filone appartiene la celebre raccolta di racconti autobiografici di ex comunisti “Il dio che è fallito”); volumi come “1984” di Orwell e “Buio a mezzogiorno” di Koestler ottennero grande diffusione attraverso i finanziamenti del Congresso e le traduzioni promosse da alcuni dei suoi membri. Fu nell’ambito di simili iniziative, ad esempio, che “1984” fu pubblicato nel 1950 in italiano; esso apparve a puntate sul neonato Mondo di Pannunzio, settimanale a cui collaboravano molti esponenti italiani del Congresso <154, e contemporaneamente la sua prima parte, la descrizione della vita in Oceania, apparve condensata su un numero di Selezione <155. Probabilmente, sempre grazie ai contatti creati dalla sua frequentazione dell’organizzazione Guido Piovene poté organizzare il suo lungo reportage dagli Stati Uniti, pubblicato nel corso del 1951 dal Corriere e destinato a diventare un contributo di rilievo nella creazione di un’immagine dell’America tra gli italiani <156.
Negli anni più duri della lotta anticomunista, il governo statunitense poté far sentire la sua influenza in un ambito culturale destinato ad avere ben maggiore impatto sul pubblico, quello del cinema: dagli anni Trenta in poi, e soprattutto dopo il 1945, gli Stati Uniti divennero l’indiscussa potenza mondiale della produzione cinematografica, e anche in Italia, secondo paese del mondo produttrice di film fino a tutti gli anni Sessanta, oltre la metà dei film proiettati nelle sale era di provenienza americana. Come ha notato Victoria De Grazia, il cinema costituì nel dopoguerra il principale strumento di “americanizzazione” dello stile di vita, di esportazione di «modelli culturali» che, «dietro un’apparenza apolitica» ed un’altrettanto apparente «bassa intensità», costituivano un importante fattore di mutamento del modo stesso di intendere il potere e la legittimità <157. Nelle agenzie governative americane, si ebbe presto percezione dell’importanza del veicolo culturale cinematografico, e alla fine degli anni Quaranta si iniziò una politica di finanziamento mirato alle pellicole “utili”, arrivando a consigliare modifiche alle sceneggiature per garantire che la rappresentazione dell’American way of life risultasse appetibile, e che i principali problemi sociali degli Stati Uniti, come quello razziale, non avessero risalto <158. Tale tendenza si rivelò in modo ancora più esplicito nella distribuzione di un numero sempre crescente di pellicole che trattavano più o meno direttamente il tema del comunismo: i russi erano presentati non più come alleati di guerra, guidati da un uomo severo ma giusto, ma come spie alle dipendenze di un governo inaffidabile, magari pronte a redimersi una volta in occidente <159.
In Italia, come in tutto il mondo occidentale, aveva numerosi ascoltatori la stazione radio ufficiale del governo americano, la Voice of America (VOA). Il network iniziò la programmazioni tra 1942, anch’esso nell’ambito delle operazioni dell’OWI per la propaganda clandestina nell’Europa occupata, accompagnando la musica americana a messaggi di natura più chiaramente politica <160. Dopo la fine della guerra, la programmazione della VOA continuò; durante la campagna elettorale del 1948 le due ore quotidiane di trasmissioni erano ascoltate da circa due terzi degli italiani, che oltre alla musica potevano ascoltare le voci di molte star d’oltreoceano, tra cui i paesani Rocky Graziano e Frank Sinatra, che chiedevano di non votare per partiti ostili agli Stati Uniti, presentavano messaggi dei rifugiati politici dai paesi d’oltre cortina e aggiornavano sull’ammontare degli aiuti americani all’Italia. Dopo la vittoria elettorale e la relativa stabilizzazione dell’Europa occidentale, le attività radiofoniche americane in Italia si concentrarono soprattutto sulla diffusione della cultura musicale degli Stati Uniti, sia attraverso la VOA, sia attraverso la stessa USIS, che forniva musica alla radio italiana <161. Con l’inizio degli anni Cinquanta, ed il lancio della grande “campagna della verità” da parte di Truman contro le rappresentazioni tendenziose della realtà promosse dal movimento comunista, la Voice of America poté contare sui ripetitori più potenti mai costruiti, e ad essa si affiancarono Radio Free Europe e, dal 1953, Radio Liberty, stazioni radiofoniche private che trasmettevano dall’Europa centrale verso i paesi d’oltre cortina e l’URSS <162.
