Partigiani cremonesi in Val di Susa

Val Rubiana – Fonte: Mapio.net

La strategia tedesca in Val di Susa si differenziò notevolmente da quella praticata nelle altre vallate. L’enorme importanza militare ed economica che rivestiva la valle come via di comunicazione verso la Francia, costringeva i tedeschi ad impegnarsi in una continua lotta contro le forze partigiane per assicurarsi il libero transito. Inizialmente la strategia seguita dai tedeschi era incentrata sui rastrellamenti. Le puntate in valle furono ripetute in modo massiccio fino all’inizio di dicembre quando, dopo una campagna di rastrellamenti che riguardarono tutta la valle, i tedeschi decisero di costituire dei presidi permanenti formati da militari della repubblica di Salò e da truppe di Mongoli, Ucraini, Cecoslovacchi, inquadrate nella Wehrmacht. Così Collegno, Grugliasco, Rivoli, Alpignano (per citare i comuni alle porte della Val di Susa) e Avigliana, Almese, Condove, Bussoleno (per citare quelli in bassa valle) avevano il loro presidio spesso rinforzato da colonne mobili speciali <229.
La montagna diveniva quindi la metafora della guerra partigiana, ed una soluzione necessaria per chi viveva in pianura. Infatti nelle zone pianeggianti come quelle della pianura padana i risultati del tentativo di realizzare dei nuclei partigiani si rivelarono deludenti. Le ragioni di quella difficoltà erano prettamente territoriali, il retroterra delle città situate nella pianura padana era poco profondo, i boschi erano radi o inesistenti <230. La conseguenza era immediata: impegnarsi nella lotta di liberazione portata avanti dai Gruppi cittadini d’azione patriottica (Gap), oppure trovare posto in una realtà territoriale diversa dalla pianura, raggiungendo le località di montagna.
Quest’ultima fu la decisione che presero diversi cremonesi quando decisero di disertare la chiamata alle armi per impegnarsi nella lotta di Resistenza. I cremonesi costituirono un’importante presenza nella lotta di Resistenza valsusina. Il loro numero era quantificabile approssimativamente in un centinaio, quarantasette dei quali militarono nella 17a brigata Garibaldi dove, la maggior parte, costituirono un distaccamento intitolato alla memoria di Benito Faleschini “Sauro” ucciso a diciotto anni nella strage del Col del Lys. Di quei quarantasette cremonesi quarantacinque giunsero in Val di Susa nel mese di giugno del 1944. Giovanissimi, la maggioranza di essi sfuggiva al nuovo bando di presentazione di giugno che richiamava alle armi le classi 1920 e 1921 e il primo semestre del 1926. I diciottenni del 1926 più l’intera classe del 1920 erano destinati al lavoro in Germania, mentre la classe 1921 a colmare gli alti tassi di diserzione registrati nelle truppe di Salò.
L’annuncio venne dato all’inizio di giugno, e le nuove reclute dovevano presentarsi ai distretti militari fra il 15 e il 24 dello stesso mese.
Con il nuovo manifesto di chiamata il governo di Salò pubblicava il decreto legislativo 14 giugno 1944 numero 393, volto a inasprire il trattamento, già durissimo, riservato ai disertori. Infatti il decreto chiamato “Disciplina del reato di diserzione in tempo di guerra” minacciava un uso indiscriminato della pena di morte. Si fucilava “chi si allontanava senza autorizzazione e senza giustificato motivo dal reparto nel quale era incorporato (…) chi mancava anche solo ad uno degli appelli giornalieri (…) il militare che si trovi assente al momento della partenza del corpo senza autorizzazione e senza giustificato motivo” <231. Ma nonostante le nuove disposizioni di carattere penale emanate con il nuovo bando di arruolamento, i risultati di quella nuova chiamata si risolsero in un ennesimo fallimento.
