Non tutti restarono stabilmente nella banda partigiana di Mario

La Banda Mario neipressi di San Severino Marche (MC) in data imprecisata. Fonte: ANPI San Severino Marche. Foto riprodotta in Niccolò Carradori, art. cit. infra

A inizio anni Duemila, quando aveva vent’anni, lo storico Matteo Petracci cominciò a frequentare la sezione Anpi di Macerata, la sua città. Fu così che conobbe Primo Boarelli e Bruno Taborro, scomparsi rispettivamente nel 2012 e 2014. Appena maggiorenni, i due avevano fatto parte del Gruppo Roti, un battaglione partigiano multietnico che durante la Resistenza aveva combattuto nell’area del Monte San Vicino, nelle Marche. Taborro, in particolare, si era unito a un distaccamento che operava nel territorio di San Severino Marche e si chiamava Banda Mario.
Boarelli mostrò per primo a Petracci una vecchia foto del battaglione, che ritraeva un gruppo composto da nazionalità, estrazioni e culture diverse (11 etnie in tutto). Italiani, croati, serbi, inglesi, montenegrini, russi, e perfino un prete. Quelli che lo colpirono di più sul momento, però, furono l’etiope Thur Nur e i somali Aden Sciré e Mohamed Raghé.
Si conoscevano già storie di partigiani di origine africana che avevano combattuto in Italia (Giorgio Marincola e Italo Caracul sono forse i più famosi), ma probabilmente non è mai esistito un battaglione che contasse un gruppo così nutrito di combattenti africani. Oltre ai tre presenti in quella prima foto, infatti, il Battaglione Mario includeva molti altri membri, uomini e donne, di origini etiopi, eritree e somale.
“Per molti anni,” mi ha raccontato Petracci, “ho continuato a pensare a quella foto. Fino a che non ho deciso di cominciare a ricostruire storicamente le vicende del gruppo, per capire chi fossero e che fine avessero fatto.” Il lavoro, fra ricerche d’archivio e testimonianze, è andato avanti per anni, e si è concretizzato nell’uscita del libro Partigiani d’Oltremare. Dal Corno d’Africa alla Resistenza italiana.
A guidare il gruppo, spiega Petracci nel saggio, era l’istriano Mario Depangher, a cui si deve il nome del battaglione. Depangher aveva una travagliata storia alle spalle: socialista convinto, era stato arrestato e mandato al confino più volte per azioni antifasciste – Austria, Russia, Francia – fino a che, rientrato in Italia clandestinamente, non era stato di nuovo catturato e spedito prima a Ventotene, e infine nel campo di internamento di San Severino.
“In quegli anni l’entroterra italiano, specie nelle zone rurali, brulicava di campi di prigionia: sia per ospitare i soldati alleati catturati, sia per internare prigionieri provenienti da quei paesi che l’Italia aveva occupato, come Grecia, Jugoslavia…” Dopo l’8 settembre 1943 molti prigionieri di questi campi fuggirono e si diedero alla macchia, fra cui Depangher – che si rifugiò sul monte San Vicino insieme a molti altri e cominciò la lotta partigiana.
Gli ultimi ad arrivare nel gruppo furono proprio etiopi, eritrei e somali. I membri provenienti dalle colonie del Corno d’Africa, infatti, si trovavano in un altro campo speciale, visto che non erano prigionieri, ma attrazioni. Erano arrivati in Italia nel 1940, a Napoli, per la Mostra delle Terre italiane d’Oltremare: un evento voluto dal regime fascista per mostrare agli italiani le conquiste coloniali.
Con lo scoppio della guerra, però, la mostra era stata chiusa, e nel 1943 i sudditi coloniali erano stati condotti presso Villa Spada, a Treia (in provincia di Macerata, appunto), dove vivevano nelle scuderie della villa in regime di semilibertà. “Nei mesi successivi alla proclamazione dell’armistizio, tre prigionieri di Villa Spada riuscirono a fuggire, e percorrendo vari chilometri, probabilmente con l’aiuto della popolazione locale, si unirono alla Banda Mario. Spiegarono che nel loro campo c’erano molti altri africani che avrebbero potuto e voluto unirsi alla causa, e armi in dotazione alle guardie da poter prelevare.”
Così, la sera del 28 ottobre 1943, la Banda Mario assaltò Villa Spada liberando i prigionieri del campo. Molti dei quali si unirono a loro.