La complessa rete di agenzie americane votate alla distribuzione di informazioni al pubblico estero trovò solo nel 1953 una solida struttura di coordinamento centrale: dopo che nel 1950 si decise di sperimentare lo Psychological Strategy Board, sotto diretto controllo presidenziale <163, con la presidenza Eisenhower venne istituita la United States Information Agency (USIA), un centro di coordinamento da cui erano gestiti gli USIS, le stazioni radiofoniche e il programma di scambi accademici Fulbright. Dopo di allora, parte dell’influenza che gli Stati Uniti esercitavano sull’opinione pubblica internazionale rimase autonoma ed incontrollabile; essa era il risultato di un fenomeno senza precedenti di simbiosi tra agenzie governative e società private, per cui le attività di comunicazione dell’USIA si confondevano con
“the massive global activities of private groups which emerged as the largest force influencing America’s ideological impact abroad in the past half-century. The private US information sector, broadly defined, encompassed the mass media, the advertising industry, and cultural and educational institutions, along with multinational corporations and other organizations whose agendas included concerns about overseas public opinion”. <164
La digressione sulle modalità della propaganda americana ha consentito di mettere a fuoco il profilo dei tecnici della comunicazione americana, che rispetto ai propagandisti italiani erano ben più preparati ad utilizzare in modo coordinato forme e strumenti di comunicazione diversi tra loro ed adeguati al pubblico a cui intendevano rivolgersi, facendo uso delle forme indirette della cosiddetta propaganda “grigia” <165. Data la particolare natura di questo genere di attività informativa, una valutazione completa delle sollecitazioni presentate agli italiani nella guerra fredda deve anche tenere presente il panorama della stampa d’informazione cosiddetta “indipendente”, ed il suo ruolo nella formazione di un’opinione condivisa.
[NOTE]
144 La preoccupazione in questo senso si avverte chiaramente in tutti i documenti americani destinati all’organizzazione delle attività propagandistiche in Italia: cfr. l’esposizione offerta in M.E. Guasconi, “La guerra psicologica quale strumento di lotta contro il comunismo in Italia. Il piano ‘demagnetize’”, Storia delle Relazioni internazionali, X-XI, 1, 1994-1995, pp. 163-180.
145 Proprio il tema della diffusione delle immagini fotografiche, così importante nel periodo della diffusione dei settimanali a “rotocalco” impostati sul modello di Life, è stato oggetto di un recente case study sulla “diplomazia culturale” americana: E. Bini, “Fotografia e diplomazia culturale. La ‘United States Information Agency’ nella guerra fredda”, Contemporanea, IX, 1, 2006, pp. 99-115.
146 Mi sono occupato di questi temi in un mio lavoro di prossima uscita in Ricerche di Storia Politica, il cui titolo di lavoro è “«La Russia com’è». L’immagine crticia dell’Unione sovietica e del blocco orientale nella pubblicistica italiana (1948-1955)”.
147 Queste notizie sono tratte da W.P Dizard, The Strategy of Truth. The Story of the US Information Service, Washington, Public Affairs Press, 1961, pp. 50 e ss., da R.E. Elder, The Information Machine. The United States Information Agency and American Foreign Policy, Syracuse, Syracuse University Press, 1968, pp. 221-223, da R.T. Holt, R.W. Van der Velde, Strategic Psychological Operations cit., pp. 171-173, e da L. Bogart (ed.), Premises for Propaganda. The United States Information Agency’s Operating Assumptions in the Cold War, New York, The Free Press, 1976. Quest’ultima è la pubblicazione di un’indagine effettuata nel 1953 sul personale dell’USIA, indagine commissionata dai vertici stessi dell’agenzia per comprendere la reale efficienza del suo funzionamento; i risultati dell’inchiesta furono pubblicati poco dopo la legge del 1974 che rendeva pubblici i documenti federali americani. L’autore ne ha poi curato una nuova edizione nel 1995 (Cool Words, Cold War. A New Look at USIA’s Premises for Propaganda, Washington-London, The American University Press, 1995).
148 Cfr. R.E. Elder, op. cit., pp. 178 e ss. Il rapporto tra gli studi accademici e l’applicazione sul campo è esposto in G.S. Jowett, V. O’Donnell, Propaganda and Persuasion cit., pp. 107-108.
149 A.M. Wincker, The politics of Propaganda cit., pp. 73-74.
150 Un altro caso di rilievo è quello di P. Hoffman, amministratore della sezione statunitense dell’ERP e, dal 1949, a capo della Fondazione Ford: cfr. F.X. Sutton, “The Ford Foundation. The Early Years”, Daedalus, CXVI, 1, 1987, pp. 41-91, e K.D. McCarthy, “From Cold War to Cultural Development. The International Cultural Activities of the Ford Foundation, 1950-1960”, Ibid., pp. 93-117.
151 Oltre a Ibid, pp. 114-115, cfr. W.S. Lucas, Freedom’s War. The US Crusade against the Soviet Union. 1945-1956, Manchester, Manchester University Press, 1999, pp. 85 e 93 e ss.,e Id., “Beyond Freedom, Beyond Control. Approaches to Culture and the State-Private Network in the Cold War”, in G. Scott-Smith, H. Krabberndam (eds.), The Cultural Cold War cit., pp. 54-72.