La situazione italiana era infatti profondamente cambiata. Il movimento partigiano nel giugno del 1944 era diventato una forza attiva e operante, in grado di controllare vaste zone. Il fronte italiano si era rimesso in moto. Roma era stata liberata e gli eserciti alleati si stavano aprendo la strada verso nord, sicché la guerra in Italia sembrava avviarsi verso una rapida conclusione. Emanare un altro bando di chiamata in quel contesto, annunciando poi che parte dei richiamati dovevano recarsi in Germania, sembrò un azzardo anche per gli stessi fascisti. Il comandante militare regionale del Piemonte, Montagna, scriveva a Mischi (Capo di Stato Maggiore dell’esercito di Salò) il 15 giugno dicendo che “allo stato attuale delle cose, la nuova chiamata di classi è un errore perché serve soltanto a rafforzare le forze ribelli”, segnalava poi il 21 giugno come “la voce del popolo ironizza dicendo che i richiami sono stati fatti per fornire i battaglioni complementi ai ribelli, ed è così, come dimostrano le prime segnalazioni dai distretti. In taluni comuni del Canavese, manifesti murali ringraziano il ministro della FF.AA del nuovo contingente di uomini forniti alle bande” <232.
I cremonesi giunti in Val di Susa nel giugno del 1944 apparteneva alle classi richiamate nell’ultimo bando su cui incombeva la pena di morte per i reati di renitenza e diserzione. Per molti di essi, quindi, l’unica via possibile per sfuggire all’arruolamento nelle forze armate italo-tedesche, nell’organizzazioni per il lavoro coatto o, nel caso della renitenza e della diserzione, alla fucilazione, se si scartava l’ipotesi di nascondersi nelle proprie case fino alla fine della guerra, era quella della montagna.
Molti cremonesi scelsero così di imbandarsi. Giunti nella 17a brigata nel mese di giugno, formarono il distaccamento “Faleschini” che si stanziò nel ex convento della Madonna della Bassa, tra il monte Arpone e il monte Lera, sulla destra orografica della Valle di Rubiana. Il distaccamento, comandato da Amedeo Tonani “Deo”, cremonese di ventuno anni, e dal commissario politico Enrico Fogliazza “Kiro”, di tre anni più anziano, partecipò alle azioni più importanti e pericolose pianificate dal comando di brigata, nelle quali il “Faleschini” si distinse per efficienza e organizzazione tanto che, nel novembre del 1944, Tonani e Fogliazza passeranno al comando di brigata, rispettivamente con i ruoli di comandante e di vice commissario politico <233.
Il percorso che portò i cremonesi in Val di Susa è stato raccontato da Fogliazza: “mi suggerirono di andare nel tardo pomeriggio all’osteria del Ponte sul Morbasco in via del Sale e di chiedere di un certo Rino. Così feci. Mi fu indicata con la dovuta circospezione, la via per andare in montagna in Piemonte dove si diceva vi fossero forti nuclei di alpini dell’ex esercito regio, decisi a combattere il fascismo e i tedeschi e che disponevano di notevole quantità di armi, munizioni e vestiario” <234.
Era quindi presente a Cremona una rete clandestina di antifascisti che dirigeva i giovani cremonesi, che manifestavano il desiderio di diventare partigiani, verso la Valle di Susa in Piemonte. Ai nuovi partigiani veniva fissata la data, l’ora e il tragitto da seguire per raggiungere le formazioni partigiane valsusine. Durante il tragitto verso la stazione Porta Nuova di Torino Fogliazza incontrò altri giovani che avevano la sua stessa destinazione: Aldo Codazzi, Paolo Bozzetti, Giampaolo Conca, Guido Della Noce, Norge Ferrari, Attilio Gardinali <235. Giunti a Torino, Fogliazza e i suoi compagni, seguirono “a debita distanza un signore con in tasca il giornale “La Stampa” ben in vista e che ci faceva da guida. Si trattava di Paolo Ghilardotti (Pola) operaio di Cremona che lavorava in una fabbrica di Rivoli, già attivo militante della Resistenza. Ci guidò sino alla stazione di Porta Susa ove ci fornimmo del biglietto. Facemmo sosta a Collegno (…) e ripartimmo quasi subito per Avigliana (…) una volta scesi dal treno ed imboccato il ponte sul fiume Dora Riparia (…) una staffetta scese col compito di portarci nei pressi di Rubiana” <236.
