Nel 2000 nasce Kúmá, rivista che promuove l’incontro tra culture diverse

Nel 1997 viene fondata da Armando Gnisci BASILI, la Banca Dati degli Scrittori Immigrati in Lingua Italiana, con sede presso la Sapienza di Roma, contenitore online che raccoglie informazioni saggistiche e bio-bibliografiche sugli autori immigrati. Si tratta di un repertorio minuziosamente catalogato in cui compaiono centinaia di testi narrativi (racconti, romanzi, poesie) e critici (articoli in riviste specializzate, atti di convegno, recensioni raccolte su magazine e blog online). Nel 2000 nasce «Kúmá», rivista che promuove l’incontro tra culture diverse e che riflette sulla necessità di una decolonizzazione della forma mentis europeista.
Nel secondo periodo, che si estende dal 2000 al 2009 circa, occupando la delicata transizione rappresentata dai primi anni Zero, si intensifica l’attività di mappatura di una lista di autori e di opere da proporre come riferimento, mentre irrompe sulla scena l’innesto di prospettive critiche importate dai campus americani e dagli approcci dei culturals e dei gender studies. Anche in virtù di questa contaminazione metodologica questo secondo momento vive un confronto serrato con l’ideologia e la fenomenologia del femminile, assieme alla rivendicazione dei sostrati etnici dei paesi di provenienza per i soggetti ritenuti colonizzati. Si arricchisce di nuove presenze il panorama delle riviste che dedicano trattazioni tematiche all’argomento. Nasce nel 2003 «El Ghibli», magazine online che riunisce disparate esperienze di esilio e di dislocazione e le convoglia in una redazione multiculturale.7 Nel 2005 esce la prima antologia di racconti scritti da migranti, edita da Laterza e composta da Gabriella Kuruvilla, Igiaba Scego, Ingy Mubiayi Kakese e Laila Wadia. Si intitola, provocatoriamente, Pecore nere, sfoderando un titolo che oggi probabilmente sarebbe inaccettabile. Nel 2006 anche Bologna, dopo Roma, vede nascere in ambito universitario una pubblicazione a carattere periodico. Con il progetto «Scritture migranti» l’esplorazione dei temi dell’esilio e della diaspora diventano il manifesto di un ulteriore approccio alla temperie transculturale che sta anno dopo anno prendendo piede. Potremmo definire questo momento come quello della fase della consapevolezza.
[…] Le definizioni principali che si sono succedute e alternativamente intrecciate nel discorso critico sono le seguenti: letteratura dell’immigrazione e della migrazione; letteratura italofona; letteratura creola; letteratura multiculturale; scrittura migrante; letteratura transculturale e transnazionale; letteratura postcoloniale; letteratura diasporica; e, infine, letteratura di viaggio e odeporica. Come ha individuato tra i primi Raffaele Taddeo, in un lavoro del 1994 poi accresciuto a più riprese e confluito in una formalizzazione più ampia nel 2006 e nel 2019, ad un certo punto la presenza di una letteratura da lui definita con incisività nascente pose all’attenzione della comunità culturale italiana l’avvento massivo di pubblicazioni differenti da quanto si era stati abituati a recepire fino a quel momento.12 Una sorta di corpo estraneo di fronte al quale si avvertiva come urgente l’esigenza di una analisi. In tutte queste definizioni mi sembra che ad emergere sia stata l’ideologia, spesso involontaria, del linguaggio. Con lo sforzo di ricostruire nel dettaglio un dna culturale diverso, rinvenendone le tracce, il problema dela letterarietà di quei testi passò da subito in secondo piano. Ovvero: fu prevalente avvicinarsi a quella produzione con un atteggiamento tassonomico alternativo ad una facoltà di giudizio più neutrale. Come sempre accade quando recepiamo un testo – oltre ad un soggettivo giudizio sul piacere che quel testo in noi ha saputo o non ha saputo provocare – la reazione successiva del lettore per professione è sempre riassumibile nella domanda: è buona letteratura? È cattiva letteratura? È letteratura? In quel caso invece, soprattutto complici la provenienza geografica degli scriventi e il particolare periodo che l’Italia stava attraversando, la reazione comune fu piuttosto identificabile in quesiti quali: che tipo di letteratura è questa? Posso definirla letteratura italiana? Attraverso quale classificazione posso assegnarle un diritto di permanenza?