152 Cfr. R.F. Kuisel, Seducing the French. The Dilemma of Americanization, Berkeley-Los Angeles-London, University of California Press, 1993, p. 41, e D.W. Ellwood, “Containing Modernity, Domesticating America in Italy”, in A. Stephan (ed.), The Americanization of Europe. Culture, Diplomacy, and Anti-Americanism after 1945, New York-Oxford, Berghahn Books, 2005, pp. 259-260.
153 Cfr. S. Diamond, Compromised Campus. The Collaboration of Universities with the Intelligence Community, 1945-1955, New York-Oxford, Oxford University Press, 1992.
154 Su questa ed altre attività del gruppo di intellettuali riuniti in quegli anni nella redazione del Mondo cfr., oltre al classico A Cardini, Tempi di ferro. Il Mondo e l’Italia del dopoguerra, Bologna, Il Mulino, 1992, R. Pertici, “Il vario anticomunismo italiano…” cit., pp. 314 e passim.
155 Selezione dal Reader’s Digest, III, 17, febbraio 1950, pp. 97 e ss.
156 Tra i lavori che si occupano del Congresso, meritano sicuramente di essere ricordati P. Coleman, The Liberal Conspiracy. The Congress for Cultural Freedom and the Struggle for the Mind of Postwar Europe, New York, The Free Press, 1989, P. Grémion, Intelligence de l’anticommunisme. Le congrès pour la liberté de la culture à Paris (1950-1975), Paris, Fayard, 1995 (dello stesso autore, cfr. “Regards sur la diplomatie américaine des idées pendant la guerre froide”, Communisme, 62-63, 2000, pp. 57-84), e il recente F.S. Saunders, La guerra fredda culturale. La CIA e il mondo delle lettere e delle arti, Roma, Fazi, 2004. Per una precisa contestualizzazione dell’azione del congresso nelle strategie di politica internazionale americane, cfr. anche G. Scott-Smith, The Politics of Apolitical Culture. The Congress for Cultural Freedom, the CIA and Post-War American Hegemony, London-New York, Routeledge, 2002.
157 Cfr. V. De Grazia, “La sfida dello ‘star-system’. L’americanismo nella trasformazione della cultura di massa in Europa”, Quaderni Storici, 58, aprile 1985, pp. 95-133.
158 Cfr. F.S. Saunders, La guerra fredda culturale cit., pp. 250-269.
159 Su questo tema cfr. spec. G.S. Jowett, V. O’Donnell, Propaganda and Persuasion cit., pp. 79-81, e David Caute, The Dancer Defects. The Struggle for Cultural Supremacy During the Cold War, Oxford-New York, Oxford University Press, 2003, pp. 160-163, quest’ultimo, in particolare, ricco di interessanti indicazioni bibliografiche.
160 Sulla storia della VOA, cfr. spec. D.F. Krugler, The Voice of America and the Domestic Propaganda Battle, 1945-1953, Columbia-London, University of Missouri Press, 2000.
161 Cfr. R.T. Holt, R.W. Van der Velde, Strategic Psychological Operations cit., pp. 170-171 e pp. 188 e ss., e W.S. Lucas, Freedom’s War cit., pp. 44-45.
162 Su questi temi, oltre ai testi già citati in relazione alla VOA, cfr. W.L. Hixson, Parting the Courtain cit., e A. Puddington, Broadcasting Freedom. The Cold War Triumph of Radio Free Europe and Radio Liberty, Lexington, The University Press of Kentuky, 2000.
163 La natura del passaggio di poteri è descritta in T.C. Sorensen, THe Word War. The story of American Propaganda, New York-Evanston-London, Harper & Row, 1968, pp. 28 e ss., e soprattutto in W.S. Lucas, “Campaigns of Truth. The Psychological Strategy Board and American Ideology. 1951-1953”, International History Review, XVIII, 2, 1996, pp. 279-302.
164 W.P. Dizard, Inventing Public Diplomacy cit., pp. 4-5.
165 Per la classificazione delle attività propagandistiche in “bianche”, “grigie” e “nere”, secondo il grado di ufficialità con cui erano presentate al pubblico, e per la sua applicazione alle attività dell’USIS nella guerra fredda, cfr. W.S. Lucas, Freedom’s War cit., pp. 143, e spec. G.S. Jowett, V. O’Donnell, Propaganda and Persuasion cit., pp. 17-19.
Andrea Mariuzzo, Comunismo e anticomunismo in Italia (1945-1953). Strategie comunicative e conflitto politico, Tesi di Perfezionamento, Scuola Normale Superiore – Pisa, 2006

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