Giunti finalmente in Val di Rubiana i nuovi partigiani si resero subito conto delle difficoltà che avrebbero dovuto affrontare. Infatti della disponibilità di “notevole quantità di armi, munizioni e vestiario”, come fu loro assicurato di trovare in Val di Susa dagli organizzatori della Resistenza cremonese, non vi era traccia. Le reclute sperimentarono subito la durezza della vita in un ambiente montano senza l’equipaggiamento necessario. Le scarpe estive, con cui i cremonesi erano saliti in montagna, si ruppero con le prime marce per sentieri e mulattiere, il freddo delle notti in montagna, affrontato riparandosi con i vestiti leggeri, rendeva insopportabile montare la guardia, e la mancanza di cibo poi limitava la dieta dei partigiani a pochissimo riso cotto in molto brodo oppure, quando si era fortunati, condito con un po’ di burro. Mancava tutto. Dalle coperte, che venivano utilizzate per coprire più persone molto spesso costrette a dormire su giacigli di fortuna e all’addiaccio, alle gavette per mangiare, che venivano ricavate lavorando il legno, o contando sulla magnanimità dei partigiani più anziani, o dei contadini che possedevano qualche vecchia gavetta, oppure utilizzando qualche barattolo che poteva fungere da contenitore di fortuna. Essendo quella la realtà della 17a brigata Garibaldi la domanda che ci si può porre è perché fu detto a Fogliazza, e agli altri cremonesi, di “non portare niente in quanto ci sarebbe stato dato tutto il necessario ed in abbondanza” <237. A Cremona la notizia di una tale presunta abbondanza non poteva essere giunta dai partigiani della 17a brigata visto che il comandante di brigata “Alessio” accolse i giovani cremonesi “imprecando contro chi aveva mandato in quella zona, da luoghi lontani, tanti giovani sprovveduti e senza nulla” <238.
La plausibile preoccupazione del comandante di brigata era motivata dalle difficoltà che potevano sorgere accogliendo come partigiani individui privi dell’indispensabile per affrontare i disagi del nuovo ambiente. L’impossibilità poi di armare masse di uomini sempre più consistenti (la 17a brigata non disponeva di riserve di armi e munizioni in grado di armare la moltitudine di nuove reclute e trasformarle in partigiani attrezzati e preparati alla guerra), congiunta alla totale mancanza di conoscenza dei luoghi e di esperienza bellica per molte delle reclute, rischiava di compromettere la mobilità e l’elasticità della brigata, requisiti fondamentali alla sua sopravvivenza. Infine non andava trascurato il fatto che il continuo aumento di masse di uomini finiva per gravare sulla popolazione locale rischiando di mettere in crisi quel vitale rapporto per la Resistenza. Va però sottolineata una diversa interpretazione del nuovo flusso primaverile di partigiani verso la montagna da parte delle forze politiche che guidavano la Resistenza. Se da una parte la maggioranza dei comandanti partigiani che avevano passato l’inverno in montagna – come “Alessio” – manifestavano forti riserve sulle nuove reclute giunte in montagna, per la serie di ragioni che ho citato prima, le valutazioni politiche espresse dai dirigenti nazionali dei partiti antifascisti erano però di parere opposto. Per i comunisti infatti la crescita consistente del movimento partigiano era considerata un passo importante verso il consolidamento del peso politico della Resistenza visto nell’ottica della politica nazionale. L’atteggiamento comunista dunque era improntato all’accoglienza nelle formazioni garibaldine di tutti i giovani che si presentavano, anche se disarmati. Le armi le nuove reclute se le sarebbero conquistate in battaglia, e non si sarebbe privato così le formazioni della linfa vitale apportata dai nuovi arrivati solo col pretesto che la mancanza di armi, in determinati momenti come i rastrellamenti o le ritirate, potesse rappresentare un ostacolo. Alle direttive del Partito era allineata anche la 17a brigata, e “Alessio”, dopo la sfuriata avuta dinanzi all’ennesimo gruppo di giovani reclute giunte in valle sprovvedute e senza nulla, non respinse i nuovi arrivati ma fece ricorso al magazzino della brigata, posto a metà costa sul monte Civrari che, nonostante contenesse solo polacchette nuove (e non scarponi da montagna) e qualche vettovaglia, permise ai nuovi arrivati di affrontare i primi e più duri giorni di vita partigiana con qualche difficoltà in
meno.