“Quello che mi ha sempre affascinato di questa vicenda,” mi dice Petracci, “è l’impatto del significato che ha quel gruppo così multietnico, in cui si parlavano svariate lingue, e si professavano molteplici religioni. C’erano ebrei, musulmani, cristiani copti, anglicani e cattolici. Il collante era Depangher, che parlava cinque lingue (sloveno, russo, francese, tedesco e italiano), e che era sempre stato un internazionalista convinto. Lo spirito di corpo e di unione, in un’epoca e in un paese dominato da un regime razzista, sono oggi ben visibili.”
I capi del gruppo facevano arrivare al campo base anche delle pecore vive perché i musulmani non mangiavano carne che non fosse macellata secondo la tradizione halal. Questo, continua Petracci, evidenzia “un grande rispetto per la diversità se si pensa che vivevano in clandestinità, accerchiati dai nazisti; eppure c’era comunque questa premura per i proprio compagni.”
Nel libro lo storico ricostruisce le numerose azioni del Battaglione Mario, fra cui spicca la battaglia di Valdiola. Da settimane i nazifascisti stavano portando avanti un’azione di rastrellamento, che dalle Marche meridionali risaliva verso il nord. All’indomani dell’attentato di via Rasella a Roma, le azioni si intensificarono: il 24 marzo 1944, 2000 unità italo tedesche si strinsero a morsa attorno a Matelica, Apiro e Sanseverino. Il battaglione Mario, combattendo strenuamente, riuscì a respingere il nemico per ben due volte.
Petracci, con il suo lavoro, riesce a dare grande risalto all’apporto dei partigiani di origini africane della Banda Mario, alcuni dei quali diedero la vita per la Resistenza. Grazie alle sue ricerche, ad esempio, è riuscito anche a individuare la tomba di uno dei più famosi di loro, l’etiope Carlo Abbamagal, una delle guardie del corpo di Mario Depangher. Morto a Frontale d’Apiro il 24 novembre 1943, durante uno scontro con i nazisti. Grazie a Petracci, nel 2014 Abbamagal è stato degnamente sepolto, con tanto di lapide onorifica.
Fra i partigiani sopravvissuti della Banda Mario, invece, c’era il somalo Aden Sciré. Il quale, una volta ritornato in patria, ha partecipato al processo di decolonizzazione della Somalia per poi diventare ministro della giustizia e della religione.
“È impressionante vedere quanti, fra coloro che hanno preso parte alla lotta partigiana, hanno poi partecipato attivamente ai processi democratici di ricostruzione post bellica,” sottolinea lo storico. “Non solo in Italia, ma, come dimostra Sciré, anche all’estero. Questo fa capire che tipo di esperienza di responsabilità civile debba essere stata la Resistenza.” […]
Niccolò Carradori, La storia ignota dei prigionieri delle colonie africane diventati partigiani durante la Resistenza, Vice, 24 aprile 2020

[…] Ma quale è la particolarità del testo di Petracci? L’aver ricostruito la partecipazione non di singoli ma di un gruppo di africani, presenti sul territorio italiano a causa della Mostra delle terre italiane d’oltremare di Napoli del 1940, che decidono di uscire dalla subalternità e degrado in cui li aveva relegati il governo fascista, per darsi una possibilità di riscatto, un passaggio dall’essere oggetto di storia, osservato dalla rete di uno zoo, all’esserne soggetto consapevole.
Nel maggio 1940 circa 60 africani, etiopi, eritrei, somali furono prelevati e condotti a Napoli in una sorta di villaggio costruito alla Mostra d’oltremare che doveva mostrare a tutti la potenza coloniale civilizzatrice dell’Italia nei confronti del Corno d’Africa e delle altre colonie. L’intento propagandistico doveva servire anche per gli africani, per convincerli che resistere agli italiani era inutile e dannoso: i padiglioni mostravano la tecnologia raggiunta dall’Italia, di cui avrebbero potuto beneficiare i nativi stessi se avessero smesso di remare contro. Non a caso tra gli africani presenti molti erano di rango elevato, trattati molto meglio degli altri quanto ad ospitalità, perché era su di loro che si contava per convincere quelli rimasti a casa delle meraviglie che avevano visto. Il resto del gruppo era formato prevalentemente da artigiani e contadini, molti con al seguito mogli e figli, che avevano il compito di collaborare alla manutenzione del villaggio “tipico” di capanne di fango e paglia, separati dai visitatori da una rete alta circa 2 metri.
