Per Andrea Caffi federalismo internazionale e infranazionale devono completarsi a vicenda

Dopo la fine della guerra Caffi non abbandona l’idea secondo cui nulla di buono può venire da un’Europa divisa in Stati sovrani. In una lettera a Faravelli, del gennaio 1946, scrive: “se vogliamo sul serio salvare la società dalle guerre, dai governi totalitari e da tutte le bestialità che questi due aspetti d’un medesimo fenomeno implicano ( … ) bisogna abbattere al più presto l’idolo della nazione; in particolare l’Europa sarà ridotta allo stato di ‘giungla’ (terreno per tigri e grossi cacciatori) se non si rinuncia radicalmente alle ‘sovranità nazionali’, agli orgogli e ‘sacri egoismi’ patriottici, alla superstizione della solidarietà etnica in nome della quale bisogna uccidere e morire”. Segue: “La nazione come patrimonio culturale (lingua, “memorie comuni”, costumi, nella misura della nostra vita planetaria) si deve dissociare da qualsiasi formazione politica, privare completamente d’ogni mezzo di coercizione e suoi “membri” – che tali saranno unicamente per spontanea e revocabile adesione” <280.
Caffi propone quindi una totale demistificazione dell’idea di nazione ove si intenda con questo termine, non una tradizione culturale, ma un valore politico per il quale gli uomini trovino doveroso sacrificarsi. “Se non si secolarizza la nazione – prosegue – (oggi adorata e satollata di vittime umane come qualsiasi Moloch o Geova) secondo le stesse linee con cui il liberalismo ha assicurato la libertà di coscienza ed il libero esercizio di tutti i culti, è inutile voler edificare – nel quadro dello ‘Stato nazionale essenzialmente barbaro – un regime di libertà e di giustizia sociale. E naturalmente ‘le Nazioni Unite sono una tragica buffonata purtroppo peggiore – perché fatta con più evidente malafede – che la defunta SdN [n.d.r.: Società delle Nazioni]. La tesi dell’internazionale socialista è stata sempre l’abolizione delle frontiere e della nozione stessa di ‘straniero’. Se per ragioni ovvie conviene che ogni regione abbia un suo autonomo governo, bisogna stabilire fra i vari ‘paesi’ patti non di semplice “amicizia, non aggressione” etc. – ma di completa “simpolitia” (usando un vocabolo che definiva l’unione per esempio fra Atene e Samo) per cui cioè, senza formalità alcuna, il ‘cittadino’ d’un paese trasferendosi in un altro vi godrà degli identici diritti che gli ‘indigeni’ di quello”.
E conclude: “È implicito che ciò comporti un mutamento radicale di tutto l’apparecchio giuridico, poliziesco, amministrativo (quello militare dovendo semplicemente scomparire) che si riassume ora nello “Stato”” <281. L’apparato giuridico, lo Stato, deve dunque essere modificato profondamente in funzione della realizzazione di un modello in cui sia possibile la ‘simpolitia’, in cui ogni uomo possa godere degli stessi diritti in ogni paese. Oltre all’assoluta necessità – più volte ribadita da Caffi nel corso della sua riflessione intellettuale – di superare lo Stato nazionale, e l’ideologia ad esso legata, allo scopo di garantire la pace fra i popoli europei, è importante sottolineare un aspetto del discorso di Caffi che concerne la natura del federalismo da costruire: egli non considera desiderabile né un federalismo che sia solo il frutto di un accordo verticistico tra Stati, né un federalismo che si risolva esclusivamente in riforme interne allo Stato nazionale. Per Caffi federalismo internazionale e infranazionale devono completarsi a vicenda. In altre parole, da un lato, non è possibile prescindere dall’attuazione di radicali riforme interne agli Stati senza compromettere la costruzione di un federalismo europeo completo; dall’altro, una società realmente democratica non può che svilupparsi nell’ambito della federazione tra gli Stati europei.