[NOTE]
229 Bruno Carli, Considerazioni e riflessioni su una lettura di giornali fascisti (2a parte – giugno 1944/aprile 1945), in Augusto De Agostani, Aldo Miletto, Enrico Varesio, Quaderni valsusini. Rivista di cultura e di varia umanità, Anno I, N. 2, II° semestre, Toso, Torino 1986, cit., p. 24
230 Rossi, Resistenza e territorio, p. 286
231 Pansa, Il gladio e l’alloro, cit., p. 130
232 Ivi, cit., p. 131
233 Amedeo Tonani: nome di battaglia “Deo”, nato a Cremona (Cr) il 08.11.1923, residente a Cremona in via Tonani, 7. Partigiano dal 20.05.1944 al 30.03.1945 nella 17a brigata Garibaldi. Dal 20.05.1944 al 15.10.1944 con grado di comandante di distaccamento; dal 15.10.1944 al 15.11.1944 con grado di vice comandante di brigata e dal 15.11.1944 al 30.03.1945 con grado di comandante di brigata. Caduto il 30.03.1945 durante un rastrellamento nemico; Enrico Fogliazza: nome di battaglia “Kiro”, nato a Castellone (Cr) il 22.03.1920, residente a Cremona. Appartenente all’Arma dell’Artiglieria reparto 3° reggimento con grado di Sotto Ufficiale Sanità. Partigiano dal 15.06.1944 al 07.06.1945 nella 17a brigata Garibaldi. Dal 20.07.1944 al 10.11.1944 con grado di commissario di distaccamento; dal 11.11.1944 al 11.01.1944 con grado di vice commissario di brigata e dal 12.01.1944 al 07.06.1945 con grado di commissario di brigata, dal database del partigianato.
234 Enrico Fogliazza, Deo e i cento cremonesi in Val di Susa, Edizione Tierrepi, Cremona 1986, cit., p. 40
235 Aldo Codazzi: nome di battaglia “Aldo”, nato a Caderne Ossolaro (Cr) il 22.06.1926, residente a Cremona in via Mantova 17. Partigiano dal 15.06.1944 al 05.02.1945 nella 17a brigata Garibaldi. Dal 15.06.1944 al 01.07.1944 con grado di partigiano; dal 01.07.1944 al 05.02.1945 con grado di capo nucleo. Fucilato per rappresaglia il 05.02.1945 nel comune di Carmagnola; Paolo Bozzetti: nome di battaglia “Tuffo”, nato a Cumiana (To) il 11.10.1923, residente a Cremona in via Magenta 4. Partigiano dal 12.06.1944 al 05.02.1945 nella 17a brigata Garibaldi con grado di partigiano. Fucilato per rappresaglia il 05.02.1945 nel comune di Carmagnola in seguito alla cattura avvenuta durante un’azione di rastrellamento nei pressi del comune di San Gillio; Gian Paolo Conca, è una delle vittime del rastrellamento del 2 luglio 1944; i nominativi dei partigiani Guido Della Noce, Norge Ferrari, Attilio Gardinali, Paolo Ghilardotti non sono presenti nel dal database del partigianato
236 Fogliazza, Deo e i cento cremonesi in Val di Susa, cit., p. 42
237 Ibidem
238 Ivi. cit., p. 43
Marco Pollano, La 17a Brigata Garibaldi “Felice Cima”. Storia di una formazione partigiana, Tesi di laurea, Università degli Studi di Torino, Anno Accademico 2006-2007

La mia esperienza all’Armaguerra. Testimonianza di Libero Scala (“Franco”)
Desidero premettere che scrivere questa testimonianza mi è costata molta fatica. Era prevalente in me il timore e il dubbio di coinvolgere fatti personali con aspetti e episodi vissuti a Cremona nel periodo della Resistenza. D’altra parte i fatti, i ricordi di ognuno di noi, si voglia o no, sono sempre legati alle nostre persone, per cui chiedo scusa ai compagni e agli amici se dalla mia testimonianza possono apparire prevalenti aspetti personali.
Come tanti altri soldati sbandati l’8 settembre 1943 arrivai a Cremona, da Torino, il 16 settembre.
Fu un viaggio difficile e non privo di rischi e pericoli. Mi salvai dalle mani delle SS tedesche in cui ero caduto a Settimo Torinese con una fuga romanzesca. Allo scopo di coprire la mia posizione illegale e mettermi al riparo da altri prevedibili richiami alle armi, riuscii a farmi assumere come operaio meccanico all’Armaguerra, con la quale avevo già avuto rapporti di lavoro durante un periodo di convalescenza.