Come ricorda Comberiati, non era la prima volta che in Italia si verificava una presa di parola letteraria da parte di scrittori stranieri che avevano però scelto la lingua italiana per le loro pubblicazioni. Si trattò di una piccola ma significativa avanguardia del movimento della migrazione che stava per palesarsi, costituita da autori colti e benestanti, che comparirono in libreria tra gli anni Ottanta e gli inizi degli anni Novanta e che però non suscitarono alcun dubbio circa il posizionamento che doveva essere assegnato alle loro opere. I libri di Alice Oxman, Helena Janeczek e Giorgio Pressburger – per citare solo alcuni nomi – furono senza distinzioni classificati come appartenenti alla narrativa italiana contemporanea, proprio come i fortunati romanzi della scrittrice Agota Kristóf, nata in Ungheria, naturalizzata in Svizzera e però scrivente quasi esclusivamente in lingua francese, erano subito stati considerati facenti parte di quest’ultima letteratura.13 Si può meglio comprendere dunque, alla luce di questa disparità di trattamento, l’idiosincrasia avvertita da moltissime tra le migliori voci definite migranti nel momento in cui, attraverso una etichetta critica e le ghettizzazioni che ne erano implicitamente conseguenti, esse venivano considerate come appendice alloctona e problematica di un sistema che faticava non poco a riconoscerle. Una giovane Anilda Ibrahimi, ancora lontana dalla genesi del suo primo romanzo (che vedrà la luce nel 2008), in una tavola rotonda dell’estate del 2002 si esprimeva sul tema con molta lucidità, mettendo a nudo una contraddizione in termini:
«Mi domando: perché gli scrittori ed artisti americani, francesi e inglesi che vivono a Roma, per esempio, non si chiamano migranti o extracomunitari?
Forse perché la parola migrazione è molto legata a quella di disgraziato, poveraccio che arriva in cerca di lavoro, e noi rientriamo in questa classificazione?».14
In questo atteggiamento si possono rintracciare le impostazioni di una cultura autoproclamatasi dominante, anche quando, a fronte di un’apertura che partiva da un pressuposto progressista e inclusivo, non si poteva fare a meno di marcare poi una differenza, rivendicando dunque una sotterranea supremazia. È pur vero del resto che significativi step qualitativi sono stati compiuti nel corso del dibattito critico proprio grazie ad alcune definizioni risultate calzanti e in grado di resistere al vaglio dei tempi. La prima è quella coniata da Armando Gnisci, vero pioniere assieme a Taddeo di questi studi. Quando egli definisce «della migrazione» quella zona emersa all’improvviso all’interno dell’emisfero della letteratura nazionale, viene subito a crearsi una comoda macropartizione che risulterà a lungo utile per classificare specialmente alcune tipologie di testo dal debole tasso di letterarietà.15 La seconda è quella di Graziella Parati che, sulla scia della letteratura francofona, utilizza il termine «italofona» per un gruppo di autori di provenienza afro-italiana, segnalando una continuità tra due o più culture intimamente espressa dal legame del linguaggio.16 La terza e la quarta sono quelle di nuovo elaborate in ambito romano dal Professor Gnisci, che sistematizzando ulteriormente il suo pensiero ridefinisce gli ambiti di esistenza di questa particolare letteratura denotandola prima con l’aggettivo di «creola», alludendo cioè ad una sorta di meticciato linguistico prossimo al verificarsi, e poi spingendo in direzione di ulteriori conseguenze il suo ragionamento con il largo impiego dell’aggettivo «transculturale».17 Su questo termine, vorrei riservare una riflessione a sé stante nel paragrafo successivo. Una quinta assegna, in molti casi a buon diritto, a queste espressioni il termine di «scritture migranti», grazie alla formalizzazione di uno statuto ibrido. Quando Fulvio Pezzarossa introduce la definizione, da una parte intende sottrarsi alla partizione prevista da un concetto di canone che distingueva tra cultura alta e cultura della periferia, o addirittura di massa, ma dall’altra riesce in qualche modo a mettere anche in discussione il requisito della letterarietà per quella stragrande maggioranza di testi che compongono un corpus per certi aspetti troppo compromesso con la dimensione del semplice diario biografico, a fronte cioè di una esperienza privata da condividere senza che l’atto del racconto fosse però investito di implicazioni più complesse.18 Una sesta chiama in causa una dominazione politica e linguistica, in quella prospettiva «postcoloniale» così abituale per Francia e Inghilterra e invece storicamente più debole nella percezione italiana. Anche in Italia infatti, sul finire dei primi anni Dieci, si è diffusa una modalità di lettura postcoloniale, con la quale è stata identificata in primo luogo la produzione dei testi degli scrittori provenienti da quei paesi africani che avevano costituito, nelle mire di espansione fasciste, le colonie dell’impero mussoliniano. Con alcune conquiste ottenute verso la metà del Millenovecentotrenta nel Corno d’Africa orientale, la Somalia, l’Eritrea e l’Etiopia, assieme alla Libia a nord, divennero propaggini del territorio italiano. Qui il dominatore ha imposto il proprio mondo, si è sovrapposto al conquistato, creando un sostrato favorevole alla presa di parola in una lingua ritenuta seconda nel momento in cui si intensificarono i movimenti migratori di quelle popolazioni in direzione della ex madre patria. Molto interessante, soprattutto ai fini della definizione dell’oggetto di questo studio, è citare a quest’altezza la proposta di Daniele Comberiati, che estende la categoria del postcoloniale anche agli autori italofoni di origine albanese.19 Pur riconoscendo la mancanza di una vera e propria azione colonizzatrice nei confronti dell’Albania, la presenza italiana in quella nazione è segnata da almeno due fortissimi momenti di invasione e di determinazione di tipo culturale. L’occupazione militare fascista prima, avvenuta per pochi mesi a partire dal 1939; e il fascino esercitato dalla televisione RAI a partire dagli anni Sessanta in poi, il cui ascolto era severamente proibito dal regime di Hoxha. Questa sorta di attrazione, esercitata peraltro da una lingua che non fu come in altre situazioni imposta, ma alla quale si andò incontro spontaneamente, ha senza dubbio rappresentato un primo decisivo precedente per il quale due aree, storicamente già in passato compenetratesi, cominciarono ad avvicinarsi.