In un articolo intitolato “Chi vuole la pace?” <282 e pubblicato sul “Corriere della Sera”, Luigi Einaudi esprime un parere non discordante da quello di Caffi. Secondo Einaudi non è possibile realizzare la pace senza la federazione, l’istituzione di “un potere superiore a quello dei singoli Stati sovrani”. Ogni altra soluzione non può portare ad una pace stabile. La pace, in altre parole, passa necessariamente per l’abolizione della sovranità nazionale.
Per entrambi gli autori il mantenimento dello Stato nazionale implica necessariamente il protrarsi dello stato di guerra, e quindi va abolito. Ma, se secondo Einaudi la federazione è semplicemente un assetto politico atto a garantire la pace, per Caffi il federalismo non ha solo questo scopo: la soppressione degli Stati nazionali, e l’instaurazione della pace, non sono altro che un passo verso la creazione di una società libertaria in cui viga la più completa ‘simpolitia’ tra i paesi. Se Einaudi auspica il federalismo per ragioni pragmatiche, Caffi, pur non ponendo in secondo piano tali ragioni, attribuisce all’ipotesi federale, e alla pace che ne deriverebbe, il compito di realizzare l’ideale libertario.
E non è difficile ricondurre la differenza a due diverse idee della natura umana.
Einaudi fonda tutta la sua costruzione teorica su un’antropologia negativa secondo la quale gli uomini non tendono ad associarsi naturalmente e a vivere in pace; al contrario, sono sempre disposti a trarre il proprio vantaggio a discapito degli altri uomini con i mezzi dell’imbroglio, della rapina e della violenza. Il federalismo quindi, per Einaudi, non è altro che un argine contro la malvagità umana, un ingegnoso espediente istituzionale atto a mettere gli uomini e gli Stati nelle condizioni di non nuocersi a vicenda, ma anzi convivere pacificamente e di progredire. L’assetto federale europeo, per Einaudi, non estirperebbe affatto la malvagità dall’animo umano; le impedirebbe tuttavia di provocare i disastri e le distruzioni della guerra.
Molto diversa è la prospettiva di Caffi: alla base delle sue riflessioni c’è un’antropologia positiva che considera gli uomini, una volta liberati da pressanti bisogni e dall’oppressione dei governanti, intrinsecamente e naturalmente solidali tra loro. “In condizioni normali – scriveva nel 1947 – (ossia quando la fame, la paura o la malattia non l’esasperano) l’atteggiamento naturale dell’animale umano è pacifico, fiducioso, portato alla socievolezza curiosa e gioiosa” <283. Nel pensiero di Caffi quindi il federalismo non serve affatto a porre degli argini alla malvagità umana: il suo scopo, al contrario, è quello di permettere che la naturale socievolezza degli uomini possa trovare nella libertà, nell’autogoverno, nella pace i canali che le sono necessari per esprimersi.
Nel 1948 Caffi scrive “I presupposti della democrazia” <284, dove ripropone la sua concezione libertaria del federalismo e prende posizione nei confronti delle democrazie rappresentative nata dalle ceneri della seconda guerra mondiale. Caffi inizia la sua trattazione parlando dell’impossibilità per il popolo di esprimere una volontà cosciente all’interno di uno Stato comprendente un grande numero di individui. “Nella repubblica di Atene – scrive – i quarantamila cittadini deliberanti si incontravano più o meno ogni giorno ed è poco probabile che qualcuno dell’assemblea del popolo non conoscesse vita e miracoli di colui che dalla tribuna emetteva una proposta. Così nei 13 stati estremamente autonomi, della Confederazione americana ai suoi inizi, vi era una effettiva familiarità fra tutti i cittadini chiamati ad uno scrutinio o ad una manifestazione pubblica. Ma Platone giudica già Atene ingovernabile perché la cittadinanza è troppo numerosa e non vede possibilità di concordia che in comunità più ristrette. Ed è certo che al momento della guerra di secessione (1862) negli Stati Uniti vi erano partiti organizzati e folle