Nel novembre presi i contatti con l’organizzazione clandestina del PCI, al quale avevo già dato la mia adesione tramite il compagno Franco Ghilardi. Venni immediatamente incaricato di sostituire il compagno Bernardi, il quale in quel periodo svolgeva attività nel settore sindacale in città, a Cremona. Questo incarico mi permise più avanti di allacciare contatti con compagni che nella nostra provincia avevano svolto, negli anni più lontani, un ruolo dirigente nella lotta antifascista.
Uno di questi contatti, per me molto interessante, fu quello che ebbi per incarico della Federazione del PCI con il compagno Dante Bernamonti. Gli incontri avvenivano nella zona di Codogno, dove Bernamonti si trovava rifugiato per ragioni ben comprensibili. Ero inoltre responsabile dell’attività sindacale in fabbrica. Capii l’importanza che questa aveva in quel periodo (per cui anche il PCI vi prestava molta attenzione) da un incontro diretto che ebbi tramite il compagno Davide Susani (“Cleto”), con lo stesso segretario della Federazione, il compagno Giuseppe Gaeta (“Topo”).
Comunque altri fatti vennero ad aggiungersi rendendo sempre più calda la situazione. Nell’aprile del 1944 vennero chiamati alle armi i miei fratelli, Franco del 1920 e Claudio del 1926. Venne presa la decisione che si sarebbero dati alla macchia e dopo una serie di contatti con i compagni che si occupavano degli “sbandati” e della attività “sportiva”, vennero inviati entrambi in Val di Susa. Immediatamente vennero ricercati come renitenti alla leva. Si posero problemi nuovi per tutta la famiglia, già sfollata a San Sigismondo. Mio padre, un ex macchinista delle Ferrovie dello Stato, era stato licenziato dai fascisti, a soli 35 anni e con tre figli piccoli sulle spalle, per “scarso rendimento”. Era questa la formula usata dai fascisti per licenziare chi non si piegava alle loro prepotenze. Vi erano dunque dopo l’aprile del 1944 tutti i motivi per vivere quotidianamente con il timore di arresti, deportazioni. Il 2 luglio 1944 avvenne il rastrellamento dei fascisti e il massacro sul colle del Lys, in Val di Susa. Giovani partigiani cremonesi, parecchi ancora disarmati, vennero catturati e, già prigionieri, assassinati a freddo anche con le armi bianche. La notizia dell’eccidio del colle del Lys si era sparsa in città e si conobbero i nomi dei caduti. Il partito decise a questo punto, anche a seguito di informazioni ricevute da un nostro “informatore” nell’U.P.L., di farmi lasciare la fabbrica e di farmi passare alla clandestinità. Era giunta intanto la conferma che mio fratello Franco era tra i trucidati in Val di Susa, ma non si ebbero notizie di Claudio. Non risultava tra i caduti, ma nessuno sapeva dire dove si trovava. Mio padre, già ammalato seriamente di diabete (e allora non esisteva per la povera gente l’insulina), riuscì a recarsi per tre volte in Val di Susa alla ricerca di Claudio, correndo il rischio di cadere egli stesso nelle mani dei fascisti e dei tedeschi. Solo la terza volta riuscì a trovarlo. Sfuggito miracolosamente al rastrellamento, rifugiatesi in Francia, con una formazione del Maquis che lo aiutò a superare uno stato di shoc, venne fatto rientrare in Italia e affidato ad una famiglia sicura che ebbe cura di lui sino alla fine della guerra. Dopo qualche mese passato alla macchia, considerando che non si erano verificati nei miei confronti minacce o atti di rappresaglia, e questo anche nei confronti della mia famiglia, riuscii nuovamente, d’accordo col partito e grazie ad amici influenti all’interno della fabbrica già collegati al movimento, a riprendere la mia attività all’Armaguerra. La mia attività venne poi allargata alla città, dove ero riuscito a stabilire nuovi contatti con i compagni e con il movimento antifascista cremonese […]
Redazione, La Resistenza nel Cremonese. Quarant’anni dopo, ANPI Cremona, 1986