Con una minor fortuna critica infine, in quanto le riprese da parte di altri studi non sono state così numerose, troviamo comunque alcune ulteriori definizioni tutt’altro che prive di spunti e di approfondimenti meritevoli di riflessione. Nell’attributo della «transnazionalità» Franca Sinopoli ne identifica una settima, riprendendo le antiche dissertazioni di Goethe sulla Weltliteratur del 1827 e connettendole a un ricchissima storiografia europea che passa da Curtius e arriva fino a Franco Moretti.20 In questo paradigma, come si vede dotato di radici culturali profondamente ramificate, la mobilità e l’extraterritorialità sembrano spingere alle estreme conseguenze la nozione di una letteratura universale, da intendersi cioè senza confini e senza discendenze patriarcali determinate dall’appartenenza a un suolo. L’elemento del viaggio permette l’ingresso di una ottava e di una nona definizione. Quando Lidia Curti parla di «letteratura della diaspora» riesce a rievocare un termine tanto sinistro quanto diffuso in ambito novecentesco, trasferendo al suo discorso imperniato sul femminile un forte imprinting gender e socio-politico.21 Il viaggio ritorna per altri versi anche nel discorso di Silvia Camilotti, che nel presentare un volume dedicato al tema istituisce una forte relazione tra la dimensione dello spostamento geografico e l’alterità contemporanea.22
[…] 1.3 Letteratura transculturale italofona. Il senso di una scelta che rivendica un metodo.
Tra le varie definizioni che si sono avvicendate, nel tentativo di restituire una fisionomia il più possibile completa al fenomeno della produzione italofona maturato in seno ai movimenti migratori di inizio Millennio, ne ho volutamente lasciata da parte una, perché mi sembrava meritevole di una trattazione a sé stante rispetto alle altre. Dal mio punto di vista infatti la denominazione transculturale racchiude in sé molti spunti semantici da approfondire. Si tratta di una definizione ancora una volta coniata dal professor Gnisci nel 2011, all’interno di un Manifesto programmatico che condensava, al momento del suo nascere, quasi due decenni di scritti dedicati dallo stesso autore al tema. Il valore teorico e la qualità della riflessione di Gnisci, come abbiamo avuto modo di notare, ha di fatto in molti casi permesso lo sviluppo delle fasi iniziali del dibattito critico. Inoltre, sono sue sia la prima macro-definizione dedicata alla letteratura della migrazione sia la distinzione, molto calzante in quel contesto, di prima ondata, nettamente separata dalla successiva fase carsica a cui andarono incontro quei testi. Nel 2011 Gnisci scrive:
«La Transculturazione deve sperimentare e promuovere pratiche critiche di azione transculturale tra i saperi contemporanei allo scopo di produrre una nuova cosmovisione comunitaria attraverso forme di azione creativa e di salute generale. Tra le persone umane, tra generi e tra generazioni, tra le culture; tra le persone umane e le non-umane, tra i viventi e il pianeta abitato da noituttinsieme e il cosmo, di entrambi i quali siamo partecipi. Noi crediamo, ma non da soli, che il Multiculturalismo e l’Interculturalità siano due parole-concetti che debbono essere revisionati profondamente nell’Europa occidentale e nell’Unione Europea, dove abitiamo: la prima attraversa una evidente crisi politica, la seconda è una barchetta in balìa mediterranea di una crisi di senso. Noi pensiamo che la crisi politica, tempo fa annunciata clamorosamente dalla premier germanica Angela Merkel, rappresenti l’ultima conseguenza della persistente e confusa visione eurocentrica della politica unitaria degli europei uniti nel cerchio di stelle dorate. Ma, anche, dal nostro punto di vista transculturale, l’esito della mancata decolonizzazione degli europei da se stessi, dall’essere stati e tuttora esserlo: coloni e padroni. […] Le parole-concetti, multiculturalismo e interculturalità, sono state logorate dalla mancata, ma sempre più urgente, decolonizzazione delle nostre menti ancora coloniali: prima, nei confronti delle civiltà violentate da noi co-co [conquistatori-coloni] planetari della modernità, e poi riadattata in Europa per “accogliere” africani e asiatici, soprattutto, dopo la decolonizzazione incompiuta e fallita dei popoli da noi devastati, ma soprattutto come reazione alla recente Grande Migrazione dei “dannati della terra” negli stretti territori già superaffollati della coda peninsulare dell’Eurasia».24
Questi sono alcuni dei passaggi salienti del Manifesto Transculturale. Ne ho riportate porzioni piuttosto ampie perché al loro interno sono contenute alcune affermazioni che vorrei riprendere, adattandole in direzione della prospettiva analitica che mi sembra sia la più funzionale al tipo di studio che vorrei condurre.