Le leggi razziali erano già in atto e si doveva evitare qualsiasi mescolanza. Praticamente era uno zoo umano, con tanto di piante dell’Africa orientale trasportate via mare e trapiantate, animali esotici e capre e galline che servivano da pasto per gli indigeni, che vivevano la loro vita esposti agli sguardi di tutti. L’idea non era certo nuova, già Londra, Parigi, Berlino l’avevano fatto, ma il sogno durò poco: ormai anche l’Italia stava per entrare in guerra.
Il gruppo era sorvegliato da una cinquantina di ascari che entrarono nel Pai (Polizia Africa Italiana) sotto il comando di due italiani. Scoppiata la guerra, impossibilitato il ritorno via Suez, la preoccupazione del rientro in patria degli africani era l’ultimo dei pensieri del governo di Mussolini…Furono lasciati a marcire quasi 3 anni in un villaggio finto, costruito per durare qualche mese e che invece dovette affrontare inverni freddi, pioggia, mancanza di riscaldamento e cibo: le strutture non durature si degradavano facilmente e le rimostranze di quegli uomini avevano come risultato solo risposte negative e razziste: di che si lamentavano quei pigri, insaziabili, rissosi negri che erano pure pagati, oltretutto ingrati per essere stati trasportati nell’Eden (di cui non avevano peraltro visto nulla).
Si decide, nel 1943, di trasferirli a Treia nelle Marche, a Villa Spada, già prigione d’internamento femminile, con al seguito sempre gli ascari, dove ebbero però una maggiore possibilità di contatto con gli italiani.
Cosa indusse un gruppo di loro a prendere la via della montagna? L’occasione fu la venuta della banda di Mario, dopo l’8 settembre, a caccia di cibo e munizioni: alcuni decisero di scappare con loro e affrontare la vita durissima dei partigiani, compreso qualche ascaro. In fondo lì avevano un tetto da cui nessuno poteva cacciarli, non temevano di essere internati perché non erano ebrei e potevano aspettare la fine della guerra per tornare a casa. Il miraggio della libertà? Un pizzico di avventura? Il sogno possibile di un mondo diverso? La riprova che intendevano fare sul serio è il fatto che ritornarono con la banda e rivelarono loro dove erano le armi e le munizioni, che erano il principale assillo dei partigiani. Altri africani si aggiunsero ai primi che erano fuggiti. Dopo ragionevoli sospetti furono accettati dal comandante Mario Depangher, un combattente internazionalista che aggiunse degli africani al già variopinto gruppo formato da italiani, croati, serbi, britannici, ebrei: una babele linguistica, etnica e religiosa. Anche se è ragionevole pensare che tutti parlassero almeno un po’ l’italiano. Vi si trovavano anche due donne etiopi, sciarmutte le chiamavano gli italiani, scelte per il sollazzo dei maschi africani, costrette alla prostituzione con l’inganno, come viene spiegato nel libro. Per molti africani fu una scuola di ideologie libertarie e di giustizia sociale. Fu una grande sfida per tutti superare un po’ per volta incomprensioni, pregiudizi reciproci e razzismi in nome di un ideale superiore, una prefigurazione di quella libertà per la quale tutti combattevano.
Naturalmente il grosso degli ospiti di Villa Spada non si mosse di lì, soprattutto le famiglie con bambini, ma ormai condividevano con gli altri italiani la paura dei bombardamenti, dei rastrellamenti e delle restrizioni alimentari.
Non tutti restarono stabilmente nella banda di Mario, alcuni transitarono, per motivi che non sappiamo precisamente, in altri gruppi marchigiani, ma restando sempre in contatto e qualche volta ritornando dal Depangher.
Molti furono uccisi ed ebbero tombe individuali come Abbabulgù Abbamagal, etiope detto Carlo, nel cimitero di San Severino Marche, altri ebbero lapidi commemorative, altri ancora nelle fosse comuni. Qualcuno tornò in Africa come il somalo Aden Sciré e fece carriera in patria nelle istituzioni pubbliche, prima della dittatura di Siad Barre, o l’etiope Addis Aga, divenuto nel suo paese un eroe nazionale […]
Rosella Clavari, Matteo Petracci, Partigiani d’Oltremare. Dal Corno d’Africa alla Resistenza italiana, Scritti d’Africa, 28 aprile 2021