consenzienti, ma non potevano più esservi dirette e ragionate espressioni di ‘volontà popolare’. Assolutamente assurdo è supporre una “decisione” presa da 10 o da 15 milioni e anche da un mezzo milione di ‘votanti’ che non sia frutto del più gregario “conformismo”, cioè degli effetti meccanici di un demagogico ‘imbottimento di crani’. Così come è impensabile che ventimila operai possano ‘controllare’ il funzionamento di una grande officina”. Solo in comunità piccole, quindi, è possibile che le decisioni siano prese con consapevolezza dagli individui deliberanti. Non esiste alcuna possibilità che una massa sia in grado di esprimere una volontà razionalmente motivata. “I limiti della democrazia sono quelli dell’umana comprensione: la ‘libera scelta’ è una atroce beffa quando non si possono conoscere né i veri motivi né le necessarie conseguenze di ciò che sceglie. Nessun uomo di buon senso, “uomo della strada, ‘francais moyen’, italiano idem, ha deliberatamente ‘scelto’ la guerra nel 1914-15, nel 1939-40, e probabilmente non avrebbe mai scelto le conquiste coloniali né la gara agli armamenti, né una quantità di regolamenti polizieschi, fiscali etc. è che nei suoi atti positivi tutta la democrazia moderna consiste in una certa “fiducia ad occhi chiusi” accordata sia ad un uomo sia ad un ‘partito’”.
Non esiste, secondo Caffi, la possibilità della libera scelta dove non si possono conoscere i motivi e le conseguenze delle decisioni da prendere. Le politiche nazionali sono troppo distanti dagli individui perché questi siano in grado di valutarle in modo avveduto. Il limite della democrazia consiste perciò nel fatto che quella che dovrebbe essere la sovranità popolare si risolve in una cieca fiducia accordata ad un uomo o ad un partito. Caffi non nega che nelle democrazie esiste anche una sorta di ‘limite negativo’, imposto dal popolo, che impedisce la violazione dei più elementari diritti umani; tuttavia il fatto che le democrazie siano degenerate nei regimi fascisti e che, anche dopo la guerra, non siano immuni da tendenze autoritarie – Caffi cita a questo proposito il successo di De Gaulle in Francia – dimostra la fragilità di tale ‘limite negativo’.
Proprio le ultime parole del saggio di Caffi mostrano quale debba essere il compito di un socialismo autentico in rapporto alla realtà europea. “I socialisti possono benissimo avversare la ‘democrazia’ che immancabilmente si “polarizza in conformismi o vane turbolenze di masse mantenute nell’ignoranza. Di fatto i più aderenti assertori del socialismo (…) hanno sempre denunciato i macchinosi apparecchi di accentramento politico, nazionale ed economico come causa precipua delle ‘inumane’ condizioni sociali ed hanno auspicato un libero “federalismo di comunità, conformi alla misura effettiva della compressione e del normale raggio d’azione d’un uomo semplice”.
Il federalismo infrastatale costituisce il necessario presupposto di qualsiasi democrazia che non sia soltanto formale. Non esiste democrazia sostanziale senza un assetto giuridico in cui le singole comunità siano liberamente federate; solo in un tale assetto, infatti, si evita l’accentramento politico, amministrativo e burocratico che, come Caffi ha sempre insistito nel dimostrare, è l’antitesi della democrazia.
[NOTE]
280 Lettera a Giuseppe Faravelli, 6 gennaio 1946, in Il socialismo al bivio, l’archivio di G. Faravelli 1945-1950, a cura di S. Merli e P.C. Masini, Annali della Fondazione Feltrinelli 1988-1989, Milano, 1990, pp. 76.
281 Ivi, pp. 76-77.
282 Luigi Einaudi, Chi vuole la pace?, “Corriere della Sera” (Milano), 4 aprile 1948.
283 La pace come condizione naturale, (1947), in Scritti politici, cit., p. 335.
284 A. Caffi, I presupposti della democrazia, “L‟Umanità”, (Milano), II, n. 290, 8 dicembre 1948, p. 3.
Aulona Ago, Stato, governo, società nel pensiero politico di Andrea Caffi, Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Macerata, 2014