7 Sulla pregnanza di questo aggetivo in ambito letterario e migrante cfr. ANACLERIA Valentina, Sulla teorizzazione della scrittura migrante in Italia. Il multiculturalismo applicato alla letteratura, in «Postfilosofie. Il nuovo mondo delle migrazioni», n. 9, 2016, pp. 27-42.
12 TADDEO Raffaele, Letteratura nascente, Raccolto Edizioni, Milano 2019.
13 COMBERIATI Daniele, Scrivere nella lingua dell’altro. La letteratura degli immigrati in Italia (1989-2007), Peter Lang, Bruxelles 2010, pp. 15-17.
14 IBRAHIMI Anilda, intervento all’interno de Il seminario degli scrittori migranti, Lucca, 16-20 luglio 2002. [http://www.sagarana.net/scuola/seminario2/mercoledi_pomeriggio.htm] (ultimo accesso in data 7 febbraio 2021).
15 GNISCI Armando, La letteratura italiana della migrazione, Lilith, Roma 1998.
16 PARATI Graziella, Italophone Voices, in Margins at the Center: African Italian Voices, «Italian Studies in Southern Africa», n. 2, 1995, pp. 1-15.
17 Cfr. rispettivamente GNISCI Armando, Creolizzare l’Europa. Letteratura e migrazione, Meltemi, Roma 2003 e Id., Manifesto transculturale, Maggio 2011, Roma [http://www.patrialetteratura.com/il-manifesto-transculturale-aggiornato/] (ultimo accesso 21 aprile 2021).
18 PEZZAROSSA Fulvio, Altri modi di leggere il mondo. Due decenni di scritture uscite dalle migrazioni, in Aa. Vv., Leggere il testo e il mondo. Vent’anni di scritture della migrazione in Italia, a cura di PEZZAROSSA Fulvio e ROSSINI Ilaria, Clueb, Milano 2012, pp. VII-XXXIII.
19 COMBERIATI Daniele, Riscrivere la storia. Modalità di rappresentazione del colonialismo italiano in Albania, in «Incontri», n. 28, 2013, pp. 25-33.
20 SINOPOLI Franca, Interculturalità e transnazionalità della letteratura: questioni di critica e studi di casi, Bulzoni, Roma 2014, pp. 109-147.
21 CURTI Lidia, La voce dell’altra. Scritture ibride tra femminismo e postcoloniale, Meltemi, Roma 2006.
22 CAMILOTTI Silvia, Leggere la lontanza, in Av. Vv., Leggere la lontananza. Immagini dell’altro nella letteratura di viaggio della contemporaneità, a cura di CAMILLOTTI Silvia, CROTTI Ilaria e RICORDA Ricciarda, Edizioni Ca’ Foscari, Venezia 2015, pp. 7-10.
23 Cfr. ROMEO Caterina, Vent’anni di letteratura della migrazione e di letteratura postcoloniale in Italia: un excursus, cit., p. 385.
24 GNISCI Armando, Manifesto Transculturale, Maggio 2011, Roma [http://www.patrialetteratura.com/il-manifesto-transculturale-aggiornato/] (ultimo accesso 21 aprile 2021).
Fabio Massimo Rocchi, Distanze che avvicinano. Le prime voci della letteratura transculturale italofona di provenienza albanese. Dones, Vorpsi, Ibrahimi, Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Siena, 23 giugno 2021